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Un punto d’arrivo, un punto di partenza. Discutendo di Paesaggio Costituzione cemento Luigi Piccioni «Storica», n. 52 1. Le ragioni di un successo Paesaggio Costituzione cemento di Salvatore Settis, uscito alla fine del 2010 1 , ha rappresentato un evento sotto vari profili. Le recensioni sono state numerose e autore- voli, lo storico dell’arte ha avuto più volte l’onore di uno spazio televisivo di prima serata, il libro è stato presentato in molte città italiane, con notevole richiamo di pubbli- co e relatori importanti. Che ciò sia potuto avvenire per un’opera densa e di argomento non propriamente popo- lare rende l’evento ancora più significativo. Le ragioni di tale successo sono diverse. Il personale prestigio di Settis ha avuto un indubbio peso: studioso tra i più apprezzati a livello internazionale, editorialista per quotidiani nazionali come «la Repubblica» e «il Sole 24 Ore», a lungo direttore della Scuola Normale Superiore e del Getty Museum di Los Angeles, membro dal 2004 e poi presidente dal 2007 del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici fino alle polemiche dimissioni del 2009, autore nel 2002 di un altro pamphlet anch’esso estremamente fortunato 2 . Tutti gli interventi di Settis si segnalano del resto per un peculiare equilibrio tra solidità dell’informazione, rigore argomentativo, lucidità di pro- spettiva e una severa vis polemica che non mostra riguardi per nessuno. Paesaggio Costituzione cemento, cui ha pure giovato la collocazione editoriale presso Einaudi, è giunto inoltre in una fase molto calda per il paesaggio italiano, 1 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010. 2 Id., Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002.

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Un punto d’arrivo, un punto di partenza. Discutendo di Paesaggio Costituzione cemento

Luigi Piccioni

«Sto

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», n

. 52

1. Le ragioni di un successo

Paesaggio Costituzione cemento di Salvatore Settis, uscito alla fine del 20101, ha rappresentato un evento sotto vari profili. Le recensioni sono state numerose e autore-voli, lo storico dell’arte ha avuto più volte l’onore di uno spazio televisivo di prima serata, il libro è stato presentato in molte città italiane, con notevole richiamo di pubbli-co e relatori importanti. Che ciò sia potuto avvenire per un’opera densa e di argomento non propriamente popo-lare rende l’evento ancora più significativo.

Le ragioni di tale successo sono diverse. Il personale prestigio di Settis ha avuto un indubbio peso: studioso tra i più apprezzati a livello internazionale, editorialista per quotidiani nazionali come «la Repubblica» e «il Sole 24 Ore», a lungo direttore della Scuola Normale Superiore e del Getty Museum di Los Angeles, membro dal 2004 e poi presidente dal 2007 del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici fino alle polemiche dimissioni del 2009, autore nel 2002 di un altro pamphlet anch’esso estremamente fortunato2. Tutti gli interventi di Settis si segnalano del resto per un peculiare equilibrio tra solidità dell’informazione, rigore argomentativo, lucidità di pro-spettiva e una severa vis polemica che non mostra riguardi per nessuno. Paesaggio Costituzione cemento, cui ha pure giovato la collocazione editoriale presso Einaudi, è giunto inoltre in una fase molto calda per il paesaggio italiano,

1 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010.

2 Id., Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002.

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segnata da un lato da eventi emblematici come il Piano casa, avvertito da molti come consacrazione definitiva della deregulation urbanistica in corso da un ventennio, e dall’altro da una fioritura di iniziative dal basso contro il degrado del territorio che non si vedeva forse dagli anni settanta.

2. Un’opera bicefala e le sue radici più lontane

Tanto quegli eventi quanto queste mobilitazioni ven-gono pienamente assunti nel libro e contribuiscono a for-giare un’opera particolare, più complessa rispetto a Italia S.p.A., nella quale si confrontano e si compenetrano due dimensioni di solito piuttosto distanti: quella del pam-phlet severo, a forte caratura civica, e quella del saggio scientifico ricco e denso. Ma l’architettura complessa del ragionamento, fondata su una ricognizione storica ampia, approfondita e con ampi spiragli di originalità, è in effet-ti uno strumento imprescindibile della denuncia e della chiamata all’impegno civico.

Paesaggio Costituzione cemento è il punto di appro-do di un percorso che Settis ha intrapreso a partire dal proprio specifico, quello dei beni culturali, all’inizio del decennio scorso. Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio cul-turale era un agile ma circostanziato grido d’allarme sul rapido degenerare delle politiche statali nel settore, do-vuto indistintamente tanto ai governi di centro-sinistra quanto a quelli di centro-destra. Il suo dito era puntato in particolare su un incalzante succedersi di provvedimenti legislativi che dal 1998 al 2002 avevano stravolto e mina-to l’assetto sia teorico che pratico della tutela italiana dei beni culturali. Il centro-sinistra aveva iniziato l’opera con l’attribuzione al ministero dei Beni culturali di improprie competenze su sport e spettacolo (governo Prodi, mini-stro Veltroni), la scissione delle competenze su tutela e va-lorizzazione tra Stato ed enti locali (dl. 112/1998, ministro Veltroni), la possibilità da parte del ministero del Tesoro di vendere immobili di valore artistico a società per azioni (Finanziaria 1999, governo D’Alema), la riforma «Veltro-ni-Melandri» delle Soprintendenze, la riforma del titolo V della Costituzione (governo Amato, 2001) che devolveva alle Regioni ulteriori competenze sui beni culturali e am-

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bientali. In questo modo al suo ritorno, nel 2001, Berlu-sconi aveva trovato la strada spianata per stravolgimenti ancor più radicali contenuti principalmente nella Finan-ziaria 2002 che prevedeva la concessione a privati della ge-stione dei beni culturali pubblici e nel «decreto Tremonti» (l. 112/2002) con il quale veniva definitivamente sancita la possibilità da parte dello Stato di alienare tutto il proprio patrimonio senza alcuna distinzione tra patrimonio im-mobiliare e culturale e tra patrimonio disponibile e indi-sponibile, mettendo in capo al ministero dell’economia un ampio potere discrezionale al riguardo.

L’attacco, di fatto bipartisan, ai cardini stessi dei prin-cipi di tutela consolidatisi nel corso del Novecento era tal-mente grave che Settis aveva sentito la necessità di reagire con un circostanziato atto di denuncia e con un appello a reagire rivolto anzitutto alla generalità dei cittadini, primi danneggiati da questi provvedimenti. La forza della de-nuncia di Settis stava già allora nella complessa architet-tura argomentativa. Nel piccolo volume Settis metteva a frutto non soltanto una lucida passione civica ma anche una visione di lungo periodo delle culture italiane della tutela, una conoscenza approfondita delle problematiche giuridiche e amministrative del settore, una grande ca-pacità di guardare oltre i confini nazionali e soprattutto un’esperienza diretta nel campo della gestione privata sta-tunitense dei beni culturali grazie alla direzione del Getty Museum, gestione tanto invocata in Italia quanto misco-nosciuta nei suoi effettivi meccanismi.

Settis, confortato dalla decisione del ministro Urbani – in controtendenza rispetto all’ispirazione del proprio stesso governo – di nominarlo nel gennaio 2004 mem-bro di un ristretto consiglio scientifico per la tutela dei beni culturali e paesaggistici appena creato, pubblica su «Micromega» un ampio «Programma per i beni cultura-li» nel quale riprende gran parte delle linee argomenta-tive del libro e le declina in forma più immediatamente propositiva3. Sia in Italia S.p.A. che nel «Programma» l’argomentazione è basata su alcune premesse di fondo. La prima è che – in termini strettamente economici – è profondamente sbagliato ragionare del valore del patri-

3 S. Settis, Un programma per i beni culturali, in «Micromega», 9, 2003, pp. 18-35.

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monio artistico-culturale focalizzando l’attenzione sul singolo bene e sugli introiti immediati che da esso posso-no derivare. Ciò dipende dal fatto – e siamo alla seconda premessa – che una peculiarità europea ma soprattutto italiana è l’esistenza di un continuum territoriale che lega le opere nei musei a quelle nelle chiese e nei palazzi, alle architetture, agli impianti urbani; che lega l’una all’altra città e paesaggi, la lingua della letteratura e la cultura dei cittadini; e che questa unicità va coltivata sia perché ri-guarda l’identità nazionale come bene prezioso da non perdere, sia in quanto importante fattore di attrazione e di competitività4.

Il bene singolo, insomma, vale anzitutto nella sua qua-lità di elemento di un ricco contesto storico-ambientale e da questo contesto esso ricava il suo valore effettivo an-che in termini economici, valore ben maggiore di quello ricavabile da una sua pura e semplice vendita sul mercato. Terza premessa: proprio da questa consapevolezza, come dalla consapevolezza di tutti gli altri valori in gioco nel caso del patrimonio (spirituali, culturali, identitari), de-riva una grande tradizione italiana della tutela, unica per antichità, per continuità storica, per centralità nel sistema giuridico nazionale e per rigore dei principi fondanti («tu-tela di tutto il patrimonio culturale, proprietà pubblica e inalienabile di parti significative di esso»). Una tradizione che va riscoperta e valorizzata anche nei suoi aspetti gene-alogici, riservando quindi un forte interesse per la storia della legislazione5.

3. Le sue radici più prossime: la svolta paesaggista

In questa elaborazione, che già prefigura un impian-to che Settis continuerà ad utilizzare anche negli anni a venire, il paesaggio non trova sostanzialmente spazio. Nel fuoco della battaglia contro le pericolose politiche tremontiane, infatti, il «patrimonio culturale» finisce di necessità con l’essere costituito essenzialmente dai beni storico-artistici. Esso tuttavia non è del tutto assente dal-

4 Ivi, p. 18.5 Alle pagine 27-32 di Italia S.p.A. come pure alle pagine 19-23 di Un

programma per i beni culturali compaiono i primi embrioni di un’analisi di questo genere.

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le preoccupazioni dell’autore, tanto è vero che nell’aprile del 2003 egli conviene pienamente con chi lo sta intervi-stando che

sono i nostri paesaggi la parte di patrimonio pubblico che ri-schia di diventare la principale vittima designata della svendita, soprattutto perché [...] è noto che la gestione diretta di un mo-numento non diventa mai fonte di profitto per i privati, mentre la speculazione sul territorio, magari per scopi turistici, promet-te ben altri guadagni6.

Detto questo, è però anche interessante notare come in questa fase Settis si opponga fermamente alle rinnovate proposte di modifica dell’articolo 9 della Costituzione ten-denti a integrare il richiamo al paesaggio con uno riguar-dante più specificamente l’ambiente7. Il suo ragionamento si basa su una preoccupazione molto pratica, quella cioè di impedire che l’introduzione di finalità attorno alle quali nel corso degli anni si è creata una fortissima concorrenza tra Stato e Regioni finisca con l’indebolire irrimediabil-mente l’efficacia dell’articolo stesso, tanto più che finora la Corte Costituzionale ha finito sempre col riconoscere la competenza preminente dello Stato in materia di pae-saggio. E, osservata più da vicino l’origine di alcune delle proposte di integrazione, si tratta molto probabilmente di una preoccupazione giustificata. Ma non è difficile vede-re tra le righe dell’articolo8 una sottile diffidenza verso le varie accezioni di ambiente e una tendenza a subordinarle

6 B. Pedretti, Settis: a rischio vero sono i paesaggi, in «Il giornale dell’architettura», 2, 6, 2003, pp. 1-3.

7 S. Settis, Non toccate la Costituzione sulla tutela dell’ambiente, in «la Repubblica», 18.3.2004.

8 «Ora nessuno dubita che si debbano tutelare l’acqua o gli animali: il punto è se sia l’articolo 9 della Costituzione il luogo giusto per dirlo. L’interpretazione sancita dalla Corte e dal capo dello Stato mostra ad abun-dantiam quanto sapientemente calibrato, e dunque delicato, sia l’impianto dell’articolo 9 [...] Ogni parola in più rischia d’alterare il senso dell’insieme. Il termine ‘tutela’, che se riferito al patrimonio culturale e al paesaggio ha un significato ben preciso, in quanto rinvia alle apposite strutture dello Stato [...], si diluisce e si sfigura se usato vagamente per una vasta serie di cose, le più varie. La densità davvero ammirevole dell’art. 9, la sua portata istituzionale ne risulterebbero diluite e svilite; molto più facile sarebbe attaccarne la granitica coerenza dopo averla aggredita insediando al suo interno oggetti estranei all’impianto originale. Anziché restare il baluardo di una concezione forte e severa della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, l’art. 9 si trasformerebbe in un catalogo di pii desideri, di aspirazioni delle anime belle, di principi generali che non richiedono (come invece la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico) la costante azione di precise e dedicate strutture dello Stato». Ibid [corsivi miei]

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strategicamente al concetto di paesaggio e al suo retroter-ra anzitutto patrimoniale e cultural-identitario.

Come che sia, il periodo successivo alla citata intervista a Settis del 2003 è segnato dall’adozione (2004) del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dalle sue importanti modifiche del marzo 2006 e del marzo 2008. Tutti provve-dimenti che devono molto al contributo dello stesso Settis divenuto anzi dal 2007, per volere di Francesco Rutelli, presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e pa-esaggistici. Ma, come si è già accennato, questi sono anche gli anni in cui grazie all’assestamento dell’egemonia poli-tico-culturale berlusconiana la deregulation urbanistica fa grandi passi in avanti fino a sfociare nel devastante quanto emblematico «Piano casa» mentre sul versante opposto si assiste a un ritorno di sensibilità diffusa e di mobilitazione per la salvaguardia del paesaggio e del territorio. Esempla-re di questo ritorno appare in particolare la nascita di uno strumento telematico agile e reattivo ma al tempo stes-so polivalente e articolato come il sito web «Eddyburg» curato a partire dal 2003 su base volontaria da Edoardo Salzano con l’ausilio di una ramificata rete di collabora-tori tra cui spiccano in particolare Maria Pia Guermandi, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua e Lodo Meneghetti. Molti altri esempi potrebbero tuttavia essere fruttuosamente citati, e Settis stesso avrà modo di farlo generosamente in Paesaggio Costituzione cemento9.

È proprio in questa temperie che il campo visuale di Settis si allarga progressivamente fino ad attribuire alla questione del paesaggio una centralità che nel 2003 era chiaramente enunciata ma non ancora praticata10. Nel corso del 2007, investito dalla responsabilità della presi-denza del Consiglio Superiore e dell’opera di revisione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, Settis inizia a re-plicare per il paesaggio lo schema operativo che era stato alla base di Patrimonio S.p.A.: un’analisi al contempo di grande respiro e di grande dettaglio finalizzata all’inter-vento diretto che si fa pienamente carico dell’intera storia italiana delle politiche di tutela. Questa impostazione è già ben delineata in un articolo del 2007 su «la Repubblica»

9 Settis, Paesaggio Costituzione Cemento cit., pp. 294-297.10 S. Settis, Un patto per la tutela del paesaggio, in «la Repubblica»,

17.11.2006; Mariella Bertuccelli, Così fermerò gli ecomostri. È lo Stato che deve tutelare il paesaggio, non i Comuni, in «Il Tirreno», 29.04.2007.

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che contiene in embrione tutto lo sviluppo argomentati-vo di Paesaggio Costituzione cemento11. Come nel caso di Patrimonio S.p.A., tuttavia, la spinta ad andare oltre la denuncia estemporanea viene da un repentino aggravarsi della situazione. Tra la fine del 2001 e la primavera del 2002 il casus belli era stato il già citato uno-due a firma Tremonti costituito dall’articolo 33 della Legge Finanzia-ria 2002 e dal decreto del 15.4.2002 che istituiva la Pa-trimonio S.p.A., due contestatissime misure che andava-no nella direzione di una sostanziale privatizzazione del patrimonio storico-artistico italiano negando così una secolare tradizione di tutela. A partire dalla primavera del 2009 lo sprone ad agire è dato dal varo del citato «Pia-no casa» voluto da Berlusconi, un provvedimento «per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili» che consente di aggirare i vincoli, le misure di pianificazione e di tutela e persino le sempli-ci autorizzazioni normalmente vigenti nel caso si intenda ampliare o ricostruire un edificio. Il «Piano», sia nella sua prima che nella seconda versione contiene anche misure di depenalizzazione degli illeciti e svuota di fatto i poteri delle Soprintendenze. Scrive a caldo Settis:

Questa bozza di legge è un condono ex ante, anzi non solo legittima e depenalizza, ma incoraggia ciò che fino ad oggi è rea-to, consegnando città e paesaggio dell’intero Paese al partito del cemento, al saccheggio di speculatori senza scrupoli, devastan-do senza rimedio borghi e campagne, persino lo skyline delle nostre città12.

È nel fuoco di questo virulento attacco governativo al patrimonio paesaggistico, al territorio e all’ambiente13,

11 S. Settis, La lunga guerra tra Stato e Regioni, in «la Repubblica», 27.11.2007.

12 S. Settis, Con il piano-casa a rischio anche gli edifici storici, in «la Re-pubblica», 21.3.2009; a questo primo articolo ne faranno seguito altri due, altrettanto allarmati: Che cosa nasconde il piano b del governo, in «la Re-pubblica», 14.4.2009, e Il piano casa e le leggi regionali, in «la Repubblica», 2.9.2009.

13 Perfettamente in linea con la filosofia urbanistica del berlusconismo, condivisa peraltro anche da gran parte dell’opposizione, già espressa nel fallito tentativo di approvare tra il 2004 e il 2006 una nuova legge «per il governo del territorio» (la cosiddetta «legge Lupi»). Questa riforma ur-banistica avrebbe infatti condotto, per usare le parole di Edoardo Salzano, al «rovesciamento dell’urbanistica, al trasferimento di poteri dal pubblico al privato, all’ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide». Eddyburg (E. Salzano), Eddytoriale n. 76, 30.6.2005, in http://ed-dyburg.it/article/articleview/3002/0/151/.

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al quale peraltro quasi tutte le Regioni mostrano di vo-lersi associare senza particolari remore, che Settis decide di redigere «un piccolo libro di battaglia sulla tutela del paesaggio»14.

4. Un ampio «cuore» storico e la sua funzione

Il risultato, che appare nelle librerie all’inizio di dicem-bre 2010, non è un «piccolo libro» bensì un denso volume di oltre 300 pagine organizzato in sette capitoli. I primi due fanno un giro d’orizzonte sulla situazione attuale del paesaggio italiano, sia dal punto di vista materiale che da quello politico-culturale, isituzionale e legislativo. L’ulti-mo richiama alle ragioni e alla necessità della partecipa-zione popolare, a partire dai contesti locali e dall’azione di base, alla tutela del paesaggio. I quattro capitoli centrali costituiscono invece un’ampia e approfondita ricognizio-ne sulla vicenda della tradizione italiana della tutela del patrimonio a partire dai comuni medievali fino alle grandi tappe della legislazione novecentesca.

La lunga narrazione storica non è esornativa, ma – esattamente come in Italia S.p.A. – serve a dimostrare che nel nostro Paese la richiesta di tutelare con attenzione il patrimonio non è una stravaganza di minoranze passatiste e un po’ snob, ma è al contrario l’espressione di una con-sapevolezza di lunga durata dell’eccezionalità del nostro patrimonio che ha trovato il modo di incarnarsi in una tradizione legislativa che ha saputo in più occasioni essere all’avanguardia nel mondo.

Nel terzo capitolo vengono ripercorse le grandi tappe della tutela dei beni culturali in Italia, dalle concrete misu-re di tutela adottate dal medioevo sino alla metà dell’Ot-tocento all’affermazione settecentesca delle idee di patri-monio e di museo, dall’elaborazione di concetti cruciali come il concetto di pubblica utilità – di ascendenza roma-na – all’invenzione di strumenti operativi come il catalogo dei beni da tutelare. Quello che Settis illustra è un percor-so segnato da profonde anche se non sempre consapevoli continuità e da un linguaggio condiviso nel tempo e nello spazio. Tale percorso finisce col delineare una tradizio-

14 Comunicazione personale all’autore, 31.1.2010.

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ne italiana della tutela, cronologicamente antecedente a tutte le altre e per molti aspetti tra le più avanzate. Tale tradizione trova però i primi ostacoli al suo pieno dispie-gamento proprio al momento dell’unificazione nazionale, per la difficoltà ad armonizzare le legislazioni preunita-rie, per l’arretratezza concettuale e operativa del Regno di Sardegna e per le saldissime convinzioni liberiste delle prime élite unitarie. La stasi in questo campo dura fino ai primi anni del Novecento quando, in modo estremamen-te esitante e faticoso, viene dapprima emanata una legge-quadro (1902) che lascia ampi varchi all’arbitrio dei pro-prietari privati e successivamente una legge più organica e restrittiva (1909), «vero atto di nascita della disciplina nazionale italiana della tutela» e madre di tutti i provve-dimenti successivi, fino ad oggi. Oltre a questa primoge-nitura la legge del 1909 ha altri due aspetti interessanti. Il primo è che essa afferma in modo chiaro la preminenza del principio di pubblico interesse rispetto alla proprie-tà privata nel campo delle antichità e delle belle arti, an-che se poi non passa in parlamento l’essenziale principio complementare dell’azione popolare. Il secondo aspetto è costituito dal fatto che la legge è frutto del lavoro di un gruppo di funzionari, politici e giuristi emerso negli anni immediatamente precedenti (Rava, Ricci, Rosadi, Berna-bei, Parpagliolo) e che forgerà tutte le politiche italiane di tutela dei due decenni successivi.

Questo lungo excursus sulla tradizione italiana della tutela dei beni culturali – spiega Settis – non è una divaga-zione. L’idea che il paesaggio costituisca un tassello cru-ciale del patrimonio nazionale e i principi della sua tutela – confermati in tutte le leggi successive e nella Costituzio-ne stessa – si affermano infatti in quegli stessi anni di pri-mo Novecento, ad opera degli stessi personaggi, aderendo alla tradizione italiana della tutela e in un rapporto intimo con i provvedimenti riguardanti il patrimonio culturale. È lì, insomma, che secondo Settis vanno ricercate la filo-sofia e le radici storiche della cultura e della legislazione paesaggistiche italiane che attraversano il Novecento ar-rivando fino ai nostri giorni. Da lì, e seguendo la stessa ispirazione, si dipanano la legge del 1922 sulle bellezze na-turali, quindi il riordino legislativo voluto da Bottai tra la

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seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta15 e infine il cruciale riconoscimento della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico nazionale tra i principi fondamentali della Costituzione.

I tre capitoli che seguono sono di conseguenza dedi-cati a ricostruire la vicenda della legislazione italiana della tutela del paesaggio, dalla comparsa in Italia delle prime preoccupazioni ambientaliste, a cavallo tra Otto e No-vecento, fino agli aggiornamenti del 2008 al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Anche qui Settis raccoglie e intreccia in un’unica narrazione diversi filoni di ricerca per mostrare come a un buon punto di partenza – le leg-gi del 1922 e del 1939 – siano seguiti esiti disomogenei, a volte caratterizzati da competenza e lungimiranza ma più spesso da approssimazione e miopia. Ciò che secondo Settis caratterizza questi cento anni è un conflitto perma-nente tra la volontà di affermare principi di tutela chiari e di renderli operativi in modo efficace e una tendenza op-posta a rendere quanto più inoffensiva possibile la tutela stessa. La prima tendenza si è espressa chiaramente nella redazione dell’articolo 9 della Costituzione, nella Legge Galasso del 1985, in una serie di pronunciamenti della Corte costituzionale dagli anni settanta in poi e nel Co-dice del 2004 con le sue revisioni successive; la seconda ha trovato espressione anzitutto nel mancato raccordo tra la legge sulle bellezze naturali del 1939 e la legge urbanistica del 1942 e successivamente nell’applicazione parziale del-la stessa legge del 1939, nella mancata approvazione della riforma Sullo e nell’ingarbugliata e compromissoria devo-luzione di competenze alle Regioni dopo il 1970, il tutto mentre alle classi dirigenti italiane mancava – salvo rare eccezioni – un’idea alta della tutela e un respiro progettua-le moderno al riguardo. Negli ultimi dieci anni il conflitto si è se possibile inasprito ulteriormente giungendo a esiti schizofrenici come la parallela promulgazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la proposta di riforma urbanistica Lupi e l’avvio del Piano casa di Berlusconi.

Questa dialettica è illustrata da Settis grazie a una narrazione di grande dettaglio sostenuta da una visione

15 Sul quale esiste un’eccellente raccolta di saggi e di documenti origi-nali: Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, a cura di V. Cazzato, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2001.

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coerente dei soggetti e degli interessi in campo, delle ri-correnze e delle novità e delle concrete conseguenze di ciascun atto.

5. Un’operazione concettuale forte, con qualche assolutizzazione e torsione interpretativa

L’operazione che sottende la narrazione è chiara e ambiziosa: dare piena legittimità a un robusto regime di tutela radicandolo da un lato nella necessità di salvare il salvabile in un Paese di immense ricchezze devastato dalla rapacità e dall’incuria e dall’altro in una grande tradizione nazionale di cura del bene pubblico che dal medioevo ar-riva al Codice passando per la pietra angolare dell’articolo 9 della Costituzione.

Scrive Settis:L’antico modello della conservazione contestuale del patri-

monio culturale nel suo intimo legame col paesaggio potrà ritro-vare lo smalto e lo slancio richiesto dalle drammatiche circostan-ze che viviamo e dalla nostra responsabilità verso le generazioni future solo se sapremo misurarci con nuove domande e nuove tensioni senza perdere la nostra memoria storica e istituzionale. È necessario saper innescare due processi culturali: il primo, del quale ho parlato, è la piena consapevolezza storico-istituzionale della funzione civile e sociale della tutela del patrimonio [e del paesaggio]. Il secondo processo [...] è la piena reintegrazione dei temi della tutela sulla frontiera dei grandi sviluppi culturali del nostro tempo16.

La sfida di Settis – e date queste premesse non può es-sere diversamente – passa per un largo e attento uso della ricerca storiografica, facendo confluire e portando a sinte-si più filoni di studi: quello sulle legislazioni preunitarie, quello riguardante le politiche patrimoniali nei Paesi stra-nieri e in particolare in Francia, quello più recente riguar-dante la fissazione del canone legislativo italiano nei pri-mi quaranta anni del Novecento, quello sulla genesi della Costituzione, sull’architettura dei suoi articoli e sulle sue successive interpretazioni, e infine quello sulle problema-tiche relative alla ripartizione delle competenze tra organi centrali dello Stato e autonomie locali. In qualche caso, infine, Settis fa personalmente ricorso all’archivio nei casi

16 Settis, Paesaggio Costituzione Cemento cit., p. 135.

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in cui la letteratura non offra i raccordi logici e narrati-vi a lui necessari. La conseguenza è che i quattro capitoli centrali finiscono col configurarsi come un vero e proprio manuale di storia della tutela italiana del patrimonio dal medioevo ai giorni nostri.

Poiché – com’è del resto giusto in un «libro di batta-glia» – gli assunti teorici e politici di Paesaggio Costitu-zione cemento sono molto forti, Settis adotta qui e là delle assolutizzazioni e imprime delle torsioni analitiche17 che pongono dei problemi e meritano una discussione dalla quale possono derivare spunti per ulteriori ricerche e pro-poste politiche.

6. La nozione di paesaggio e la sua lunga crisi

Un primo problema è dato dalla scelta di assolutizzare i valori della publica utilitas, del patrimonio, del decoro nazionale o quantomeno di attribuire loro una continuità storica tale da porli in una sorta di dimensione separata, scarsamente permeabile dai processi culturali e sociali. I motivi di una scelta del genere si comprendono bene, e possono anche essere condivisi: è giusto invocare e difen-dere tali valori mostrandone l’antichità, il loro sistemati-co ripresentarsi nella storia italiana, la ricchezza di senso che hanno saputo via via sprigionare e le opere, materiali e morali, che hanno saputo generare. È giusto e oppor-tuno dimostrare come proprio nella nostra penisola essi abbiano dato vita a esperienze legislative e amministrative pionieristiche e abbiano saputo creare approcci più attenti che in altri Paesi. È questa, lo abbiamo già sottolineato, la via maestra per dimostrare che non si sta parlando di ubbie di élites passatiste ma al contrario di questioni vitali per il presente e il futuro del Paese.

17 Assolutizzazioni e torsioni che appaiono in molti casi ben cons-apevoli, frutto di precise scelte discorsive. Nella citata intervista del 2003 a Bruno Pedretti Settis aveva dichiarato ad esempio di non voler negare a priori – come sarebbe potuto sembrare – la constatazione del giornalista di «un’erosione consumistica del ruolo storico del patrimonio culturale quale perno nella costruzione dell’identità civile», ma di voler piuttosto respingere il rischio di derivare da tale constatazione un atteggiamento scettico e una resa all’«appiattimento sui livelli più bassi delle culture sociali». B.Pedretti, Settis: a rischio vero sono i paesaggi cit.

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Ma per conoscere e combattere meglio le contraddi-zioni e le debolezze della tutela italiana è necessario ana-lizzare anche il contesto in cui i suoi valori sono nati e si sono consolidati e la loro evoluzione recente, tanto più in una società che ha sempre mostrato una grande resisten-za a riconoscerli e a farli propri. Senza volersi addentrare in una – pur legittima – decostruzione di taglio etnogra-fico delle categorie patrimoniali18 è opportuno anzitutto sottolineare come accanto alla storia italiana della publica utilitas, del patrimonio e del decoro nazionale andrebbe ricostruita la storia di tutto ciò che nel nostro Paese ha nel tempo congiurato in direzione opposta, dal particu-lare guicciardiniano al tetragono laissez faire postunita-rio sino alla proclamazione berlusconiana dei «padroni in casa propria». Per quanto riguarda l’atteggiamento degli italiani verso la natura, ad esempio, va dato merito a Piero Bevilacqua di aver tentato un abbozzo di analisi struttu-rale e di lungo periodo che desse conto anche di senti-menti radicati come l’indifferenza e l’ostilità19. L’utilità di un’analisi del genere per quanto riguarda il patrimonio artistico, monumentale e urbanistico non sarebbe certo inferiore.

È tuttavia possibile tentare anche un elenco, per quan-to sommario e provvisorio, di elementi di non così lunga durata, più «congiunturali».

Un colpo estremamente serio alla legittimazione pub-blica delle politiche patrimoniali è venuto ad esempio dal declino delle culture nazionaliste. Le ideologie adottate dalle borghesie ottocentesche nell’ambito dei vari proces-si di nation building e le pedagogie popolari che ne erano derivate avevano costituito il perno attorno al quale era-no state costruite le politiche patrimoniali, non solo nel campo dei beni storico-artistici ma nella maggior parte dei

18 Come ha fatto a suo tempo, non senza acume, B. Palumbo proprio discutendo di Italia S. p. A. nel suo L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia Orientale, Meltemi, Roma 2003, pp. 363-378.

19 P. Bevilacqua, I caratteri originali della storia ambientale in Italia. Proposte di discussione, «I frutti di demetra», III (2005), n. 8, pp. 6-13; Id., Sulla impopolarità della storia del territorio in Italia, in Natura e società. Studi in memoria di Augusto Placanica, a cura di P. Bevilacqua e P. Tino, Meridiana Libri e Donzelli, Roma 2005, pp. 7-16, ora anche nel sito «Eddy-burg» (http://www.eddyburg.it/article/articleview/2315/1/29, consultato in data 23.2.2012).

Questioni98

casi anche nel campo dei beni paesaggistici e ambientali20. Dopo il 1945 il nazionalismo viene considerato – non a torto – responsabile diretto tanto delle due guerre mondia-li quanto della crisi economica degli anni trenta e delle dit-tature fasciste cosicché le culture politiche predominanti in Europa tendono a ripudiarlo per abbracciare una visio-ne cooperativa e universalista21, in armonia peraltro con lo spirito che anima la neonata Organizzazione delle Na-zioni Unite e che animerà le sue successive dichiarazioni, a partire da quella universale dei diritti dell’uomo appro-vata nel 1948. Per quanto il sentimento di appartenenza nazionale non scompaia né nelle retoriche istituzionali né nella sensibilità popolare, la sottolineatura dell’unicità del proprio Paese e del suo destino storico e il forte richiamo alla conservazione dell’identità nazionale si affievolisco-no sensibilmente. La centralità della tradizione, il culto di una identità basata su un patrimonio collettivo provenien-te da un tempo remoto vengono progressivamente corro-si e resi marginali dalla crescente centralità simbolica del consumo e soprattutto dei consumi più moderni, cioè più innovativi e a maggior contenuto tecnologico22.

Grazie alla rapida crescita del dopoguerra si verificano inoltre in molti Paesi europei delle profonde trasforma-zioni economiche che sconvolgono e in qualche caso can-cellano gerarchie spaziali, sociali e culturali consolidatesi nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecen-to23; anche questi cambiamenti fanno sentire il loro peso su una concezione del patrimonio che era nata all’interno

20 Per quanto riguarda l’Italia mi permetto di rimandare al mio Il vol-to amato della Patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Università degli Studi di Camerino, Camerino 1999 («L’uomo e l’ambiente», 32).

21 Un’espressione estremamente limpida e concisa di questo cambia-mento è contenuta in uno scritto del presidente tedesco Konrad Adenauer, End of Nationalism, in Id., World Indivisible with Liberty and Justice for All, Harper & Brothers, New York 1955, pp. 5-10.

22 Con la metà del Novecento, peraltro, in quasi tutti i Paesi europei può essere considerata compiuta una delle grandi missioni inerenti al nation building: la trasformazione di una massa di abitanti culturalmente assai etero-genea in un corpo di cittadini culturalmente «addestrati» all’appartenenza nazionale nel senso indicato da E. Weber, Da contadini a francesi. La mod-ernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, il Mulino, Bologna 1989 (ed. or. Stanford 1976). L’educazione al culto delle tradizioni nazionali era stato uno dei tasselli fondamentali di questo dressage culturale.

23 Una trattazione francese del fenomeno che ha incontrato un buon successo di pubblico per la sua organicità e semplice eleganza è l’opera di H. Mendras, La seconde Révolution française 1965-84, Gallimard, Paris 1988.

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di una sensibilità alto-borghese e che della borghesia ri-fletteva cultura e ideali24.

Nel fuoco di tutte queste trasformazioni la legittima-zione sociale di alcuni dei pilastri su cui era stata fondata la moderna idea di patrimonio (storico-artistico o ambientale che fosse) si indebolisce, la loro visibilità si appanna cosic-ché la necessità stessa della tutela finisce in molti casi per smarrirsi. Tanto più in un Paese come l’Italia, dall’identità nazionale tarda, incompiuta e sempre fragile.

Ancor più congiunturali, per così dire, sono alcuni fat-tori di crisi entrati in gioco più recentemente.

Quello che Settis definisce ad esempio l’«appiatti-mento sui livelli più bassi delle culture sociali» è stato un processo che ha trovato forse proprio in Italia la sua consacrazione più alta grazie al berlusconismo25, con ri-flessi culturali e istituzionali di grande portata. Né pos-sono essere sottovalutati i riflessi di un processo molto più onnipervasivo come la progressiva affermazione delle politiche neoliberiste, avviatosi alla metà degli anni set-tanta26 e che proprio con la crisi economica iniziata nel 2008 sta dispiegandosi pienamente. Tali politiche tendono a svuotare quasi completamente – se non completamente – l’intervento pubblico non soltanto nel campo dei settori economici direttamente produttivi ma anche nel campo del welfare, della formazione, della cultura, delle infra-strutture, perseguendo al contempo la privatizzazione di gran parte dei servizi tradizionalmente esercitati dal pub-blico, la drastica riduzione del carico fiscale, il controllo diretto da parte delle imprese di settori chiave delle istitu-zioni e una sorta di spietato darwinismo economico pri-ma ancora che sociale per cui tutto ciò che non è in grado di stare sul mercato con le gambe proprie deve senz’altro scomparire. Quanto Settis denunciava nel 2002 in Italia S.

24 Si badi che con ciò non intendo in alcun modo abbracciare la visione di coloro che in varie fasi hanno definito «elitiste», con una connotazione sostanzialmente negativa, le iniziative dei fautori della tutela patrimoniale. Quasi sempre anzi gli sforzi di questi ultimi, pur nascendo in contesti social-mente molto caratterizzati, hanno infatti avuto ambizioni universalistiche e sono stati sottesi da un anelito alla preservazione del bene pubblico inteso come appartenente all’intera collettività.

25 Si può fare qui riferimento, ad esempio, alle pagine 46-57 e 75-80 di A. Gibelli, Berlusconi passato alla storia, Donzelli, Roma 2010.

26 Sui caratteri di fondo di tale processo un’eccellente introduzione è costituita da D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Saggiatore, Milano 2008 (ed. or. Oxford 2005).

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p. A. non era altro che una manifestazione italiana dell’af-fermazione di questo paradigma planetario27. Ma non ba-sta. Il dilagare pressoché incontrastato del paradigma e delle pratiche neoliberiste è al tempo stesso effetto e causa di un progressivo indebolimento della sovranità politica nazionale incarnata dalle assemblee elettive, un fenome-no che ha finito a sua volta col mettere in crisi la funzio-ne e il funzionamento dei partiti politici di massa, grandi protagonisti dell’era keynesiana. Il progressivo ridursi dei partiti a veicoli di ristretti gruppi di interesse, la rinuncia ad essere strumenti di organizzazione e di educazione po-polare e la loro perdita di orizzonte progettuale sono tutti fenomeni che pongono un’ulteriore ipoteca sulla possibi-lità di realizzare politiche di tutela efficace e di immagi-narne di innovative.

7. Quale conflitto tra paesaggio e ambiente?

Gran parte dei fattori di crisi appena elencati non ven-gono presi in considerazione da Settis, che dedica inve-ce ampio spazio a un fenomeno che ha avuto anch’esso un grande peso nel rimettere in discussione il concetto di paesaggio e l’impianto teorico delle politiche italiane di tutela affermatesi negli anni 1905-48: l’emergere, dalla metà degli anni sessanta in poi, dell’ambientalismo e del concetto di ambiente.

Settis non nega l’estrema rilevanza della questione ambientale, quali che siano i contorni e i contenuti che le si vogliano attribuire, ma in vari punti del testo emer-ge una sua larvata sottovalutazione e un senso di disagio nei suoi confronti che avevamo già intravisto nell’ostilità del 2003 all’integrazione dell’articolo 9 della Costituzio-ne. Questo disagio finisce involontariamente col traspa-rire già nel lessico, quando Settis – proprio in apertura del capitolo riguardante i rapporti tra paesaggio, territo-

27 Peraltro non la prima: precoce interprete degli umori neoliberisti, infatti, la compagine governativa craxiana aveva già nel 1985 teorizzato la «concezione mineraria» dei beni culturali. L. Bobbio, Le concezioni della politica dei beni culturali, in I beni culturali: istituzioni ed economia. Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale della ricerca (Roma, 20 mag-gio 1998), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1999 («Atti dei convegni dei Lincei», n. 152), p. 24.

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rio e ambiente – si lascia sfuggire che l’endemico conflitto di competenze tra Stato e Regioni «non è il solo nemico del nostro paesaggio» perché ad esso vanno aggiunti «il progressivo emergere della nozione di “ambiente” e, in anni più recenti, il rapporto fra la normativa italiana e la Convenzione europea sul paesaggio»28. In un senso molto specifico Settis ha certamente ragione, e ne ha forse ancor più di quanto egli stesso non riesca a vedere. È ben vero che nella temperie politica e culturale degli anni sessan-ta-settanta la nozione «quantitativa» di ambiente finisce col riscuotere un successo molto maggiore di quella «di per sé essenzialmente qualitativa»29 di paesaggio fino alla tentazione di sussumere la seconda all’interno della pri-ma, ma per ragioni che non hanno a che vedere con una pretesa «imperialista» degli ambientalisti e solo in qualche sporadico caso con la volontà delle Regioni di aggirare il controllo statale mediante il grimaldello di una nozione giuridicamente non ancora ben definita. Coerentemente con quest’ultima lettura Settis dedica ampio spazio a una vicenda che nella realtà ebbe tutto sommato scarsa rile-vanza, cioè la presentazione nel 1973 della relazione Tec-neco (gruppo Eni) sulla situazione ambientale del Paese. In quell’occasione si sarebbe verificata secondo Settis una «sotterranea, inconfessata convergenza Eni-Pci» affinché «la nuova nozione di ‘ambiente’, proprio perché ancora indeterminata e senza un contenuto giuridico definito, potesse funzionare come una sorta di magnete, annetten-dosi di fatto […] le materie dell’art. 9 Cost. (paesaggio e beni culturali)»30. La conclusione è, se possibile, ancor più drastica:

La nozione giuridica di «ambiente», ancora in formazio-ne, venne dunque intesa allora come il grimaldello col quale si potesse forzare la magica porta oltre la quale «territorio» e «urbanistica», diventati tutt’uno, potessero di fatto ingoiare il «paesaggio» senza nemmeno dirlo esplicitamente.

Nell’ampia discussione della relazione Tecneco, rela-zione che non ebbe peraltro alcun seguito, Settis sottoli-nea a più riprese il misconoscimento dell’articolo 9 della Costituzione attribuendolo a una precisa volontà di met-

28 Settis, Paesaggio Costituzione Cemento cit., p. 222.29 Ivi, p. 224.30 Ivi, p. 226.

Questioni102

terlo tra parentesi, mettendo così in un angolo sia la cen-tralità del paesaggio sia le competenze statali al riguardo.

Ma la profonda crisi incontrata dalla nozione costitu-zionale di paesaggio tra gli anni sessanta e settanta non è ragionevolmente imputabile a una consapevole volon-tà annessionista del nascente ambientalismo oppure alle sole mire delle Regioni sulle attribuzioni di competenza. Come ho cercato di mostrare più sopra quella crisi aveva radici culturali ben più profonde, radici che si intreccia-vano perversamente con la spinta possente, disordinata e vorace all’edificazione innescata dal miracolo economico.

8. Un caso esemplare: Antonio Cederna 1975

Una manifestazione particolarmente significativa di quella crisi è leggibile proprio in un personaggio che è stato un antesignano nel riuscire a imporre la questione della tutela del patrimonio storico-artistico e del paesag-gio come grande questione politica nazionale: Antonio Cederna.

Anche il giornalista lombardo partiva da una formazio-ne archeologica; anche per lui i primi interessi nel campo della tutela hanno riguardato i beni storico-artistici; anche lui ha avuto in Italia Nostra la prima sponda associati-va importante, nella quale pure ha giocato un ruolo assai significativo. Ma Cederna ha avuto anche la capacità di fare in se stesso, e con decenni di anticipo31, ciò che in Pa-esaggio Costituzione Cemento viene considerato un pas-saggio strategico, ancora tutto da compiere: l’assunzione di paesaggio, territorio e ambiente in un unico orizzonte, cognitivo e politico. Nel Cederna della metà degli anni settanta, lo stesso che contribuisce assieme a Italo Insolera e a Fulco Pratesi a un volume Mondadori sulla difesa del territorio32, il giudizio sulla nozione di paesaggio e la per-

31 Nel gennaio 1962 Cederna si rivolge a Renzo Videsott, l’unico in-sieme ad Alessandro Ghigi che in quegli anni ha in Italia una qualche forma di consapevolezza di quanto si muove a livello internazionale in campo ambientalista, chiedendogli di «istruirlo» sulla storia della protezione della natura nel mondo. Ho fatto cenno a questa svolta nel percorso intellettuale di Cederna alle pp. 333-334 del mio Primo di cordata. Renzo Videsott dal sesto grado alla protezione della natura, Temi, Trento 2010.

32 A. Cederna, I. Insolera, F. Pratesi, La difesa del territorio. Testi per Italia Nostra, Mondadori, Milano 1976.

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cezione dell’adeguatezza dell’articolo 9 della Costituzione appare quasi agli antipodi rispetto al Settis di trentacinque anni dopo, nonostante gli obiettivi pratici e le aspirazioni civiche siano esattamente gli stessi. Tra i testi di Cederna ce n’è uno che illustra particolarmente bene i contorni del dissidio che in quegli anni opponeva la nozione di paesag-gio e quella di ambiente: l’introduzione a La distruzione della natura in Italia33, fortunata raccolta di articoli uscita anch’essa per i tipi di Einaudi. Qui viene affrontata – cosa all’epoca ancora piuttosto rara – una questione che negli anni seguenti verrà ripresa molte volte34 e che alla fine ri-sulterà centrale nell’argomentazione di Settis: la storia, il significato e il ruolo dell’articolo 9 della Costituzione.

Anche per Cederna il problema è individuare le radici culturali e giuridiche dello «sfacelo del Bel Paese» che ven-gono rinvenute non in un vuoto giuridico – come all’epoca si tendeva facilmente a pensare – bensì in una «mancanza di leggi moderne» perversamente accoppiata all’«esisten-za di leggi anacronistiche». La legge «anacronistica» è qui proprio la legge Bottai del 1939, colpevole in sostanza di avere come oggetto le bellezze naturali in un’accezione in cui la «bellezza» tende a vanificare la «natura».

Scrive Cederna: Per essa infatti le località da proteggere sono quelle che si di-

stinguono per la loro «non comune bellezza», che «compongo-no un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradiziona-le»; e le «bellezze panoramiche» sono considerate come «quadri naturali» da tutelare soltanto nel loro «esteriore aspetto». È cioè una legge tutta impostata su criteri esclusivamente estetici e for-malistici, che par fatta apposta per favorire apprezzamenti sog-gettivi, quindi arbitrari e discrezionali, rendendo impossibile ogni valutazione certa. Per di più la scelta delle zone da vincola-re è affidata a una commissione provinciale composta, secondo i criteri corporativi dell’epoca, da rappresentanti delle «catego-rie» interessate (industriali, agricoltori, commercianti), interes-sate cioè a tutto fuor che alla conservazione di quelle «bellezze». Ad essi viene aggiunto un «artista» (!): risultano accuratamente

33 A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino 1975. Le citazioni provengono da vari punti delle pagine 5-9.

34 Oltre che in varie opere giuridiche di commento alla Costituzione, negli ultimi anni la genesi dell’articolo 9 della Costituzione è stata trattata in numerosi articoli e relazioni a convegni sulla tutela patrimoniale. Sul sito www.eddyburg.it si possono ad esempio consultare diversi testi di Giovanni Losavio, Maria Pia Guermandi, Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano dal 2008 ad oggi.

Questioni104

esclusi tutti i competenti in materia, naturalisti, ecologi, botani-ci, geologi, zoologi, paesaggisti, urbanisti, sociologi, ecc.

Le conclusioni sono impietose: Ridotto il paesaggio a un semplice pretesto estetico, visuali-

stico (anzi, si direbbe «voyeuristico») per pochi eletti, alla for-ma esterna ovvero «all’esteriore aspetto» delle cose, esso viene degradato a pura apparenza di una sostanza che viene comple-tamente trascurata. Questa sostanza è appunto la natura, nella sua consistenza, varietà e unità: la natura con le sue leggi, i suoi delicati equilibri ecologici, i suoi cicli biologici; la natura che è fatta di vegetazione, foreste, flora, fauna, geologia, montagne, spiagge, laghi, corsi d’acqua, rocce, paludi, stagni, deserti, mi-crorganismi, lombrichi, catene alimentari e via dicendo, com-plicata compagine dove tutto è strettamente collegato e inter-dipendente. E mentre si pretende di limitare la tutela alla sua pelle (e per di più secondo canoni di «non comune bellezza» del tutto arbitrari, ad esclusiva discrezione di funzionari, lottizza-tori, avvocati e magistrati), ci si libera da qualunque considera-zione circa le elementari, primarie finalità della conservazione della natura come «bene territoriale ambientale»: scientifiche, economiche, sociali, culturali, igieniche, idrogeologiche, da cui dipendono vita e sicurezza dell’uomo e delle sue opere.

Con questo siamo a una rivendicazione della possibi-lità di giudicare «quantitativamente», cioè in maniera re-lativamente oggettiva, ciò che fino a questo momento si è scelto di giudicare (e tutelare) «qualitativamente», con tutti i pericoli di soggettivismo conseguenti e con tutti i fallimenti della tutela poi puntualmente verificatisi.

Non diverso è il giudizio sull’articolo 9 della Costi-tuzione, in quanto nel corso della sua discussione è stato oltretutto eliminato qualsiasi riferimento alla stessa cate-goria, pur obsoleta, di «monumenti naturali» in favore del «termine vago e inafferrabile di ‘paesaggio’».

Anche in questo caso le conclusioni sono impietose e – come si vede bene – diametralmente opposte a quelle di Settis:

Ai costituenti è dunque sfuggito completamente il si-gnificato, l’importanza del problema della conservazione della natura, le sue implicazioni urbanistiche e sociali, i suoi rapporti con la salute pubblica, l’impiego del tempo libero, la sicurezza del suolo.

Alla luce della sua parabola di saggista e di figura civi-camente impegnata sarebbe fuori luogo imputare ad An-tonio Cederna un ambientalismo «imperialista», ignaro o incurante del valore dei beni storico-artistici e paesaggisti-

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ci; tanto meno è proponibile pensarlo come simpatizzante delle accese rivendicazioni regionaliste degli anni settanta. Semmai il contrario. Ciò che vediamo all’opera in queste sue pagine del 197535 è in realtà l’adesione a un preciso e diffuso «spirito dei tempi», cioè al successo globale di una cultura ambientalista che a partire dal secondo do-poguerra ha spostato progressivamente l’accento da una visione anzitutto estetica e patrimoniale della natura36 a una incentrata – alternativamente o contemporaneamente – sulla salvaguardia della biodiversità oppure delle risorse naturali37. Ho sottolineato altrove38 come la visione di Ce-derna peccasse di ingenerosità e – ciò ch’è peggio – di un certo anacronismo nella sua condanna della legge Bottai e dell’articolo 9, ma nel giudicarla sarebbe paradossale ca-dere oggi nel medesimo errore. La visione dominante alla metà degli anni settanta tra i fautori della tutela era in ef-fetti quella espressa da Cederna e per quanto la richiesta di integrare paesaggio, territorio e ambiente apparisse allora come oggi inaggirabile, l’accento finiva comprensibilmen-te col battere su uno strumento concettuale – l’ambiente – che si presentava profondamente innovativo e dotato di grandi capacità euristiche.

Se, d’altro canto, Settis è oggi in grado di postulare una centralità strategica e una perfetta compiutezza dell’arti-colo 9 della Costituzione, non è in virtù di sue caratteri-stiche intrinseche e costantemente riconosciute nel corso della storia repubblicana bensì grazie a sviluppi culturali e giurisprudenziali piuttosto recenti. Quando Cederna punta il dito contro la genericità e la limitatezza – e di

35 Come ancora in un articolo di una quindicina di anni dopo in favore dell’integrazione dell’articolo 9 con un richiamo specifico all’ambiente: A. Cederna, Il palazzo scopre l’ambiente?, «la Repubblica», 25.9.1991.

36 Sulla quale si è soffermato con sguardo spazio-temporale inusual-mente ampio F. Walter nel suo Les figures paysagères de la nation. Territoire et paysages en Europe (16e-20e siècle), Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 2004, ma sulla quale si sta concentrando un cres-cente interesse, testimoniato ad esempio dalla recente nascita della rete di studiosi denominata «Nature and Nation».

37 Di grande interesse al riguardo è la ricostruzione contenuta in Y. Mahrane, M. Fenzi, C. Pessis, C. Bonneuil, De la nature à la biosphere. L’invention politique de l’environnement global, 1945-1972, in «Vingtième Siècle», XXIX (2012), n. 113, pp. 127-141, a partire da un’analisi della storia dell’Union Internationale pour la Conservation de la Nature (UICN) tra la fine degli anni quaranta ai primi anni settanta.

38 L. Piccioni, Paesaggio della belle époque. Il catalogo delle bellezze naturali d’Italia 1913-26, in corso di pubblicazione negli «Annali della Fondazione Luigi Micheletti».

Questioni106

conseguenza contro la debolezza operativa – dell’articolo 9 si è infatti in un’epoca in cui tale disposizione gode di scarsa popolarità tra gli stessi giuristi proprio per i motivi indicati da Cederna39, e un primo recupero del suo valore si verifica solo nello stesso 1975 – e solo a livello di teoria – grazie alla lettura datane da Fabio Merusi nel Commen-tario della Costituzione curato da Giuseppe Branca40.

9. Il nodo più problematico: la ricomposizione di paesaggio, territorio e ambiente

Questa illustrazione dei modi opposti con cui due grandi paladini della tutela hanno considerato a distanza di trentacinque anni la costruzione novecentesca italiana della tutela del paesaggio e l’articolo 9 della Costituzione serve a indicare in che senso la densa e impegnata sintesi di Settis possa e debba essere considerata tanto un punto di arrivo quanto un punto di partenza.

Settis ha costruito con lucidità e competenza una tra-iettoria storica della tutela italiana del paesaggio, indican-done i punti di forza e le debolezze, i successi e i fallimen-ti, le sue straordinarie potenzialità attuali; ha sottolineato energicamente la necessità di superare i conflitti di com-petenza tra articolazioni centrali e locali dello Stato; ha invocato un capillare e deciso intervento dal basso, sia a livello locale che nazionale, come strada maestra per in-vertire una rotta catastrofica che i partiti politici e le am-ministrazioni centrali e locali non sembrano più in grado di correggere. Un nodo che invece Settis più volte e giu-stamente richiama ma che pare estremamente difficile da sciogliere è quello del superamento del divorzio concet-tuale e istituzionale tra paesaggio, territorio e ambiente.

Un divorzio non necessario dal punto di vista teori-co e anzi per molti aspetti ingiustificato41, ma che è stato

39 M. Cecchetti, Art. 9, in Commentario della Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Torino 2006, pp. 220-21.

40 Come riconosce lo stesso Settis a pagina 235 di Paesaggio Costituzi-one Cemento. Si osservi peraltro come uno spoglio integrale di due impor-tanti quotidiani nazionali «La Stampa» e «l’Unità» tra gli anni 1970 e 1975 non sia in grado di restituire alcuna relazione testuale tra il termine ‘paesag-gio’ e l’espressione ‘articolo 9 della Costituzione’.

41 «Gli usi strumentali ormai correnti di questa terminologia non hanno nulla di necessario né sul piano culturale né sul piano giuridico». Settis, Pae-

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costantemente alimentato da tenaci miopie disciplinari, magari involontarie, e dai conflitti di competenza tra isti-tuzioni pubbliche che individuavano nell’uno o nell’altro termine uno strumento di difesa delle proprie prerogati-ve.

Nonostante, come si è visto, anche Settis corra qua e là il rischio di confinarsi in un’ottica ristretta derivante dalla specificità della sua formazione, i suoi richiami alla ricostituzione di un nesso saldo e non gerarchico tra pae-saggio, territorio e ambiente appaiono appassionati e ben motivati. Settis mostra come diverse sentenze della Corte Costituzionale, e in particolare tre del 1987, abbiano pro-dotto una interpretazione della nozione costituzionale di «paesaggio» che va molto oltre il significato originario e riesce a comprendere in sé la tutela ambientale e quella della salute, facendo anche di questi obiettivi dei «valori costituzionali primari e assoluti»42. Nel testo di Settis ri-torna più volte anche il richiamo all’insegnamento di Gio-vanni Urbani, a lungo presidente dell’Istituto Italiano del Restauro e solitario sostenitore già dagli anni ottanta della necessità di ricondurre a un unico ministero tutte le com-petenze riguardanti beni culturali, paesaggio e ambiente proprio al fine di combattere «il già troppo confuso in-treccio di poteri e competenze dei vari organi dello Stato aventi giurisdizione su materie affini o complementari»43. Una soluzione, questa, che anche a Settis sembra tanto ideale quanto di estrema difficoltà se non impossibile di fronte alla «giungla delle norme» che avviluppa il settore.

L’attribuzione a un unico organismo di tutte le com-petenze riguardanti beni culturali, paesaggio e ambiente avrebbe potuto probabilmente porre un argine efficace «alla cannibalizzazione del territorio» e forse potrebbe fare ancora molto per ridimensionarla. Se ciò non è av-venuto non è però solo per calcoli di bottega o per facilo-neria, come ipotizza Settis illustrando il processo di isti-tuzione di nuovi ministeri dai primi anni settanta in poi. Il «balletto delle etichette», la «danza di musical chairs»44, che ha portato dal 1973 in poi a una sorta di stravolgimen-to permanente delle competenze ministeriali, con scissio-

saggio Costituzione Cemento cit., p. 251. 42 Ivi, p. 242.43 Ivi, p. 250.44 Ivi, p. 247.

Questioni108

ni, riaccorpamenti, sparizioni e ricomparse di materie e oggetti, ha avuto effetti paradossali e ha contribuito note-volmente alla costruzione di quella «giungla normativa» che paralizza oggi la tutela, ma non è stato solo un caso italiano né era facilmente evitabile.

Se si mette infatti a confronto il processo italiano di «ministerializzazione» dei beni culturali e dell’ambiente come descritto da Settis con quello degli altri Paesi eu-ropei, ci si rende facilmente conto che la stabilità di de-nominazioni e competenze non è stata affatto la regola. Solo Germania, Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimar-ca, Olanda e Svizzera hanno avuto negli ultimi decenni un ministero dedicato alle questioni ambientali che non ha mai mutato denominazioni né competenze. In Gran Bretagna il ministero dell’ambiente più antico d’Europa (1970) è stato accorpato dal 1997 dapprima con i trasporti e successivamente con l’agricoltura, subendo con Came-ron lo scorporo delle questioni energetiche e del cambia-mento climatico. In Spagna dopo un’iniziale fase in cui esisteva un ministero dedicato (1996-2008) le competenze ambientali sono state accorpate nel ministero dell’agri-coltura. In Austria l’ambiente è stato volta a volta solo o associato alle materie più eterogenee, come gioventù, famiglia, agricoltura, turismo, eccetera. Ma il caso di mag-gior erraticità, di fronte al quale il caso italiano finisce con l’impallidire è quello della Francia45. Qui dal 1972 l’am-biente si è presentato nelle compagini governative in una quindicina di configurazioni diverse: da solo come «en-vironnement»; da solo come «ecologie et developpement durable»; totalmente assente, sia pure per un brevissimo periodo; associato al «cadre de vie»; associato alla «qualité de la vie»; associato alla cultura; associato all’«amenage-ment du territoire»; associato ai trasporti e al «logement»; associato all’«equipement», al «logement» e all’«amena-

45 L’emergere dell’ambiente nell’agenda istituzionale francese è da qualche anno oggetto di grande interesse da parte degli studiosi. Possi-amo ricordare il libro di F. Charvolin, L’invention de l’environmment en France. Chroniques anthropologiques d’une institutionnalisation, Éditions La Découverte, Paris 2003, l’interesse dedicato alla questione in M. Bess, The Light Green Society. Ecology and Technological Modernity in France, 1960-2000, The University of Chicago Press, Chicago 2003 (capitolo 9), e il recente convegno tenutosi a Parigi il 16 novembre 2011 e intitolato Les 40 ans du ministère de l’Environnement. Aux sources de la création du minis-tère de l’Environnement: des années 1950 à 1971.

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gement du territoire». Come se ciò non bastasse in alcuni casi si è trattato di ministeri a pieno titolo, in altri di «mi-nisteres delegués», in altri di semplici sottosegretariati.

Da questa sommaria comparazione si evincono due o tre circostanze importanti. La prima circostanza è data dal fatto che la tendenza a istituire ministeri dedicati del tutto o in parte all’ambiente è pressoché universale e deriva da quello «spirito dei tempi» cui si è fatto cenno parlando di Antonio Cederna. Durante una prima ondata 1970-1973 vengono infatti creati ministeri per l’ambiente in Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Francia, Austria e Italia mentre nel corso di una seconda ondata degli anni 1982-88 essi vengono creati in Olanda, Finlandia, Germania, Svezia e Svizzera. Ritenere, come fa Settis, che siccome l’Italia degli anni settanta disponeva già di un ministero dei Beni culturali con competenze sul paesaggio si sarebbe potuto e dovuto, per motivi di razionalità gestionale, evi-tare la creazione di un ministero dell’Ambiente esprime un’aspirazione tanto generosa quanto poco fondata sto-ricamente.

Ma anche l’intimo legame tra beni culturali, paesaggio e ambiente che tale scelta avrebbe presupposto è stato ri-conosciuto in Europa assai di rado46. Nelle competenze ministeriali dei vari Paesi europei l’ambiente, quando non era solo, è stato infatti associato molto spesso alle infra-strutture, ai trasporti, all’urbanistica, alle politiche della casa, abbastanza spesso all’agricoltura, alle foreste, ai con-sumi alimentari, più di rado alla salute e all’energia. Solo in Francia e per periodi molto brevi47 esso è stato associato alla cultura. Questo ampio ventaglio di soluzioni, che sa-rebbe irrealistico immaginare come legate esclusivamente ad alchimie burocratiche o partitiche, può essere conside-rato oltretutto un buon rivelatore della multidimensiona-lità della questione ambientale che è al contempo tutela della biodiversità, tutela del patrimonio storico-artistico e paesaggistico, tutela del suolo, dell’aria e dell’acqua, tu-tela della salute, tutela della qualità della vita anche nella

46 Per non parlare degli Stati Uniti, dove gran parte delle competenze in materia di patrimonio – sia storico-culturale che paesaggistico-ambientale – stanno in capo al Department of Interior e una parte di quelle ambientali stanno in capo a un’agenzia governativa, l’Environment Protection Agen-cy.

47 Nel 1974 e poi nel 1977-78

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sua dimensione estetica e spirituale, razionale gestione delle risorse naturali e del territorio. Sono, come si vede, dimensioni assai diverse tra loro, che richiedono compe-tenze e sensibilità estremamente variegate, che rimandano alla necessità di scelte politiche caratterizzate da livelli di radicalità molto diversi. A ciò si aggiunga che l’esisten-za dell’ambientalismo diffuso nelle forme che ha preso in Occidente dagli anni sessanta in poi fa in modo che tutte le scelte adottate in questo campo si carichino di conno-tazioni etiche e politiche di grande spessore, che rendono estremamente difficile una loro riduzione a una dimensio-ne puramente tecnica.

Se è quindi sicuramente vero quanto scrive Settis che esiste un’unità profonda tra le nozioni di paesaggio, terri-torio e ambiente e che essa deve essere affermata con forza anche sul piano scientifico e giuridico-istituzionale, è al-trettanto vero che tale ricomposizione non si impone da sola ma richiede uno straordinario sforzo cognitivo e più ancora di immaginazione politica. Pensare insieme le tante dimensioni della nozione di ambiente, pensare insieme le nozioni di paesaggio, di territorio e di ambiente dal pun-to di vista scientifico vuol dire rimettere in discussione la rigidità dei paradigmi disciplinari e dei confini che li sepa-rano; dal punto di vista politico vuol dire essere capaci di immaginare un tipo di società diversa dall’attuale, che ab-bia al centro i bisogni e i diritti dei cittadini, una democra-zia ampia e trasparente, processi decisionali tarati su pro-spettive temporali lunghe, una sofisticata varietà di valori condivisi; dal punto di vista istituzionale vuol dire saper progettare organi di amministrazione della cosa pubblica tenendo fuori dalla porta le grandi e piccoli incrostazioni di potere che generano quegli infiniti conflitti di compe-tenza che tanti danni hanno fatto e fanno in Italia. E tutto questo non solo rinunciando a qualsiasi pretesa consape-volmente imperialista, ma cercando anche di mettere da parte la spontanea tendenza a sussumere la questione am-bientale nei termini di una sola delle sue dimensioni48.

48 Può essere interessante qui osservare come attualmente dei for-ti tentativi di sussunzione, sia teorica che operativa, non vanno solo dall’«ambiente» verso il «paesaggio» ma anche in direzione opposta. Rifer-endosi a una percezione ormai piuttosto diffusa Carlo Desideri ha potuto scrivere dell’emergere di un «pan-paesaggismo ideologico» destinato a sfo-ciare in un «relativismo paesaggistico» [...] «in chiave antiambientalista». C.

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10. Uno stimolo a proseguire

Per quanto – come si è cercato di argomentare – la let-tura che Settis fa della parabola italiana della tutela del pa-esaggio possa porre qualche problema, la proposta conte-nuta nel capitolo finale appare del tutto adeguata ai tempi, cioè tutt’altro che obsoleta o passatista49. Tale proposta si struttura infatti su due assi complementari: da un lato la rilettura dei concetti di patrimonio e di publica utilitas alla luce del concetto – estremamente attuale – di bene comu-ne e da un altro lato la rilettura dell’altrettanto importante concetto di azione popolare alla luce dei concetti di men-te/conoscenza/azione locale. Ciò che viene qui chiamato in gioco non è più qualcosa che ha a che fare con la nazio-ne e la sua grandezza, oppure solo con la salvaguardia di valori culturali di eccellenza, bensì la qualità della vita, la qualità del legame sociale e la riaffermazione e il rilancio del valore dell’autogoverno, cioè della democrazia.

A partire da queste grandi domande sociali Paesag-gio Costituzione Cemento ci invita dunque a rileggere in modo più approfondito e meditato non solo la sto-ria italiana della tutela del patrimonio storico-artistico e paesaggistico, ma anche la storia concreta del paesaggio, del territorio e della città italiani, la storia delle trasfor-mazioni culturali dell’ultimo secolo e le complesse, spes-so contraddittorie articolazioni tra territorio, ambiente e paesaggio nell’epoca repubblicana. Si tratta di compiti sicuramente molto impegnativi ma imprescindibili se si intende fare, sulla scia di Settis, della ricerca storica uno strumento di crescita civile.

Desideri, Paesaggio e paesaggi, Giuffrè, Milano 2010. Se qualche germe di questa tendenza si può già scorgere in misure irragionevoli come la sot-trazione, prevista nel Codice dei beni culturali, della competenza paesag-gistica alle aree naturali protette, essa si sta dispiegando pienamente grazie a un diffuso utilizzo a fini strumentali di un testo tanto istituzionalmente autorevole quanto contenutisticamente vago: la Convenzione Europea del Paesaggio. Su questo punto insiste energicamente lo stesso Settis alle pagine 254-57 di Paesaggio Costituzione Cemento.

49 Molto netta e ispirata la rivendicazione di Settis in questo senso alle pagine 47-48 dell’opera.

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