una rete di azioni per l'apprendimento riflessivo
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Questo paper è disponibile online sul sito web di STS - Associazione Italiana per lo Studio Sociale della Scienza e della Tecnologia; può essere citato in accordo con le consuete convenzioni accademiche e non può essere pubblicato in altri luoghi senza il permesso esplicito di autori o autrici. Si tenga presente che, qualora questo paper venisse fatto circolare in forma cartacea o elettronica, vi si dovrà sempre accludere questa medesima nota sul copyright e, in ogni caso, esso non deve essere utilizzato per fini commerciali o per trarne anche indirettamente profitto. Citare questo paper nella seguente forma: Caprari, C., 2008, La pratica chirurgica e il controllo degli errori: una rete di azioni per l’apprendimento riflessivo, paper presentato al II Convegno nazionale STS Italia: Catturare Proteo. Tecnoscienza e società della conoscenza in Europa, Università di Genova, 19-21 Giugno; disponibile sul sito www.stsitalia.org/papers2008. Pubblicato online su www.stsitalia.org il 30 novembre 2008.
Paper presentato al II Convegno nazionale STS, Catturare Proteo.Tecnoscienza e società della conoscenza in Europa, Genova, 19-21 Giugno 2008, all’interno della sessione PRATICHE DI APPRENDIMENTO NELLA TECNOSCIENZA
La pratica chirurgica e il controllo degli errori: una rete di azioni per l’apprendimento riflessivo
Carlo Caprari Dipartimento Innovazione e Società, Università Roma Sapienza
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La pratica chirurgica e il controllo degli errori: una rete di azioni per l’apprendimento riflessivo
di Carlo Caprari
1 Introduzione
Il dibattito sugli errori medici in sanità ha coinvolto fin dagli anni Ottanta le maggiori
istituzioni sanitarie internazionali e, negli ultimi anni, anche quelle italiane. La logica assicurativa e
quella epidemiologica, che sino ad oggi hanno permeato le strategie di fronteggiamento dei rischi
da parte delle organizzazioni, hanno fallito i loro obiettivi dinnanzi alle esorbitanti richieste di
risarcimento economico avanzate da quei pazienti danneggiati, più o meno gravemente, a causa di
errori medici1.
Nella letteratura manageriale inerente la sicurezza clinica non si è sviluppato un particolare
interesse ad indagare più approfonditamente i singoli concetti di errore medico, rischio clinico e
sicurezza. Infatti tali concetti vengono combinati insieme in definizioni del tipo “gestire la
sicurezza”, “gestire il rischio”, “gestire l’errore medico”, come se avessero lo stesso significato e
come se fossero pratiche organizzative intercambiabili. E' stato rilevato che “nel linguaggio
quotidiano il termine rischio è piuttosto vago, rischio e incertezza sono spesso equivalenti, lo si usa
come minaccia, azzardo, pericolo, danno. Rischio e incertezza sono diventati sinonimi, con la
parola rischio si indicano fenomeni che possono causare danni notevoli, senza che sia possibile
elaborare la probabilità del loro prodursi. Nella stampa quotidiana il termine rischio è usato
ampiamente così come nelle riviste mediche e epidemiologiche (Pipan, 2008)”
Al contrario le scienze sociali, soprattutto in ambito accademico, hanno cercato di
sviluppare dei frame teorici specifici per indagare in modo distinto i termini di rischio e di sicurezza
e poi studiarne le connessioni a livello di strategie organizzative, nell’ipotesi che queste abbiano
1 Fin dagli anni Ottanta, nel campo organizzativo sanitario globale, il dibattito sugli errori medici ha generato lo sviluppo di una nuova idea manageriale etichettata come Clinical Risk Management. Il processo di genesi e di sviluppo della nuova etichetta e la ricostruzione della rete di azioni che la sostiene tutt’oggi è oggetto di analisi in un saggio di Pipan e Caprari (2009) di prossima pubblicazione.
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una decisiva incisività sulla sfera delle pratiche lavorative.
La ricerca che qui presento prende l’avvio da un fatto di cronaca, un incidente accaduto in
una sala operatoria di un ospedale romano che ha danneggiato gravemente un paziente. Gli organi
della magistratura hanno stabilito che il fatto è stato causato da un errore medico e hanno
individuato nella stessa sala operatoria delle carenze organizzative in materia di sicurezza dei
pazienti. Dal canto suo la dirigenza dell’ospedale ha risposto all’evento ideando un programma di
gestione del rischio clinico, rivolte alle sue sale chirurgiche, per contrastare gli errori operativi delle
équipe.
L’intento della ricerca è quello di comprendere come l’ideazione e l’attuazione della nuova
funzione di fronteggiamento dei rischi, attivata dalla dirigenza ospedaliera, abbia comportato per i
chirurghi e gli infermieri della sala operatoria una riflessione sui temi dell’errore umano e del
rischio, che sono stati tradotti concretamente in routine lavorative, dedicate alla prevenzione dei
danni ai pazienti.
Mi sono interrogato sulla natura soggettiva dei nessi causali che esprimono la relazione tra
l’incidente accaduto e il presunto errore dei chirurghi, a partire non dalle definizioni proposte dagli
scienziati sui temi del rischio e dell’errore umano, ma dalle definizioni operative attivate dalle
stesse équipe chirurgiche che non sempre coincidono tra loro. Queste differenze sono state
sottolineate nell’indagine dove ho dato risalto soprattutto agli aspetti soggettivi dei processi
dell’organizzare che non sono indipendenti dalle percezioni e dalle coscienze delle persone. Gli
esseri umani partecipano alla costruzione sociale della vita organizzativa quando creano, usano e
interpretano simboli intesi come racconti, cerimoniali, artefatti tecnologici regolamenti e manuali,
in coerenza o in contrasto con le interpretazioni che offrono gli altri, sviluppando frizioni, nuove
energie lavorative e l’innovazione (Alvesson, Berg; 1993).
La riscoperta del sociale nel tecnico (Gherardi, Strati, 2004) rende possibile la comprensione
dei modi di conoscere e di comprendere i fenomeni sociali etichettati come rischi, pericoli e
minacce, e la loro traslazione in oggetti “da gestire” attraverso l'attribuzione sociale di etichette
matematiche ed epidemiologiche.
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2 L'etnografia in sala operatoria2
La ricerca che presento prende l’avvio da un evento particolare, un incidente dovuto a un
errore medico, accaduto in una sala operatoria di un ospedale romano. L'errore del chirurgo ha
comportato l'asportazione del rene sbagliato al paziente e ne ha compromesso irreversibilmente il
sistema nefrologico3.
L’evento, raccontato dai media locali, ha compromesso la reputazione pubblica della
dirigenza dell’ospedale e dell’équipe chirurgica responsabile, costrette a fronteggiare un processo
giudiziario. L’inchiesta interna avviata dalla Direzione Generale della Asl di riferimento si è
intrecciata con l’indagine della magistratura locale: entrambe hanno stabilito che l’incidente è stato
causato da un errore di valutazione clinica del primario, e dall’organizzazione dell’intervento da
parte degli altri operatori chirurgici. Inoltre le due inchieste hanno individuato nella stessa sala
operatoria delle carenze organizzative, tecnologiche e ambientali in materia di sicurezza ed igiene
dei pazienti, imputandone la responsabilità direttamente ai vertici aziendali4. Terminato l’iter
giudiziario con la condanna del primario, che ha eseguito l’intervento errato, e dell’intera équipe, il
comparto direttivo dell’ospedale ha ideato un programma di risk management clinico, rivolto alle
sale chirurgiche, per contrastare le possibilità di commettere altri errori da parte delle équipe e per
restituire all’opinione pubblica un messaggio di fiducia e sicurezza nei confronti della struttura
ospedaliera.
Attraverso l’attivazione della nuova funzione aziendale di gestione del rischio la Direzione
Sanitaria ha cercato altresì di ridurre i costi economici che ha dovuto affrontare a causa delle
decisioni prese dalla società assicuratrice di riferimento, la quale ha innalzato l’importo dei premi
assicurativi per la copertura dei rischi professionali dei medici e quelli per i casi di sinistro dei
pazienti. La società assicuratrice - in seguito all’incidente -, ha infatti ritenuto che le équipe
chirurgiche non fossero più in grado di restituire un servizio assistenziale affidabile, date le carenze
organizzative in cui versavano. Al contempo i pazienti sono stati considerati soggetti ad un’alta
2 I risultati della ricerca presentati in questa sede fanno parte di un più ampio programma di indagine sul campo, durato tre anni, e sviluppato durante il percorso del mio dottorato in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche. Alcune parti dell'indagine sono state già presentate, negli anni precedenti, in occasione del convegno AIS Salute del 2006 (Pescara) e del congegno nazionale AIS del 2007 (Urbino). Ringrazio Tatiana Pipan per i suoi consigli e per il supporto intellettuale allo svolgimento del lavoro di ricerca e alla stesura del presente aticolo. 3 Gli errori di questo tipo sono stati classificati dalla letteratura manageriale medica come “errori di lato”. Essi si verificano quando si interviene erroneamente su di un arto o su di un organo sano piuttosto che su quello patologico. L'errore è dovuto alla presenza nel corpo umano di organi simmetrici come i polmoni, i reni, gli occhi, le braccia. 4 Nello specifico l’indagine conoscitiva dell’Asl ha coinvolto i responsabili del Coordinamento Interno del Servizio di Chirurgia (nella fattispecie di un medico chirurgo e delle due caposala dei Blocchi Operatori), il direttore del Dipartimento di Chirurgia (primario di chirurgia), e il Direttore Sanitario, trasferito al momento della ricerca. ringraziare pipan
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probabilità di incorrere in un danno, e pertanto, fino a quando la situazione non sarebbe migliorata, i
costi dei premi assicurativi sarebbero rimasti elevati. Conseguentemente i responsabili nominati
dalla direzione sanitaria per l’attivazione del programma di gestione dei rischi hanno attivato anche
un percorso di formazione e aggiornamento professionale sui temi della prevenzione degli errori
medici a cui hanno dovuto partecipare, obbligatoriamente, tutti gli operatori delle sale chirurgiche
(medici, infermieri, anestesisti).
Esplorare le attività chirurgiche quotidiane
L’indagine etnografica che segue ha ricostruito le dinamiche sociali attraverso le quali la
direzione generale della Asl, la direzione sanitaria dell’ospedale romano e le équipe hanno recepito
le conoscenze e le metodiche di gestione del rischio, in particolare la tecnologia della check list per
il controllo degli errori medici, imitando i contesti sanitari internazionali per adattarne le specifiche
esperienze alle routine lavorative locali. Mi sono concentrato in particolar modo sui processi
dell’organizzare e del raccontare il lavoro della sala operatoria da parte delle équipe per
comprendere come le diverse professionalità si siano impegnate (oppure abbiano resistito) al
riconoscimento, alla classificazione e alla prevenzione degli errori.
Mi sono domandato se il programma di formazione sul rischio clinico sia rimasto un fatto
isolato della loro esperienza professionale, se abbiano aderito al programma solo per effetto della
coercizione normativa della direzione sanitaria, oppure se abbiano attivato una riflessione profonda
sul contenuto professionale, tecnico e umano del servizio operatorio.
L'esplorazione delle attività operatorie quotidiane dell'ospedale romano mi ha permesso di
osservare da vicino come l’introduzione di una tecnologia relativamente semplice come una check
list, ideata per il controllo e la prevenzione degli errori medici, ha comportato in realtà una
modificazione complessa e affatto scontata di logiche organizzative preesistenti e radicate nel
tessuto lavorativo delle sale operatorie. Nello specifico contesto studiato, i fautori del programma di
gestione dei rischi hanno espresso chiaramente l’intenzione di realizzare il mutamento
organizzativo attraverso l’introduzione di nuove procedure di controllo degli errori per disciplinare
rigidamente il lavoro delle équipe.
L’indagine ha dato risalto soprattutto agli aspetti soggettivi dei processi di organizing
(Weick, 1993) che non sono indipendenti dalle percezioni e dalle coscienze degli operatori
intervistati e osservati durante le loro interazioni quotidiane. Grazie al loro coinvolgimento in una
rete globale di relazioni interorganizzative, le pratiche di prevenzione degli errori, sviluppate
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dall’équipe chirurgiche romane, hanno acquisito delle caratteristiche isomorfiche rispetto a quelle
attivate nel campo sanitario più ampio. Il che non vuol dire, a mio parere, che le équipe stiano
imitando meccanicamente i modelli di gestione degli errori attivati negli altri contesti ospedalieri.
Piuttosto l’utilizzo costante di linguaggi, tecniche manageriali e comportamenti organizzativi già
sperimentati da altri si combinano con le specificità del contesto locale, lasciando margini di
sviluppo per una diversa conoscenza professionale e riflessiva e, in definitiva, alla
microinnovazione.
Formare le équipe per prevenire gli errori
A seguito della denuncia del paziente, il gruppo manageriale della Asl coinvolta ha cercato
di rispondere all’opinione pubblica, sfiduciata nei confronti delle sale operatorie dell'ospedale,
progettando un corso di formazione teorica e pratica5. L’ideazione e la sperimentazione del progetto
sono state attivate dallo staff dell’Ufficio Qualità della Asl composto da uno psicologo esperto in
materia di igiene e da una psicologa clinica. Entrambi hanno attivato esplicitamente una
connessione ideale con le esperienze sviluppate da un'agenzia americana di accreditamento, la
J.C.A.H.O., che per prima (dal 1995) ha classificato le tipologie di errori che più di frequente si
verificano nelle sale operatorie6.
Sul modello offerto dall’agenzia americana i due psicologi hanno costruito una
classificazione interna degli errori medici, a partire dalle informazioni epidemiologiche disponibili
nella propria Asl e in generale nel Sistema Informativo Ospedaliero del presidio, curato da uno
degli infermieri del blocco operatorio. Così, integrando le fonti dei dati internazionali e quelle
dell’ospedale, l’Ufficio Qualità della Asl Roma* si è dotato di un temporaneo database sulla
tipologia degli errori ed eventi avversi che possono accadere in sala operatoria. La mappa dei rischi
è stata sottoposta successivamente alla discussione critica del personale chirurgico, organizzato in
focus group secondo le indicazioni dei due psicologi.
Nella fase di discussione collettiva i criteri di classificazione del rischio sono stati ri-
modificati dalle équipe e hanno riguardato soprattutto le procedure di programmazione e di
organizzazione degli interventi operatori, indicate dagli stessi operatori come le principali fonti di 5 Delibera della Direzione Generale, Amministrativa e Sanitaria, dicembre 2002. 6 Nel rapporto della J.C.A.H.O. americani è stato evidenziato come le complicazioni operatorie e post operatorie, e gli interventi chirurgici sulla parte sbagliata rappresentino il 23.1 % di tutti gli incidenti. Questi, come conseguenza, provocano nell’84% dei casi la morte del paziente e nel 16% gravi lesioni. La J.C.A.H.O. rivela altresì che il 76% dei casi osservati riguardano interventi su parti o organi del corpo sbagliate, nel 13% riguardano interventi sui pazienti sbagliati e nell’11 % riguardano procedure chirurgiche sbagliate o non rispettate (www. jcaho.org).
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errore. Successivamente, attraverso la collaborazione congiunta dei chirurghi e degli infermieri, la
classificazione dei rischi ha prodotto un insieme di linee guida per la standardizzazione delle attività
chirurgiche in cui ogni processo operatorio è stato scomposto per tipologie e specialità. Le
indicazioni contenute nelle linee guida hanno poi fornito un primo spunto di riflessione per ideare la
check list di controllo, utilizzata per poter rendere le attività chirurgiche esenti a errori. Mi ha
L'ideazione di una check list ha rappresentato una prima oggettivazione (Czarniawska,
Joerges, 1990; Latour 1987) dell’idea di gestione del rischio clinico, sviluppata nel contesto
organizzativo specifico, e una sua apparente stabilizzazione (Gherardi, Lippi, 2002). La traduzione
di un’idea in un oggetto realizza la chiusura di un processo di ordinamento per il quale gli attori
hanno innescato una forma di condivisione delle attività nella rete organizzativa, senza però che si
identificassero del tutto con essa, il che lascia presupporre la possibilità di promuovere degli
ulteriori cambiamenti nel futuro (Nicolini, 2001). La check list simboleggia la stabilizzazione del
percorso formativo al quale hanno partecipato le équipe e attraverso il quale hanno sviluppato una
processo di costruzione collettiva della propria mappa dei rischi, identificandoli quali carenze dei
criteri di programmazione del lavoro finora utilizzati.
Per i medici e gli infermieri delle sale operatorie il rischio che si commettano degli errori è
connesso all’assenza di un coordinamento efficace delle risorse materiali e umane delle sale
operatorie, che si traduce a sua volta nella mancanza di una pianificazione efficace delle routine
quotidiane. Partecipando al percorso di formazione i chirurghi e gli infermieri hanno aderito
all’idea che i rischi di errore medico non sono tanto connaturati alle caratteristiche professionali e
non dipendono dalle loro decisioni sui casi clinici, ma hanno spostato l’attenzione sul processo
organizzativo nel quale sono inseriti.
Le équipe chirurgiche hanno così appreso che la genesi degli incidenti dipende in
larga parte dalle modalità in cui le strutture sanitarie organizzano i propri sistemi di coordinamento
del lavoro e non dai modi in cui i singoli operatori lavorano (Reason, 1990). La cornice simbolica
(Alvesson, Berg, 1993) entro la quale si è realizzato l’apprendimento delle tecniche di management
del rischio in chirurgia ha condotto le équipe a concentrarsi sulla dimensione collettiva del loro
contesto organizzativo. Gli operatori hanno concentrato l’attenzione su tre aspetti cardine che
concorrono alla riflessione sullo sviluppo degli errori medici: la complessità del sistema
organizzativo; le regole aziendali che delimitano gli ambiti di azione degli operatori; gli strumenti
tecnici e amministrativi per il controllo e la prevenzione degli errori (Cinotti, 2004; Novaco, Viola,
2004).
La formazione in aula, la redazione delle linee guida e l'ideazione finale della check list,
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sono tutte azioni che evidenziano l’esigenza di rafforzare un sistema d’ordine nelle attività
chirurgiche attraverso la produzione di regole che disciplinino maggiormente il coordinamento
interno, stabilendo le varie responsabilità e uniformando il lavoro di équipe.
Ciò che hanno espresso chiaramente gli operatori è stata la necessità di dotarsi di nuovi
criteri di programmazione del lavoro per fronteggiare l’eccessiva turbolenza operativa, la causa
principale dell'incidente al rene. Quella stessa turbolenza che, come vedremo tra poco, è
responsabile di gran parte degli eventi avversi che si verificano quotidianamente in sala operatoria.
3. Networking nel lavoro chirurgico
Il reparto di un ospedale rappresenta una sub-unità lavorativa a sé stante e allo stesso tempo
debolmente connessa con le altre (Weick, 1993), tale da preservare una certa autonomia
organizzativa pur mantenendo un sufficiente livello di coordinamento con il resto del sistema
ospedaliero. Se considerato come un insieme di attività programmate tutti i comparti ospedalieri
possono essere visti come “una combinazione di modelli organizzativi: un insieme di relazioni di
autorità e procedure burocratiche.
L’organizzazione delle sale operatorie e dei reparti dell’ospedale romano, così come quella
degli altri ospedali italiani, corrisponde ancora oggi al modello individuato nella legge Mariotti n.
132/19687. Quello proposto dalla legge è un modello organizzativo per cui ogni sezione e reparto
del sistema è organizzato per rispondere alle diverse funzioni di cura e di assistenza di cui
necessitano i pazienti. Affinché ogni funzione del sistema possa essere esautorata occorre che ogni
sub-unità organizzativa sia autosufficiente e disponga di risorse tecnologiche ed umane proprie
(Cicchetti, 2004).
Ma le attività dei reparti possono essere considerate anche come attività non programmate,
fondate sull’autonomia professionale discrezionale, sull’attività di coordinamento e di
comunicazione, nonché sugli adattamenti volontari dello staff. Rappresentano in definitiva un
sottosistema organizzativo specializzato [dove] l’efficienza può essere multi dimensionale:
economica (costo dei servizi), clinica (qualità delle prestazioni), sociale (contributo al benessere
sociale) (Pipan, 1996)”
Secondo tale impostazione ogni sala operatoria, rappresenterebbe un’unità organizzativa
7 Secondo la legge “gli ospedali sono costituiti da sezioni, divisioni, servizi speciali per diagnosi e cura e servizi generali [e dove] l'organizzazione e ripartizione dei servizi [deve ispirarsi] al principio del migliore soddisfacimento delle esigenze della cura e delle nuove funzioni medico-sociali attribuite agli ospedali ed alla necessita di assicurare la direzione, il coordinamento ed il controllo dei servizi e di ogni altra attività ospedaliera (art. 41)”.
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autosufficiente, che dovrebbe disporre di tutte le risorse necessarie per poter condurre le attività
chirurgiche in completa autonomia. Nonostante lo stato di separatezza anche fisica delle singole
unità lavorative, il modello organizzativo che la sottende assume una forma ancora più complessa
dovuta all’effettiva struttura socio-organizzativa (Hatch, 1999) del blocco operatorio, prodotta e
riprodotta nel lavoro quotidiano dalle équipe. La costruzione sociale delle sistema di relazioni che
lega insieme operatori chirurgici, tecnologie e pazienti ha creato nel tempo una struttura
organizzativa parallela rispetto a quella burocratica. Infatti le convenzioni normative che
disciplinano il lavoro delle équipe sono soppiantate implicitamente dalle condizioni di emergenza
operativa che si verificano ogni giorno, ma che non sempre sono prevedibili. Le emergenze non
dipendono soltanto dallo stato clinico dei pazienti, né dall’ethos professionale dei sanitari, ma sono
in larga parte condizionate dagli stessi criteri di programmazione e coordinamento del lavoro
chirurgico in uso nelle sale operatorie.
Il punto nevralgico della programmazione degli interventi riguarda il processo di
conformazione dei singoli gruppi di lavoro, che va sviluppato quotidianamente attraverso il
raccordo di tutti gli attori dell’équipe (Middleton, Brown, 2005). Gli anestesisti, i chirurghi e i
tecnici di laboratorio non sono inseriti nell’organigramma del blocco operatorio, ma attendono
separatamente il loro turno di lavoro nelle singole sale operatorie mentre svolgono le altre attività
negli specifici reparti di provenienza. La routine lavorativa, relativamente stabile negli altri
comparti assistenziali, deve essere riattivata e spesso re-inventata quotidianamente in sala
operatoria, perché scaturisce da un sistema di azione temporaneo e volatile, che si dissolve alla fine
di ogni intervento e deve essere ricostruita di nuovo per quelli successivi (Borsato, Tessadori,
2002).
Se il lavoro delle équipe è sostanzialmente un lavoro di networking (Middleton, Brown,
2005; Bruni, 2005), cioè del connettere insieme diverse attività pratiche con attori eterogenei, le
sale potrebbero essere rappresentate proficuamente attraverso la metafora dell'ologramma (Morgan,
2000) piuttosto che quella dell'organigramma funzionale.
Gli ologrammi riproducono in serie la rappresentazione intelligente del modello di
riferimento (la matrice). In veste di ologrammi, ogni sala si connota per la presenza di un diretto
responsabile del lavoro, il primario, che si avvale dei suoi collaboratori diretti - i chirurghi e gli
anestesisti - nonché di un gruppo di attori operativi che espletano il lavoro di tipo esecutivo, gli
infermieri. Questo modo di guardare all’organizzazione esprime le sue potenzialità esplicative
soprattutto in quei contesti caratterizzati dall'incertezza del lavoro e dalla flessibilità degli obiettivi
prefissati. Di fronte alle emergenze e agli esiti imprevisti, come accade per il decorso operatorio, è
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di cruciale importanza poter intraprendere delle decisioni subitanee anziché affidarsi a delle
procedure pre-codificate.
I legami deboli del reticolo di azioni
Ogni intervento è il risultato di diversi processi organizzativi, che si attivano
quotidianamente nelle altre unità della struttura - ad esempio nei reparti di anestesia, di chirurgia
specialistica e nei laboratori diagnostici - e che solo successivamente si raccordano intono al
paziente in sala operatoria. Dato il sistema vigente di coordinamento a legame debole, gli attori
chirurgici non hanno il controllo totale né una visione d’insieme del lavoro dei colleghi, svolto oltre
i confini del blocco operatorio. Anche i movimenti del paziente all’interno della struttura
ospedaliere sono pressoché invisibili alle équipe.
Quando una delle unità del sistema non riesce, per ragioni varie, ad intercettare le altre
attività nel flusso organizzativo generale e ad allinearsi con esse, gli obiettivi della programmazione
chirurgica deviano dalla pianificazione originaria, lasciando tutti gli operatori nell’incertezza, come
si racconta nella storia successiva.
Un paziente scompare nella rete Sono le 8,00 del mattino e come da regolamento il primo intervento previsto per la seduta quotidiana dovrebbe cominciare immediatamente. L’anestesista e i due infermieri (il ferrista e l’ausiliario) sono già in sala che attendono l’arrivo del paziente e dei chirurghi. Il campo operatorio è stato già allestito. Come mi spiegano gli infermieri il paziente, prima di essere operato, deve essere sottoposto a un esame endoscopico il cui esito permette ai chirurghi di valutare il tipo di intervento da eseguire. Ma l’anestesista e gli infermieri hanno constatato che sul registro delle consegne della sala e sulla lista operatoria, appesa sul muro dal giorno precedente, non ci sono indicazioni in merito all’esame. Tutti si chiedono perciò che fine abbia fatto il paziente. Insieme ipotizzano che forse il paziente si trova al piano terra, nel laboratorio d’analisi. Probabilmente l’intervento comincerà più tardi rispetto all’orario previsto, in attesa che i tecnici ottengano un referto. In realtà nessuno dei presenti sa cosa sta accadendo fuori dalla sala operatoria e quali decisioni sono state prese dal primario. Alle 8,30 la situazione non è cambiata e tutti sono ancora in attesa che i chirurghi facciano la loro comparsa per sciogliere il mistero. <<Mancano proprio le materie prime: i chirurghi, il paziente e il referto diagnostico!>> esclama l’anestesista. Su questa ultima considerazione entra nella pre-sala il paziente accompagnato da un ausiliario. Questo ci conferma che l’esame diagnostico non è stato effettuato. Tutti i presenti si convincono che, probabilmente, i chirurghi preferiscono procedere con l’intervento senza utilizzare i risultati delle analisi. Alle 8,45 l’équipe, incompleta dei chirurghi, è ancora ferma e l’anestesista non sa se sia il caso di cominciare con le procedure anestesiologiche. L'anestesista è sempre più convinta che il paziente non avrebbe dovuto essere stato condotto in sala operatoria, ma nei laboratori per
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sostenere le analisi. Finalmente alle 8,55 arrivano due chirurghi che, in assenza del referto, sono incerti sulle iniziative da intraprendere. Ormai il tempo a loro disposizione si è protratto eccessivamente e il chirurgo responsabile dell’intervento decide che per stavolta si invertirà la prassi: prima si farà l’operazione e poi il paziente verrà sottoposto agli altri accertamenti.
Mentre l’anestesista sta per cominciare la procedura di induzione del sonno arriva un terzo chirurgo. Egli informa i colleghi che, secondo le disposizioni del primario, il paziente deve essere trasportato immediatamente al laboratorio endoscopico per l’esame: l’intervento si svolgerà dopo, in base ai risultati del referto. Così, ancora una volta, il paziente viene trasportato fuori dalla sala, verso i laboratori diagnostici. Trascorsa un’ora dall’orario stabilito per l’inizio della seduta, dopo tanta attesa e diverse congetture,l’equipe si scioglie e la sala rimane vuota.
Una delle conseguenze del mancato allineamento delle sale operatorie con il resto dei
comparti ospedalieri è la disconnessione transitoria di tutti gli intermediari nel network chirurgico,
cioè dei membri del personale, dei referti diagnostici, degli artefatti tecnologici. L'assenza
improvvisa di uno solo degli intermediari causa la disattivazione dell’unità lavorativa che riconverte
l’ordine degli obiettivi previsti su altri interventi. Oppure può accadere che l’unità entri nello stato
di standby8 in attesa che si possano sviluppare delle subroutine d’emergenza in grado di riallineare,
oppure reclutare, altri attori. In questo caso si moltiplicano gli effetti rischiosi per il comfort e la
salute dei pazienti, esposti a lunghi tempi di attesa prima di essere operati e addirittura differiti al
giorno successivo quando, per convenzione non scritta ma stabilita dai chirurghi, verranno operati
per ultimi al termine degli interventi previsti.
La deriva organizzativa della programmazione chirurgica causa nei reparti di degenza,
l’innesco di una procedura ridondante sui pazienti. Questi, una volta differiti, dovranno ripercorre
dall’inizio tutte le fasi di preparazione all’intervento e cioè il digiuno coatto, il controllo dei
parametri fisiologici (battito cardiaco, respirazione, tolleranza agli anestetici), la detersione
minuziosa del corpo. Tutto ciò comporta la discontinuità del percorso assistenziale, uno scarso
grado di comprensione degli utenti nei confronti della struttura, di cui ignorano le difficoltà
organizzative, e un aumento dei costi per la degenza.
I processi organizzativi individuati hanno dunque una natura estremamente fluida e debbono
essere continuamente modificati nel breve termine dagli operatori, per poter realizzare con successo
il servizio assistenziale. Tutto ciò comporta delle situazioni lavorative critiche che amplificano le
cause di errore medico, e che generano soprattutto delle situazioni di rischio per i pazienti e per gli 8 Entrare in standby è un’espressione raccolta sul campo, a cui ricorrono spesso le équipe per giustificare il momentaneo arresto delle attività. Durante la stasi apparente del lavoro gli infermieri si dedicano al riordino dei registri amministrativi e al reintegro dei medicinali. Oppure trasportano di nuovo i ferri nella sala di sterilizzazione, sebbene non siano stati utilizzati. È stato calcolato che dopo un’ora gli strumenti perdono progressivamente il loro grado di sterilità. Anche se nessun intervento ha avuto luogo la sala deve essere sgombrata e di nuovo sterilizzata dagli ausiliari. In questo lasso di tempo, di solito, i chirurghi e gli anestesisti tornano nei loro reparti, in attesa del turno successivo previsto dal programma.
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operatori. Le équipe allora si ritrovano a dovere fronteggiare non tanto gli sbagli e le sviste dei
medici (o degli infermieri ovviamente), quanto un ventaglio molto più ampio di eventi avversi a cui
il programma di gestione del rischio non ha fornito delle soluzioni rapide, flessibili e soprattutto
aderenti con la realtà organizzativa delle sale operatorie.
L’attivazione di sequenze di attività di emergenza da parte delle équipe riguardano la loro
capacità di alleare altre risorse nella rete per ricondurre l’azione chirurgica all’interno della routine.
Per ricostruire la rete di azioni gli attori hanno bisogno di raggiungere un più profondo grado di
comprensione di quanto sta accadendo al di là del loro azione campo lavorativo attuale, attraverso
processi di rappresentazione indiretta delle attività organizzative sviluppate altrove nell’ospedale. I
processi organizzativi che non si realizzano nella sala operatoria risultano perciò opachi e confusi e
i chirurghi e gli infermieri cercano di reperire maggiori informazioni ed indizi nell’ambiente
circostante, per conferire un senso ai problemi e tentare di trovare delle soluzioni appropriate. Si
attiva cioè una sorta di sense-making in tempo reale alternativo a quello veicolato dalla
programmazione ordinaria (Albolino, Cook, 2005).
Il successo della costruzione di senso in tempo reale, cioè nel momento in cui i problemi
stanno accadendo, garantisce l’adeguatezza, la plausibilità e l’aderenza degli eventi imprevisti alle
capacità degli attori di riportarli allo stato routinario. Nell’organizzazione chirurgica molti eventi
possono risultare unici e transitori, specialmente quegli eventi che implicano o inducono un
significativo pericolo per la stabilità delle attività reticolari. In questo caso il processo di
costruzione e conferimento dell’ordine deve essere rigenerato ogni volta fino a renderlo stabile.
Perciò la maggioranza delle persone deve essere necessariamente d’accordo sulle condizioni e
problemi che affrontano al fine di “mantenere un’azione coordinata e finalizzata al raggiungimento
del risultato su fronti diversi in quei contesti dove il lavoro è sempre caotico e intriso di elementi d
incertezza (Albolino, Cook, 2005)”.
La necessità di attivare un processo di costruzione di senso in azione, piuttosto che
esclusivamente sulla programmazione ordinaria delle attività, nasce dal riconoscimento che la
situazione attuale contiene alcuni segnali di conflitto o che presagiscono un futuro conflitto. Per cui
decidere come procedere ha conseguenze molte significative per il gruppo, soprattutto nel caso del
lavoro chirurgico per il quale molte attività differenti si svolgono in parallelo. Piuttosto che un solo
obiettivo ce ne sono molti in contemporanea che, spesso, possono confliggere e il lavoro è
distribuito in modalità che rendono impossibile per chiunque avere una comprensione totale della
situazione. Un esempio di come gli obiettivi di ogni intervento si moltiplicano all’improvviso è
contenuto nella storia che segue.
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Un solo cavo per 2 respiratori Un intervento si sta protraendo oltre il tempo previsto. L’anestesista deve incrementare il quantitativo delle sostanze anestetiche per prolungare il sonno della paziente, che altrimenti potrebbe risvegliarsi sotto i ferri. Data l’alta pericolosità del narcotico, per non rischiarne il sovradosaggio, bisogna ricorrere alla precisione di un dispositivo elettronico munito di computer (elettropompa). Da questo però è stato sottratto, alcuni giorni fa, il cavo per l’alimentazione elettrica. Ciò ha impedito la ricarica della batteria d’emergenza del dispositivo. Un infermiere informa l’anestesista che l’unico cavo disponibile è stato collegato all’elettropompa di un altro paziente che versa in coma in sala rianimazione. L’anestesista esce dalla sala ed entra in quella di rianimazione. Informa i due infermieri di guardia che ha bisogno del cavo di alimentazione dell’elettropompa che stanno utilizzando e stabilisce che al ragazzo in coma verrà iniettato il narcotico manualmente, con un bracciale a valvola.
L’équipe normalizzano i rischi
La capacità degli operatori di stabilizzare le situazioni d’emergenza preserva in definitiva il
raggiungimento degli obiettivi del lavoro. Da un altro punto di vista la riconduzione delle
emergenze entro i canoni della routine ha generato un secondo effetto interessante e cioè
l’attivazione di un processo di normalizzazione del rischio (Vaughan, 2005).
Tale processo si realizza ogni qual volta gli operatori si ritrovino a negoziare su quale debba
essere il livello di accettabilità collettiva delle situazioni di rischio a cui sottoporre i pazienti. I
disaccordi su cosa vada considerato “pericoloso” e cosa invece possa essere considerato come
“rischio accettabile” sono continuamente sviluppati e ricomposti a livello di network d’azione,
quando tutti gli operatori debbono stabilire come procedere di fronte ai problemi imprevisti. Nello
scambio sociale, attivato per la ricerca delle soluzioni più appropriate, gli operatori selezionano
implicitamente quali siano i rischi contingenti per l’incolumità dei pazienti e come poterli aggirare.
Nello scambio i rischi non sono mai definiti in assoluto, ma le differenti definizioni dei soggetti
vengono continuamente sfidate da altre valutazioni alternative, fino a che non si raggiunge un
accordo condiviso.
Nel processo di normalizzazione dei fenomeni rischiosi l’obiettivo implicito delle équipe
non diventa tanto quello di eludere i rischi tout court, ma di determinarne un livello accettabile
affinché gli interventi chirurgici possano proseguire senza incidenti. La conseguenza della
normalizzazione è che gli operatori costruiscono un sistema culturale che da un lato riduce l’ansia
dovuta all’incertezza (Schein, 1995), e dall’altro trasformano in routine gran parte degli eventi
considerati devianti e pericolosi. La normalizzazione dei rischi, attivata dagli operatori a livello
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discorsivo e pratico, incide sul processo di etichettamento degli eventi, che invece che essere
identificati come pericolosi, sono trattati come degli “imprevisti di routine” e relegati nella
categoria dei quasi incidenti9. Il processo di normalizzazione può trasformare le procedure della
sicurezza in meri cerimoniali, ma allo stesso tempo favorisce la costruzione collettiva di soluzioni
temporanee ai problemi quotidiani.
La rete per fronteggiare i rischi
Nonostante la debolezza delle sue connessioni, il reticolo delle attività chirurgiche reca in sé
la capacità di riorganizzarsi rapidamente e con intelligenza secondo le medesime istruzioni che lo
strutturano (Morgan, 1999; Czarniawska, 2004/b), cosicché le attività di cura non possano arrestarsi
del tutto. La capacità sviluppata dagli operatori di mettere in pratica linee di azione alternative di
fronte agli imprevisti facilita non solo il raggiungimento degli obiettivi di un sola sala operatoria,
ma di tutte le altre. L’episodio successivo esemplifica uno dei modi in cui l’équipe sono riuscite ad
attivare una rete di azioni integrate tra loro.
Lo sdoppiamento di un intervento chirurgico Un giorno, verso l’ora di pranzo, quando già alcune sale operatorie avevano completato le sedute previste, in tutto il blocco c’erano soltanto due interventi in corso. In realtà si trattava di due subroutine dello stesso programma operatorio. La seduta originariamente riguardava soltanto la Sala 3, ma successivamente aveva coinvolto anche l’equipe della Sala 2. Lo svolgimento di due interventi in contemporanea si era reso possibile grazie allo slittamento del programma della Sala 2. A causa del rinvio dell’ultimo intervento previsto, dovuto al modificarsi delle condizioni di un paziente, la Sala 2 era subito disponibile per un altro intervento. La caposala mi raccontava: <<Questo succede molto di rado. In pratica avevamo due sedute operatorie molto intense sia in Sala 2 che in Sala 3. Nella prima era in programma un intervento piuttosto lungo e complesso, ma quando il campo era stato allestito, improvvisamente il paziente è stato giudicato non idoneo perché non era più collaborante. Le sue analisi non erano sufficientemente dettagliate e si era verificato un aggravio delle sue condizioni patologiche>>. Così dal reparto era sopraggiunto l’ordine del primario di annullare l’intervento. In Sala 3 invece erano previsti due interventi simili, uno dopo l’altro. Dato che ormai il campo operatorio della Sala 2 era già “settato”, e il personale era pronto, la caposala aveva fatto in modo che il secondo intervento della Sala 3 fosse espletato in Sala 2, anticipando i tempi di chiusura degli interventi di elezione di tutto il blocco operatorio. <<Fortuna ha voluto che questo paziente fosse già pronto. Così entrambe le sedute sono terminate con largo anticipo rispetto al programma e io ho potuto
9 I cosiddetti near miss, eventi che per certe circostanze non scatenano disastri e danni. Per una classificazione degli eventi avversi, errori e quasi incidenti si faccia riferimento al Glossario messo appunto dalla Commissione per il Risk Management del Ministero della Salute (Ministero della Salute, Dipartimento della Qualità, 2004) o alla prima bozza della tassonomia sul rischio clinico proposta dall’Organizzazione Mondiale di Sanità, ancora in fase di stesura (World Health Organization, 2005).
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conferire agli operatori del pomeriggio un giorno di riposo che fa sempre piacere>> conclude la caposala.
Intese quali reticoli che si auto-organizzano le sale operatorie esprimono la capacità di
rigenerare il proprio processo organizzativo e di rinnovarsi quotidianamente, per non collassare
sotto i colpi dei quasi incidenti che tendono a ripetersi, nel contesto studiato, con una certa
frequenza. Concepire l’organizzazione delle sale operatorie in termini di sistemi autorganizzativi
significa che ogni singola équipe è inserita in un sistema più ampio di lavoro insieme a tutte le altre,
e con tutte le altre deve muoversi di concerto per mantenere la stabilità e l’ordine del proprio
ambiente. Le interconnessioni che avvengono tra le sale e il resto del sistema ospedaliero possono
dar luogo a fenomeni di auto-organizzazione del lavoro chirurgico.
Un riflesso negativo del processo di auto-riconfigurazione del network è l’egocentrismo
organizzativo (Morgan, 1999). Una deriva egocentrica si sviluppa nel momento in cui
un’organizzazione tenta di mantenere a tutti i costi un modello di auto-rappresentazione secondo dei
canoni operativi tradizionali. La forza dell’egocentrismo organizzativo si mostra anche di fronte
agli elementi non previsti dal modello dovuti, nel caso studiato, al rischio che gli interventi
chirurgici elettivi si tramutino improvvisamente in emergenze e in quasi-incidenti (near miss).
L’ancoraggio ostinato a un modello univoco di rappresentazione del proprio lavoro genera
agli occhi dei manager clinici l’invisibilità di quegli importanti elementi d’innovazione sviluppati
nel contesto lavorativo. Quegli elementi che invece sono ben evidenti agli operatori chirurgici
grazie al fatto che sono loro stessi che producono il proprio campo lavorativo quotidiano e che
perciò riescono a garantire l’operatività delle sale e un grado accettabile di sicurezza per i pazienti.
Le rappresentazioni egoiche del proprio lavoro sono una delle frizioni al mutamento che
bloccano molte organizzazioni quando cercano di trasformare se stesse, tentando di fare cose nuove
secondo modalità operative tradizionali. L'introduzione di nuova tecnologia, la check list, riproduce
nell'ambito studiato una particolare forma di egocentrismo organizzativo che ho definito il controllo
ritualistico degli errori.
4. Costruire la check list
Per poter aumentare il grado di contenimento degli eventi rischiosi i professionisti
chirurgici dell’ospedale hanno ideato una check list di accettazione, dette anche “liste di verifica” o
“liste di controllo”. Questa è stata costruita nella pratica grazie all’aiuto dei responsabili
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dell’Ufficio Qualità, durante il percorso formativo sul Risk Management. Il nuovo strumento in
realtà non è il frutto di un’idea originale, ma le équipe lo hanno riadattato nel loro campo d’azione
imitando i modelli di check list già utilizzati in alcuni ospedali sia italiani10, sia australiani.
Le check list, introdotte per la prima volta negli anni Sessanta nell’industria areonautica
americana, si presentano come dei moduli cartacei attraverso i quali gli operatori chirurgici
verificano lo svolgimento corretto delle fasi di accettazione dei pazienti in camera operatoria, della
loro preparazione per l'intervento e della chiusura della seduta chirurgica, quando il paziente viene
risvegliato dalla stasi anestesiologica. L’obiettivo perseguito dalla costruzione delle check list in
campo sanitario è quello di ridurre la complessità del lavoro di équipe, per poterne controllare le
modalità di esecuzione e ridurre le possibilità di commettere errori. Affinché tale controllo possa
realizzarsi è necessario che tutto il sistema delle attività lavorative sia scomposto concettualmente
in tante unità di azioni più semplici e che queste siano successivamente riordinate secondo uno
schema logico univoco, a cui tutti gli operatori debbono attenersi.
In un sistema di attività se si verifica un errore nell’esecuzione di un compito, anche il più
elementare, questo potrebbe avere delle ripercussioni catastrofiche, comportando il collasso
organizzativo (Turner, Pidgeon, 2001). Di conseguenza i fattori di rischio, cioè la probabilità
statistica, che un errore possa verificarsi (Reason, 1994), possono essere calcolati e tenuti sotto
controllo efficacemente solo se l’attenzione degli operatori viene indirizzata al raggiungimento di
un singolo obiettivo alla volta, semplificandone il più possibile la complessità dei processi di
attuazione. In un’ottica cibernetica, il sistema cognitivo umano non incorrerebbe nel sovraccarico
delle informazioni provenienti dall’ambiente, bensì si rappresenterebbe i problemi secondo schemi
più lineari di comprensione così da poter prendere delle decisioni in maniera rapida e coerente.
Le check list rappresentano in forma grafica delle mappe cognitive (Weick, 1994) attraverso
le quali gli operatori hanno la possibilità di comprendere, visivamente, quali siano le specifiche
attività che debbono realizzare e come queste si collochino all’interno di un insieme più ampio.
Attraverso la condivisione delle mappe mentali ogni membro del gruppo di lavoro è nelle
condizioni di comprendere il grado di connessione tra lo svolgimento dei loro compiti specifici e
quelli immediatamente precedenti o successivi, deputati alla responsabilità degli altri colleghi.
Per poter realizzare in concreto un proprio modello di check list tutti i componenti del
servizio chirurgico dell’ospedale hanno partecipato a dei focus group di apprendimento, durante i
quali ognuno ha elencato tutte quelle attività che tipicamente esegue per organizzare un intervento
10 In particolar modo nella Regione Emilia.
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chirurgico. Successivamente tale attività sono state classificate secondo una sequenza temporale e
logica di attuazione (vedere figura 1).
Figura 1: Check list di accettazione in camera operatoria, Fonte: Asl Roma*, 2003
Durante le discussioni infatti l’elenco di tutte le unità di azione individuate da infermieri,
chirurghi e anestesisti è stata fatta circolare all’interno del gruppo, e ognuno ha potuto modificarla,
cambiando l’ordine della sequenza e sottoponendo i cambiamenti proposti alla valutazione di tutti
gli altri11. La discussione collettiva nel gruppo si è protratta fino a quando tutti i partecipanti hanno
raggiunto un accordo su quale dovesse essere la sequenza più aderente alla loro realtà organizzativa.
11 Questa processo particolare di discussione congiunta è conosciuta nello specifico come tecnica DELPHI.
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In una logica proattiva di prevenzione dei rischi, la gestione della sicurezza dei pazienti può
attuarsi solo se la sequenza standardizzata delle azioni codificate nella check list è applicata nella
pratica senza deviazioni o scostamenti, perché questi determinerebbero la causa dei pericoli. Lo
svolgimento di ogni singola attività deve essere verificata dal professionista al quale compete, ad
esempio il conteggio dei ferri chirurgici da parte dell'infermiere, la preparazione dei farmaci da
parte dall’anestesista, e così via. Se una verifica non ha avuto luogo, o se ha prodotto un risultato di
segno negativo, nel senso che l’azione non è stata eseguita secondo la procedura corretta, non è
possibile proseguire nella fase successiva.
Un'ingegneria degli errori
Nelle intenzioni espresse dagli operatori durante la formazione in aula, la check list avrebbe
dovuto monitorare rigidamente l’innesco di tutte le attività che connotano la rete organizzativa degli
interventi quotidiani. Fino a quando tutte le sub-unità di azione non risulteranno essere svolte nel
modo in cui sono state pianificate l’intervento operatorio non potrà cominciare. La lista viene
azionata dagli operatori come se fosse un dispositivo in grado di annodare (knotting) insieme tutti i
nodi del reticolo organizzativo (Lindberg, Czarniawska, 2006), verificando che ognuno si stia
congiungendo con gli altri nella maniera prevista dagli stessi ideatori nella fase formativa.
Al momento della sua progettazione gli operatori immaginavano la check list come un
insieme di istruzioni regolative alle quale attenersi per far sì che tutti gli elementi del set operatorio
venissero coniugati insieme nel modo più corretto, prevenendo le cause degli incidenti. Questo tipo
di rappresentazione avrebbe dovuto determinare lo svolgersi delle routine giornaliere secondo una
forma d’ordine razionale, che ridistribuisce le competenze e le responsabilità del lavoro di ogni
membro del gruppo in maniera predeterminata. Le responsabilità professionali, infatti, sono
ancorate alle singole unità di azione invece che a livello diffuso e incerto, e sono ricombinate
attraverso un preciso schema ad incastro, dal quale si dipana il percorso assistenziale dei pazienti. In
questo modo ogni operatore ha ben chiaro quali sono i confini delle sue competenze e quali
procedure deve eseguire per garantire la messa in sicurezza dei pazienti, ancora prima che essi
accedano alla sala operatoria.
La costruzione di una lista di azioni, per ognuna delle quali è prevista una specifica casella
da barrare, simboleggia la condizione organizzativa ideale che gli infermieri, gli anestesisti e i
chirurghi desidererebbero si tramutasse nella realtà effettiva. La sequenza di azioni rappresenta
l’idealtipo del lavoro quotidiano in una camera operatoria, dove ognuno ha il suo spazio di attività
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ben delineato e ha l’incombenza di monitorare solo uno specifico focus tra i tanti individuati nella
lista, realizzando finalmente l’ideale di controllo razionale dell’incolumità del paziente. Ha
affermato il Coordinatore Chirurgico: <<Noi seguiamo… abbiamo copiato quello che si fa nell’industria aeronautica: la check list è nata lì… Tu su una aereo la pretendi e la dovresti pretendere anche in una sala operatoria. Una volta che diventa parte integrante del nostro comportamento sei sicuro che se la check list non viene eseguita l’aereo non parte, così come non dovrebbe partire l’intervento operatorio. È un passaggio di mentalità perché tutti gli step in cui è suddivisa la check non consentono di essere bypassati; sono questi gli step da fare bene e che si devono fare: se manca il “gradino due” non puoi procedere al “numero tre”>> (Coordinatore blocco operatorio).
Controllare il rischio è un rito
L’organizzazione di nuovi strumenti di lavoro richiede l’apprendimento non solo delle
istruzioni tecniche necessarie a che gli strumento funzionino, ma coinvolge ed attraversa i campi di
competenza dei diversi attori organizzativi e richiede loro la capacità di rileggere la propria
professionalità alla luce delle abilità richieste, necessarie per attivare le nuove tecnologie (Bruni,
2005).
In realtà, nel corso del tempo, l’introduzione della check list ha attivato un contesto di
azione diametralmente opposto alle previsioni e alle intenzioni del management sanitario studiato.
Tutto l’impianto logico che sosteneva questo strumento e gli obiettivi per il quale era stato ideato si
sono tramutati in meri rituali burocratici.
Un rituale organizzativo rappresenta un “insieme standardizzato e particolareggiato di una
serie di comportamenti atti a gestire le ansie, ma raramente capaci di produrre conseguenze
intenzionali di una qualche importanza tecnica (Trice, Bayer, 1995)”. L’agire ritualistico,
stigmatizzato dagli operatori con la frase “mettere una crocetta”, esprime la necessità di adempiere
a una procedura meramente formale piuttosto che diretta a sviluppare un’azione effettiva per la
difesa dei pazienti. La compilazione della lista e l’apposizione della firma in calce da parte dei
responsabili medici non rappresentano tanto i presupposti della pratica della sicurezza, ma si sono
trasformate esse stesse in un fattore di normalizzazione del rischio, sebbene solamente dal punto di
vista cerimoniale e burocratico. I mezzi per attivare la sicurezza si sono tramutati in fini ultimi.
La compilazione di ogni punto della lista dovrebbe corrispondere all’effettivo svolgimento
dell’azione sul campo. Quindi se il modulo alla fine della procedura viene firmato ciò dovrebbe
garantire l'innesco automatico di una rete di sicurezza intorno al paziente. Essa dovrebbe altresì
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garantire che tutti le possibili cause di rischio siano state eluse definitivamente. Invece, per
paradosso, la pratica di compilazione della check list viene attivata dalle équipe in modo asincrono
rispetto all’organizzazione effettiva dell’ambiente chirurgico. I moduli sono redatti e firmati solo
alla fine del tempo di intervento, quando il paziente è già sveglio e la camera operatoria sta per
essere sgombrata.
La direzione sanitaria ha imposto per delibera aziendale che la lista di verifica deve essere
compilata congiuntamente da tutti e tre i diversi esponenti dell’équipe: la prima parte dagli
infermieri, la seconda dagli anestesisti e la terza dai chirurghi. In realtà accade di frequente che
sono solo gli infermieri a farsi carico della redazione dell’intero modulo, cercando di sollecitare i
chirurghi a non dimenticare di firmarlo.
Chi firmerà la check list? Un intervento è terminato. Il paziente, ormai sveglio, è stato ricondotto in reparto e la sala sta per essere sgombrata dai macchinari e dalle attrezzature. I chirurghi sono già tornati nel loro reparto. Sono rimasti solo le infermiere e l’anestesista. Una delle infermiere sta compilando il registro operatorio e gli altri documenti quando si accorge che il primario ha lasciato la sala senza firmare la check list. Chiede allora all’anestesista se vuole provvedere lei a chiudere la check così potrà includerla nella documentazione del paziente. Ma il medico si rifiuta categoricamente di farlo. <<Io>> dice l’anestesista <<il mio lavoro l’ho fatto e la mia firma l’ho già messa per quello che riguarda i miei compiti. Se chiudo io la check e qualcosa poi va storto divento la responsabile del mancato controllo!>>. L’altra infermiera, la strumentista, risolve la situazione affermando che si occuperà lei della compilazione dei campi rimasti vuoti e che poi andrà dal chirurgo per la firma. Così cerca di ricostruire a memoria tutte le fasi dell’intervento e con l’aiuto della collega cerca di ricordarsi quanti pacchetti di pezze ha usato e quanti ferri sono stati effettivamente utilizzati. L’anestesista a sua volta chiede conferma sui flaconi di narcotici che hanno utilizzato per addormentare il paziente e finisce di compilare il registro anestesiologico.
Un'immagine astratta della sala operatoria
Le check list restituiscono l’immagine di un sistema lavorativo che non ha riscontri nella
realtà dei fatti. Si tratta di un’immagine astratta per la quale le attività di organizzazione del campo
operatorio sono predeterminabili e ricombinabili tra loro in maniera sincronica e standardizzata.
Cercare di imbrigliare lo sviluppo dei reticoli di azioni in schemi prefissati di attività ha significato,
per gli operatori, disporsi cognitivamente (Weick, Sutcliffe, 2001) all’interno di un campo di azioni
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che presenta poche coincidenze con il lavoro simulato durante la formazione in aula. A causa della
dissonanza tra l’immagine astratta dell’organizzazione e l’azione concreta sono nati quei problemi
di coordinamento e attuazione delle routine descritte più volte.
Il fattore tempo è uno degli elementi più controversi del lavoro chirurgico ed è considerato
una risorsa scarsa, difficilmente negoziabile, per la quale il risparmio diventa un valore di qualità
professionale. Lo svolgimento dell’azione organizzativa quotidiana è volto proprio alla
preservazione del tempo dallo sperpero ingiustificato, cercando di arginare quotidianamente i
rallentamenti del lavoro e lo stallo degli interventi dovuti alla mancanza di connessioni efficienti tra
tutti gli attori del reticolo. Le check list, pensate per stringere i legami tra azioni differenti di fatto le
allontanano, isolando le attività e i singoli attori gli uni degli altri e amplificando i tempi di
attuazione delle routine. Come afferma uno dei medici anestesisti: <<La check list si è rivelata disfunzionante rispetto alle previsioni, comportando una moltiplicazione delle procedure burocratiche e amministrative da espletare, attraverso la compilazione del modulo, delle firme da apporre e degli uffici da coinvolgere: l'ufficio della caposala, il reparto di chirurgia, il reparto di anestesia, la presala operatoria, gli uffici della direzione sanitaria, che si trovano addirittura in un’altra palazzina. Tu devi fare tutto questo ancora prima di cominciare le attività chirurgica vera e propria>>. E continua: <<I chirurghi non vogliono comportarsi come burocrati e ogni volta ci ritroviamo a scegliere se dilatare il tempo della seduta operatoria per compilare le pratiche amministrative o rispettare i tempi previsti dai Drg per ogni singolo intervento!>> (Anestesista). L’unico modo per arginare l’effetto di distorsione delle liste sull’organizzazione del lavoro è
quello di forzarne le regole d’utilizzo, attraverso modalità di azione ritualistiche. La forzatura delle
istruzioni di check si esplica nella compilazione della lista alla fine degli interventi, piuttosto che
all’inizio, e nella sua stesura condotta da un solo operatore, piuttosto che da tutti i rappresentanti
dell'équipe.
Il rituale della redazione della check list ha comportato, però, lo sviluppo di un’azione
riflessiva da parte degli infermieri e dal coordinatore. Il coordinatore e il suo staff, nel momento in
cui si sono resi conto che l’introduzione del nuovo strumento organizzativo ha generato delle
resistenze da parte dei chirurghi, stanno valutando tuttora l’eventualità di deputare la verifica della
sicurezza della sala operatoria agli infermieri. Quest’ultimi svolgono quotidianamente non solo un
ruolo assistenziale, ma si attivano quali intermediari di riferimento nella rete organizzativa,
svolgendo a tutti gli effetti anche un ruolo prettamente manageriale. L’azione manageriale degli
infermieri si esplica soprattutto durante le emergenze lavorative, quando si innescano i processi di
negoziazione e di networking, che mantengono salde le connessioni tra tutte le attività operatorie.
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L’immagine dell’infermiere come il manager della sala operatoria, cioè colui che organizza
e sopraintende gli interventi, è però correlata a un’identità instabile che non coinvolge la
programmazione del lavoro, ma perdura fino a che ci sono dei problemi da risolvere,
volatilizzandosi nel momento in cui l’emergenze sono superate. È un’identità che non si concretizza
nel conferimento di una legittimità professionale pubblicamente riconosciuta, ma che è anzi negata
sia dal punto di vista del contratto di lavoro, sia dal punto di vista normativo12. L’infermiere non ha
nessuna opportunità legittimata di poter controllare l’organizzazione del carico di lavoro
quotidiano, né tantomeno ha l’autorità, convalidata dalla gerarchia ospedaliera, di impedire l’avvio
degli interventi quando questi non sono eseguiti secondo il rispetto delle regole per la sicurezza.
Tale facoltà può essere esercitata solo dai primari e dal direttore del Dipartimento di Chirurgia,
impegnati però a ridurre le liste di attese, operando quanti più pazienti possibili anche in situazioni
di rischio.
5. Apprendimento riflessivo ed egocentrismo organizzativo
Nelle sale operatorie, la riflessione dei manager e degli operatori su un possibile
cambiamento del loro modo di lavorare è stata sollecitata da un evento tanto disastroso quanto
foriero di nuove energie per l’azione, o di idee energizzanti (Czarniawska, Joerges, 1995).
L’incidente del rene sbagliato ha comportato un arresto temporaneo del fluire routinario
degli eventi e ha, in qualche modo, interrotto il procedere ordinato della vita organizzativa. Esso
può essere immaginato come un attore di intermediazione che ha generato lo sviluppo di una rete di
azioni sia verso l’esterno dell’ospedale sia verso l’interno delle sale operatorie, e ha trasformato
l’identità professionali degli attori sanitari e l’identità dell’organizzazione dove risiedono. Le stesse
équipe chirurgiche hanno cominciato ad etichettare le sale operatorie come luoghi ad alto rischio,
dove le attività di cura esponevano paradossalmente i pazienti ai pericoli quotidiani di infezioni, di
danneggiamento fisico, di interventi chirurgici ritardati eccessivamente nel tempo, oppure reiterati
più volte perché condotti in maniera errata. Allo stesso modo gli operatori sanitari, durante
l'inchiesta giudiziaria, sono stati associati alle qualità negative di incompetenza e inefficienza
lavorativa.
In questo scenario il cambiamento dell’immagine pubblica del proprio contesto lavorativo, e
12 Il D.M. N.739 del 14 settembre 1994 individua la figura dell’infermiere professionale e le sue caratteristiche principali. L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa. L’infermiere garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; pianifica, gestisce e valuta il suo intervento quando necessario.
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della propria professione, è stato l’obiettivo principale perseguito dal management sanitario
dell’ospedale. Mutare un’identità conferita da attori esterni, come la magistratura e l'opinione
pubblica, per restituirne una completamente diversa, ha significato per i manager sanitari e per gli
operatori chirurgici sapersi attivare e trasformare l’intera organizzazione del lavoro, modificandone
i presupposti. L’incidente ha rappresentato in questo senso l’evento che ha sprigionato un’ingente
quantità di energia cinetica, intellettuale ed operativa che ha permesso ai due psicologi dell’Ufficio
Qualità della Asl di conferire una nuova identità al proprio ruolo dirigenziale13 nelle vesti di
manager del rischio. Per agire in conformità al nuovo ruolo desiderato, e per stabilizzarne
l’immagine correlata, gli psicologi si sono connessi al campo organizzativo sanitario internazionale,
sviluppatosi sul rischio clinico.
Sul campo i due dirigenti hanno cercato di apprendere un nuovo tipo di conoscenza inerente
alla gestione dei rischi e all’attivazione della sicurezza in sala operatoria. Così facendo hanno
cercato di sviluppare delle competenze che prima non possedevano. Successivamente la conoscenza
acquisita e le tecniche di gestione del rischio imparate sul campo sono state materializzate insieme
in un oggetto specifico: il programma di formazione professionale rivolto ai chirurghi, agli
anestesisti e agli infermieri della sale operatorie.
Per realizzare il programma di formazione nella pratica, gli psicologi hanno attivato ulteriori
azioni comunicative che hanno espanso il reticolo di azioni dell’Ufficio Qualità. La conoscenza
sviluppata ha permesso l’attivazione di inedite dinamiche di apprendimento organizzativo, lungo le
quali si sono allineati gli operatori affinché imparassero l’utilizzo degli strumenti di gestione del
rischio, per poi praticarli nel proprio campo lavorativo. Nel percorso di formazione le équipe sono
state in grado di rielaborare i criteri dell'organizzazione del lavoro quotidiano, e hanno individuato
tra di essi le cause principali degli errori che avrebbero potuto commettere nella pratica clinica. La
risposta ai problemi evidenziati dagli operatori durante i loro incontri di formazione è stata
direttamente correlata alla necessità di organizzare il lavoro attraverso la programmazione
anticipata degli interventi, ideando nuove regole di comportamento dettagliate e rigide. La
costruzione dello strumento della check list, impiegata per orientare quotidianamente
l’organizzazione del lavoro, ha risposto al bisogno espresso dalle équipe di produrre un rinnovato
ordine organizzativo, la cui carenza ha comportato il prodursi di situazioni rischiose per i pazienti.
La costruzione della lista di controllo ha coinvolto, in prima istanza, le rappresentazioni
soggettive dei singoli operatori su ciò che si sarebbe dovuto considerare come rischioso o affidabile.
13 Gli psicologi dell’Ufficio Qualità della Asl, stando la loro competenza clinica, svolgono anche un ruolo manageriale e sono considerati nel loro contratto lavorativo come “Dirigenti di Unità Complessa”.
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In questo senso gli operatori hanno sviluppato un continuo processo di negoziazione
interprofessionale, che solo in apparenza ha raggiunto una sua forma stabile, incorporata nella
routine operatoria. Per i soggetti studiati le attività di selezione e di classificazione dei fenomeni
etichettati come rischiosi, oppure come sicuri, si sono caratterizzate come eventi tipicamente
sociali, e sono state inscritte nelle relazioni intersoggettive e routinarie, instaurate dagli attori
studiati all’interno del loro contesto organizzativo, culturale e professionale di riferimento.
Riportare in superficie il contesto dove il rischio acquisisce una sua forma specifica
(etichettata come errore medico, evento avverso, ecc.), significa individuare l’intreccio sociale che
lega tra loro le credenze, la fiducia nelle istituzioni e nella scienza, le conoscenze, le pratiche e i
discorsi, la memoria collettiva che insieme contribuiscono a settare le differenti concezioni di
rischio e sicurezza (Bohölm, 2003). La selezione e le strategie sul controllo dei rischi, attivate in
sala operatoria, sono dunque azioni che rimandano ai presupposti culturali che orientano le attività
dei soggetti durante il loro lavoro. Tali presupposti, seguendo le ricerche di Bowker e Leigh-Starr
(2002), sono diventati invisibili nella produzione reiterata delle pratiche assistenziali e, per questo,
si sono tramutati in regole universali per l’individuazione e il controllo dei rischi e degli errori
medici. I valori del controllo, del calcolo e della prevedibilità degli errori sono così diventati i
criteri guida che, in primo luogo, hanno connotato tutto il periodo della formazione indirizzata alle
équipe chirurgiche e che, successivamente, hanno orientato l’inscrizione dell’idea di gestione del
rischio in un artefatto come la check list.
La natura socialmente costruita delle tecnologie di Risk Management ha rivelato come la
loro messa in pratica si è intrecciata con il fluire del lavoro quotidiano dei chirurghi,
evidenziandone gli effetti imprevisti e paradossali. Per risolvere le emergenze, che si sono
manifestate anche laddove era stata prevista un programmazione puntuale degli interventi, gli
operatori hanno dovuto imparare a sviluppare la capacità di saper selezionare immediatamente gli
obiettivi del lavoro quotidiano e saper ri-adattare rapidamente le loro traiettorie di azione, in
conformità alla situazione contingente. La conformità agli obiettivi a volte si è potuta raggiungere
attraverso l’adesione ai regolamenti, ma spesso è stata ottenuta soltanto trasgredendo
esplicitamente le regole della sicurezza. Teoricamente la trasgressione delle regole avrebbe
implicato il rischio di commettere degli errori, ma nella pratica ha permesso all’organizzazione
delle sale operatoria di non arrestarsi e di procedere con le sue attività.
Le attività di normalizzazione del rischio, la negoziazione dei programmi operatori
giornalieri e il rituale di compilazione delle check list sono tutte pratiche organizzative sviluppate
dai chirurghi e dagli infermieri per ridurre, dal punto di vista cognitivo, la rischiosità delle loro
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decisioni di derogare dalle regole della sicurezza, e per placare le ansie generate dalle emergenze
organizzative.
Nonostante tutti gli sforzi finora compiuti, la capacità di stabilizzare la gestione della
sicurezza in un modello organizzativo, rinnovato nei suoi contenuti, è risultata ancora lontana dalla
sua realizzazione. Le frizioni organizzative incontrate dalle équipe nell'attivare tutte le procedure di
elusione dei rischi -da loro stessi ideate- sono scaturite dalla loro scarsa comprensione della
complessità del sistema di cui fanno parte. La mancanza di mappe cognitive, utili agli operatori per
orientarsi nelle routine e nelle emergenze del loro lavoro, ha prodotto il fenomeno dell'egocentrismo
organizzativo (Morgan, 1999). Questo significa che gli operatori studiati, e il loro management di
riferimento, sono ancora radicati ad un modello di rappresentazione del loro lavoro di tipo
burocratico. Di conseguenza non hanno del tutto interiorizzato l’assunto che le cause degli errori si
possono determinare lungo livelli organizzativi più ampi rispetto allo specifico contesto d’azione.
Eppure, nella pratica, la prevenzione degli errori medici attivata in sala operatoria si è caratterizzata
come un’azione partecipata, il cui successo è stato determinato dalle attività sinergiche di uomini e
tecnologie.
Una mindful organizzativa debole
La costruzione di una nuova procedura tecnica per controllare i rischi e prevenire gli errori
non ha significato la trasformazione radicale della specifica realtà organizzativa. Le pratiche di
gestione del rischio sono state adattate dalle équipe ai loro modelli di rappresentazione della propria
vita organizzativa, secondo una visione procedurale e tayloristica del lavoro chirurgico, come se
fosse un assemblaggio meccanico di procedure operative, rigidamente regolamentate. Permane
nelle sale operatorie la consapevolezza che le cause dei rischi, degli errori medici e dei quasi
incidenti sono di tipo organizzativo. Ma non si è ancora riusciti ad attivare un modello alternativo di
organizing rispetto a quello vigente, basato cioè sulla pianificazione preventiva del lavoro e sul
controllo normativo delle attività degli operatori.
In altre parole infermieri, chirurghi e anestesisti hanno compreso insieme che le loro attività,
anche quelle meno complesse e apparentemente innocue, possono generare dei rischi per
l’incolumità dei pazienti. Si tratta di una comprensione sostenuta dalla condivisione di un
linguaggio tecnico e manageriale sui rischi che prima non conoscevano. Ma la capacità di
rappresentazione linguistica e cognitiva degli errori medici e degli eventi avversi non ha coinciso
con la realizzazione del controllo capillare sui rischi, né con la loro prevenzione. Piuttosto nelle sale
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operatorie si è assistito a una proliferazione di una ricca fenomenologia di eventi avversi,
normalizzati solo attraverso l'abilità delle équipe di attivare, sul momento, una rete di azioni
alternativa alla programmazione quotidiana.
Allo stato attuale le équipe sono riuscite a sviluppare uno stato debole di mindful
organizzativa (Weick, Sutcliffe, 2005) per la salvaguardia della sicurezza dei pazienti, cioè uno
stato di attenzione collettiva ai processi di produzione dei rischi. Però lo stato di attenzione
condivisa nei confronti dei rischi di tipo clinico non è corrisposto allo sviluppo di pratiche
lavorative sicure, radicate nella routine. La mindful organizzativa per la sicurezza si realizza solo se
tutti i membri del gruppo lavorativo mantengono uno stato di attenzione su ciò che stanno facendo
nella specifica attività e, contemporaneamente, su ciò che stanno facendo i colleghi, per individuare
i fattori di minaccia nel momento del loro prodursi. Organizzare -e dunque gestire il rischio-
significa svolgere un’attività di persuasione delle persone cognitivamente ed emozionalmente
orientate, che richiede azioni sociali, politiche, materiali e simboliche (Latour, 1987). Tutto questo
necessita di negoziazioni continue, che possono produrre ritardi e deviazioni dall’obiettivo,
slittamenti di significato o sviluppi di nuovi obiettivi.
Nel caso studiato lo sviluppo collettivo di routine sicure da parte degli operatori si è
realizzato all’interno di una rete sociale, fondata sulle relazioni armoniose o conflittuali che
connettono tra loro i partecipanti e le loro esperienze quotidiane. Si tratta però di un reticolo di
attività debolmente connesse tra loro, che ha generato delle traiettorie di azione impreviste e
significati mutevoli del concetto di rischio clinico ed errore medico, senza che si sia modificato il
sistema organizzativo nel suo complesso e l’identità professionale degli operatori.
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