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Ambra Carta La morte tragica nel Cinquecento Poetiche a confronto in Trissino e Tasso A. Carta La morte tragica nel Cinquecento € 12,00 ETS Il tragico storia e testi 5 Edizioni ETS U na riflessione sul teatro tragico cinquecentesco, tra formula- zioni teoriche e prassi poetiche, invita all’analisi di due ope- re significative per gli sviluppi della drammaturgia tragica, la Sofonisba di Gian Giorgio Trissino e Il Torrismondo di Torquato Tasso. Le più recenti indagini nel campo teorico e poetico hanno evidenziato le principali direzioni intraprese dalle sperimentazioni dei maggiori au- tori, da Trissino a Giraldi Cinzio da Rucellai e Alemanni a Tasso, mo- strando il passaggio da un modello – quello esemplato dalla Sofonisba trissiniana – che, pur inaugurando la drammaturgia tragica italiana in versi sciolti, è saldamente ancorato alla teorica aristotelica, a un altro – quello tassiano – che apre il tragico alle lacerazioni irrisolvibili della coscienza, imprimendo un nuovo corso ai suoi paradigmi poetici. Lo studio lessicale, linguistico e stilistico delle due opere, in risonanza con il dibattito teorico contemporaneo, offre la possibilità di misurare da vicino le trasformazioni del genere tragico lungo il corso del Cin- quecento e di apprezzare i debiti, gli apporti e i limiti che nell’un caso e nell’altro i modelli, greci o latini, cristiani o classico-pagani, esercitano sulla composizione formale e sulla concezione politico-culturale che la Sofonisba e il Torrismondo intendono rappresentare. Ambra Carta insegna Letteratura italiana presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo. Si è occupata di autori e tematiche otto-no- vecentesche (Capuana, Borgese, D’Arrigo, Bonaviri, il fantastico e la prosa romanzesca). La sua attuale ricerca si rivolge alle forme della letteratura teatrale tra Cinque e Seicento, con studi sul Torrismondo di Torquato Tas- so e sulla tragedia gesuitica. Dirige la collana GenerA- zioni (Palermo University Press) insieme con Rosa Rita Marchese.

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Ambra Carta

La morte tragica nel Cinquecento

Poetiche a confronto in Trissino e Tasso

A. C

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€ 12,00

ETS

Il tragicostoria e testi

5

Edizioni ETS

Una riflessione sul teatro tragico cinquecentesco, tra formula-zioni teoriche e prassi poetiche, invita all’analisi di due ope-re significative per gli sviluppi della drammaturgia tragica, la

Sofonisba di Gian Giorgio Trissino e Il Torrismondo di Torquato Tasso. Le più recenti indagini nel campo teorico e poetico hanno evidenziato le principali direzioni intraprese dalle sperimentazioni dei maggiori au-tori, da Trissino a Giraldi Cinzio da Rucellai e Alemanni a Tasso, mo-strando il passaggio da un modello – quello esemplato dalla Sofonisba trissiniana – che, pur inaugurando la drammaturgia tragica italiana in versi sciolti, è saldamente ancorato alla teorica aristotelica, a un altro – quello tassiano – che apre il tragico alle lacerazioni irrisolvibili della coscienza, imprimendo un nuovo corso ai suoi paradigmi poetici.Lo studio lessicale, linguistico e stilistico delle due opere, in risonanza con il dibattito teorico contemporaneo, offre la possibilità di misurare da vicino le trasformazioni del genere tragico lungo il corso del Cin-quecento e di apprezzare i debiti, gli apporti e i limiti che nell’un caso e nell’altro i modelli, greci o latini, cristiani o classico-pagani, esercitano sulla composizione formale e sulla concezione politico-culturale che la Sofonisba e il Torrismondo intendono rappresentare.

Ambra Carta insegna Letteratura italiana presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo. Si è occupata di autori e tematiche otto-no-vecentesche (Capuana, Borgese, D’Arrigo, Bonaviri, il fantastico e la prosa romanzesca). La sua attuale ricerca si rivolge alle forme della letteratura teatrale tra Cinque e Seicento, con studi sul Torrismondo di Torquato Tas-so e sulla tragedia gesuitica. Dirige la collana GenerA-zioni (Palermo University Press) insieme con Rosa Rita Marchese.

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Il tragicostoria e testi

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Il tragicostoria e testi

DirettoriAldo Maria Morace, Angelo R. Pupino, Michela Sacco Messineo

Comitato scientificoClelia Martignoni, Stefano Verdino, Rosa Giulio, Guido Baldassarri,

Beatrice Alfonzetti, Giuseppe Langella

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Ambra Carta

La morte tragica nel CinquecentoPoetiche a confronto in Trissino e Tasso

Edizioni ETS

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© Copyright 2018EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 [email protected]

DistribuzioneMessaggerie Libri SPA

Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)

Promozione PDE PROMOZIONE SRL

via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884675241-3

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Premessa

Il testo che sta alla base delle speculazioni teoriche intorno alla tragedia nel Cinquecento è, com’è noto, la Poetica di Aristotele nella quale il filosofo afferma che la tragedia è «imitazione di una azione nobile e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni»1. Dal V secolo a.C. a oggi l’idea del tragico ha percorso una lunga storia e si è trasformata sulla base delle diverse poetiche, succedutesi nel corso dei secoli, conformandosi alle mutate condizioni del vivere civile e del sentire religioso dell’uomo. Con quella lontana prima proposta di codificazione teorica del genere teatrale si sono confrontati letterati, poeti e filosofi nel tentativo di individuare la natura del sentimento tragico e di dargli una concreta forma di rappresentazione poetica in linea con la sensibilità del proprio tempo. Così è avvenuto nel corso del Cinquecento, un’età attraversata da conflitti religiosi e dispute filosofiche, tra Riforma luterana e Controriforma cattolica, quando il testo aristotelico è stato acquisito come archetipo sul quale misurare concetti quali verisimile e vero, colpa e purificazione, libero arbitrio e Fato.

Se, come sostiene Steiner, di sentimento tragico possiamo ragionare in ogni tempo e in ogni luogo, se con Jaspers condividiamo l’idea che tragica è la coscienza della instabilità e della molteplicità del reale, e se con Benjamin riteniamo che la morte, in quanto figura della vita tragica, è un destino individuale e comune, in questo libro si è scelto di circoscrivere uno spazio limitato di indagine, corrispondente a due casi esemplari del tragico cinquecentesco, la Sofonisba di Giangiorgio Trissino e Il Re Torrismondo di Torquato Tasso2. Situate la prima a inizio secolo la seconda alla fine, le due

1. Aristotele, La Poetica, 6, 1449b 21-32. Si cita dall’edizione della Poetica con Introdu-zione, traduzione, parafrasi e note di D. Pace, Milano, Rusconi, 1981: 82. Il corsivo è nostro.

2. Cfr. G. Steiner, La morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1992: 7; K. Jaspers, Del tragico, traduzione di I. A. Chiusano, Milano, SE, 2008: 39: «Tragico è quel conflitto in cui le

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La morte tragica nel Cinquecento

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opere, infatti, descrivono la parabola evolutiva della tragedia cinquecentesca consentendo, pertanto, di comprendere la genesi delle diverse soluzioni poetiche nel confronto con il dibattito teorico contempornaeo.

Si è ritenuto di potere ritagliare un piccolo ma significativo segmento della sterminata produzione teorica e poetica sulla tragedia del Cinquecento italiano, mettendo a confronto le due tragedie di Trissino e di Tasso in quanto rappresentative di orientamenti teorici e di pratiche poetiche molto diverse l’una dall’altra e per questo particolarmente utili a misurare il mutamento delle forme e l’evoluzione della tragedia, un genere teatrale caratterizzato da alterna fortuna e in conflitto con altre forme di spettacolo maggiormente gradite dal pubblico cortigiano, quali la favola pastorale e la tragicommedia.

A tale scopo, l’indagine sulle forme del tragico della Sofonisba e del Torrismondo si è svolta in stretto dialogo e confronto con le posizioni teoriche affidate dai due autori agli scritti di poetica, rispettivamente alle Divisioni e ai Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico. La lettura intrecciata delle tragedie e delle speculazioni teoriche ha consentito di comprendere più approfonditamente le motivazioni e le direzioni delle scelte operate sul piano della prassi poetica.

Il fervido dibattito teorico cinquecentesco sulle forme della poesia, stimolato dalla diffusione del trattato aristotelico, definisce in questo lavoro lo spazio necessario e costitutivo in cui si articolano e con il quale si misurano le riflessioni dei due autori di cui ci occupiamo. Scenario indispensabile senza il quale non si comprenderebbe la genesi delle posizioni che Trissino e Tasso assumono con profonda coscienza poetica.

Ripercorrere, seppur per minimi sondaggi, il fittissimo intreccio di voci che puntellano il firmamento poetico di un secolo quale il Cinquecento ha offerto l’inconsueta occasione di apprezzare la straordinaria felicità espressiva e la potente ricchezza di pensiero di una delle epoche artistiche più complesse e ricche della letteratura italiana.

forze che si combattono tra loro hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista. La molteplici-tà del vero, la sua non-unità, è la scoperta fondamentale della coscienza tragica. Ecco perché nella tragedia è viva la domanda: che cosa è vero? E come sua conseguenza: Chi ha ragione? Il diritto si afferma, nel mondo? La verità trionfa? Il manifestarsi di una verità in ogni forza che agisca e, insieme, i limiti di tale verità e quindi la rivelazione di un’ingiustizia in ogni cosa è il processo della tragedia»; W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, (1963), con Introduzione di C. Cases, Torino, Einaudi, 1980: 134.

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Ringraziamenti

Questa rapida sintesi di studi e ricerche sulla tragedia del Cinque-cento non avrebbe trovato la sua forma senza il sollecito confronto e sostegno di Aldo Maria Morace, Michela Sacco, Flora Di Legami, Rosa Rita Marchese e Giusto Picone. Altrettanto importante è il debito di ri-conoscenza verso gli studi di Claudio Gigante, Emilio Russo, Giancarlo Alfano, le cui mai scontate intuizioni hanno indirizzato la mia ricerca. Infine, voglio ringraziare i miei studenti, che con la loro curiosità tengo-no vivo un dialogo critico che è il fine di ogni percorso di conoscenza.

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Tavola 1. Prima pagina della Sofonisba di Gian Giorgio Trissino (edizione di Tolomeo Ianiculo, Vicenza 1529)

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IntroduzioneLa Sofonisba e Il Torrismondo

nel contesto del Cinquecento poetico.Ragioni di una scelta

Nel 1598 il letterato Angelo Ingegneri nel suo trattato Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche dichiarava esaurita l’esperienza della tragedia italiana e ne assegnava la palma alla Sofonisba di Giangiorgio Trissino premiando dunque un modello di tra-gico rigorosamente classicista e sostanzialmente lirico, non scenico né teatrale1. La storia del genere tragico in Italia si svolge nell’arco di poco più di un secolo, tra la fine del XV e tutto il XVI secolo, ed è un gene-re sostanzialmente letterario nel senso che calca le scene tardivamente e sporadicamente, nonostante la crescente e sempre più diffusa costru-zione di edifici teatrali separati dalle corti, che restano per tutto il Cin-quecento centri politici e culturali a tutti gli effetti, nei quali le dinastie regnanti decidono i destini politici della penisola e letterati e artisti ne celebrano i fasti e ne propagandano l’ideologia politico-culturale. Nono-stante il deludente bilancio dell’Ingegneri, la poesia tragica ebbe in Italia una storia significativa seppur breve, legata com’era alle vicende storiche delle corti italiane e alla funzione ideologica della poesia teatrale che in seno a quelle stesse corti è composta e che al pubblico cortigiano è desti-nata. Di teatro colto e letterario bisogna infatti parlare a proposito della tragedia italiana del Cinquecento perimetrandone fin da subito i confini, individuandone cioè il soggetto, il registro stilistico, i modi, le forme, il pubblico e il cosidetto ‘sentimento’ ovvero il modo particolare con cui ogni poeta esprime la propria visione del rapporto tra storia e utopia, tra colpa e redenzione, tra responsabilità e salvezza, tra il piano storico, umano, dell’azione e il piano del Destino o del Fato o della Provvidenza divina. Intorno a questi nodi si sviluppa la riflessione dei principali attori del dibattito italiano sulle forme del tragico, da Giangiorgio Trissino a Sperone Speroni, da Giovan Battista Giraldi Cinzio a Torquato Tasso, autori di trattati teorici e di tragedie.

1. A. Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di M.L. Doglio, Modena, Panini, 1989.

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La morte tragica nel Cinquecento

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Nonostante infatti le forme teatrali italiane, dopo l’esperienza tassia-na, si siano indirizzate verso il melodramma, la tragicommedia, il teatro gesuitico, esaurendo ben presto la ricchezza delle riflessioni teoriche in-torno alla più nobile ed eccellente forma di poesia, stante la definizione della tragedia fornita nella Poetica aristotelica, quella tragica è stata un formidabile terreno di sperimentazione, un campo ricchissimo di ricerca di modi e forme stilistiche per dare voce a una tra le più drammatiche delle condizioni umane, quella costituita dall’essere travolti dalla sventu-ra per una colpa commessa per ignoranza ed errore non per scelleratezza. Se Aristotele compone la sua Poetica riferendosi al triste caso dell’Edipo re sofocleo è perché in questa vicenda rintraccia tutti gli ingredienti del tragico ossia l’imitazione di un’azione nobile e compiuta, avente gran-dezza, in un linguaggio adorno, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale suscitando pietà e terrore finisce col procurare la catarsi ovvero la purificazione delle passioni2. Sollecitati dalla trattazione aristotelica sulla poesia eroica e su quella tragica, i maggiori letterati ita-liani del Cinquecento si sono cimentati nell’esercizio teorico sulle forme della poesia, tra le quali quella tragica ha lasciato un variegato spettro di soluzioni poetiche sulle quali ancora oggi val la pena tornare a discutere sia in ragione del loro valore intrinseco sia come risposta degli intellet-tuali cortigiani alla crisi politica della penisola italiana. È un dato incon-futabile, infatti, la straordinaria vivacità artistica e culturale della civiltà rinascimentale e poi manierista a dispetto del progressivo inarrestabile declino della vita politica degli stati italiani, che rivela la radicale asimme-tria tra campi e dimensioni diverse della storia.

Per queste ragioni e per la peculiarità di alcune disquisizioni teoriche sui modi della poesia, sulla sua funzione, sulla liceità morale del fingere, sulla eccellenza del poeta, quasi divino teologo e filosofo, tornare a ra-gionare sulle forme del tragico italiano nel Cinquecento mi è sembrato un modo per tentare di comprendere la complessità di un genere che nel rappresentare la sventurata e avvilita condizione umana, intreccia insie-me il pensiero filosofico e quello religioso, l’Antico e il Moderno, la più radicale riflessione sul senso e il valore della vita.

Pertanto, come si è già detto, tra le diverse esperienze di poesia tragica

2. Si adotta la traduzione del testo aristotelico nella edizione sopra citata in riferimento alla La Poetica 6, 1449b 21-32.

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Introduzione

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che il XVI secolo ci ha lasciato, la scelta è ricaduta sulla Sofonisba e sul Re Torrismondo poiché meglio di altre aiutano a ricostruire criticamente il percorso della tragedia moderna italiana. Nonostante, infatti, lo scarso successo editoriale – né l’una né l’altra incontrarono il plauso di un vasto pubblico rimanendo confinate all’esperienza libresca dei cenacoli lette-rari delle Accademie e delle corti del tempo – entrambe però occupano senza dubbio una posizione di forte rilievo nell’ambito delle forme tragi-che del Cinquecento poiché l’una, la Sofonisba, fu considerata già alla fine del secolo, e lo è ancora oggi, la prima tragedia regolare in lingua italiana, l’altra, il Re Torrismondo segna, come vedremo, una svolta decisiva nella storia del genere.

La prima, ideata e composta tra il 1513 e il 1515, nasce in ambiente fiorentino e si aggiunge alla serie di testi (discorsi, epistole e trattati) at-traverso i quali il vicentino Trissino (1478-1550) conduce la sua operosa azione di rinnovamento culturale. Dalla proposta di introdurre alcune lettere dell’alfabeto a quella dell’adozione del volgare in sede letteraria, Trissino porta avanti un’idea universalistica di cultura, libera da munici-palismi e radicata nel pensiero e nelle forme dei classici greci ma proiettata verso la rifondazione della poesia moderna. L’intima politicità della Sofo-nisba, di cui ha parlato Marco Ariani riconducendola alla più complessiva operazione culturale del vicentino, non è altro che la vocazione verso un nuovo classicismo per i letterati delle corti del Cinquecento, fondato sul dialogo con gli antichi. Uno sguardo dunque storicamente radicato nel presente ma difficilmente destinato a tradursi concretamente in realtà. La fuga nell’idealismo utopico con cui si chiude la Sofonisba esprime infatti la certezza dell’impossibilità in terra di realizzare quella pace universale alla quale per primo Dante aveva guardato per superare il miope munici-palismo del suo tempo. Trissino riprende il sogno filoimperiale dantesco ma dopo il Sacco dei Lanzichenecchi e la dominazione degli spagnoli in Italia, il raggio di azione dei principi italiani si è estremamente ridotto e con esso la possibilità per il letterato cortigiano di svolgere un’azione di-plomatica concretamente spendibile ed efficace. La Sofonisba esprime la coscienza della fine del sogno di pace, la certezza che la conoscenza umana è un nulla rispetto alla sapienza divina e che il destino dell’uomo è scono-sciuto. Non resta che morire di una bella e sontuosa morte che sarà come un riscatto delle sofferenze patite in terra. Sul piano stilistico, la tragedia di Trissino dialoga strettamente con i modelli greci e tralascia quelli se-

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La morte tragica nel Cinquecento

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necani, rinuncia alle rime e riserva solo ai Cori il soffuso lirismo assente nelle lunghe sequenze narrative dei monologhi e, pur con i limiti di una eccessiva letterarietà e pesantezza dell’eloquenza, essa resta il primo ten-tativo felicemente compiuto di tragedia regolare in lingua, molto gradita al pubblico dei suoi primi lettori. Considerata dal suo stesso autore una tragedia passionale, la Sofonisba non pare concedere molto ai sentimenti che restano, infatti, ben celati e trattenuti sotto una corazza di saggi ragio-namenti. Il decoro di una ben temperata eloquenza permette a tutti i per-sonaggi tragici trissiniani di contenere la violenza delle passioni, appena percepibili sul piano retorico del linguaggio tragico. Per questo motivo, tra i critici si è discusso se attribuirle una intima politicità (Ariani) rico-noscendole il merito di avere inaugurato la modernità letteraria italiana (Barilli) oppure se negarle del tutto persino la stessa conflittualità tragica sia sul piano della favola sia su quello della lingua e dello stile (Ferroni). Certamente con la Sofonisba Trissino compie un’operazione di radicale messa a punto e di codificazione dei principii fondativi del tragico, che porta in taluni casi a soluzioni divergenti dai modelli greci.

Le scelte di politica culturale inoltre rivelano il profilo di un letterato accorto ma vigile sulle tendenze e gli orientamenti politici del proprio tempo, estremamente dinamico nel passare da una corte all’altra, da Vi-cenza a Roma, da Firenze a Ferrara fino in Germania, alla ricerca di un interlocutore sensibile alla propria ideologia culturale. La Sofonisba ri-sente di tali orientamenti innovativi, storicamente attuali, per certi versi avanguardistici, nella rinuncia alla versificazione, nella scelta dell’episo-dio che, tratto dalla storia romana al tempo della II guerra punica, offre lo spettacolo del conflitto tra la ragione privata e quella del Potere del vincitore, nel quale i contemporanei del Vicentino non potevano non ri-conoscere le ragioni dell’Imperatore del Sacro romano impero, Carlo V. Una tragedia dunque che ha uno spessore politico almeno nelle ragioni e nelle intenzioni del suo autore.

Sessant’anni dopo la princeps romana della Sofonisba (1524) viene pubblicato Il Re Torrismondo (1587). La tragedia del sorrentino Tasso (1544-1595) giunge dopo decenni di discussioni teoriche, dibattiti e con-fronti sui generi e sulle forme della poesia, sul primato dell’epica o del romanzo, sulla funzione del tragico, e si presenta ai letterati di fine secolo come l’esito maturo di un poeta che del sentimento tragico forse è stato la perfetta espressione. Vita inquieta e irrefrenabilmente nomade, psiche

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Introduzione

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tormentata, creatività straordinaria, originalità di pensiero sottile e acuta, sono molto in sintesi le più manifeste caratteristiche di uno dei massimi poeti della cultura italiana. Il Torrismondo chiude un secolo di guerre e persecuzioni all’insegna di una visione cupa e disincantata della storia e dell’umanità, che nessuna funzione di riscatto riserva alla morte, come avviene nelle forme idealizzate e visionarie della Sofonisba.

Nel conflitto irrisolvibile tra Amore e Amicizia, la tragedia di Tas-so esprime la fine di un mondo, quello cortese medievale, e la ribalta di un tempo di violenza e di arroganza, la stessa che Alvida condanna come usurpatrice della sua felicità di appassionata amante. Si è imposta un’e-poca di predatori rapaci e dispotici, di barbarica violenza che assume le forme spaventose degli incubi notturni.

Divisa in cinque atti e in versi sciolti, il Torrismondo è estraneo alla proposta di rinnovato classicismo trissiniano; immersa nelle inquietudini del Manierismo essa piuttosto si lascia attraversare dal cupo disincanto con cui si chiude un secolo apertosi nel segno della misura e dell’armo-nia classiciste. Il contrasto insolvibile tra la Virtù e la Sorte, che porta al suicidio sia Alvida sia Torrismondo, esprime e traduce nelle forme della poesia la tensione e i nodi intricati di un tormento interiore che non si scioglie né si stempera nella prospettiva del riscatto ultraterreno. Domina il tragico tassiano una visione disperata che riflette la cupezza tragica degli ultimi decenni del Cinquecento, un secolo inaugurato da spinte inno-vatrici, addirittura avanguardistiche, che avevano codificato, rinnovato e rifondato il linguaggio e le forme dell’arte e del pensiero, ma che dopo il Concilio di Trento e l’efferata stagione dell’Inquisizione, si ripiega su se stesso rinunciando definitivamente sia all’utopia rinascimentale di un potere politico sensibile alla voce dei letterati e dei filosofi sia alla fiducia in un progetto politico dell’arte e della letteratura. La tragedia di Tasso, in questo mutato clima storico, riflette e rilancia la sfiducia nelle possibi-lità umane di un agire libero da condizionamenti religiosi e politici, e la disperata coscienza della vita come non vita, della morte come assoluto orizzonte dell’esistere.

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Tavola 2. Frontespizio della prima edizione de Il Re Torrismondo di Torquato Tasso (edizione di Comino Ventura, Bergamo 1587)

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Capitolo ILe Divisioni della Poetica di Trissino

e i Discorsi di Tasso

Nel Cinquecento si assiste a una straordinaria fioritura di scritti te-orici sull’arte poetica che, sollecitati dalla riscoperta e dalla traduzione di classici greci e latini, attestano una eccezionale vivacità speculativa, un’altrettanto forte vocazione all’indagine filosofica e teorica e, non ultima, una condizione di libertà espressiva e di socialità intellettua-le di assoluto rilievo. Il numero di dispute, controversie, e dibattiti su questioni di natura artistica e poetica documentano la coscienza del primato sociale dell’esercizio poetico, la consapevolezza cioè da parte dei letterati di svolgere una funzione centrale nel contesto politico e civile delle corti rinascimentali. Lungo il corso del secolo si intrecciano le due principali scuole filosofiche, quella platonica e quella aristoteli-ca, quest’ultima via via sempre più dominante soprattutto a partire dal 1536 quando viene pubblicata la seconda traduzione latina della Poetica ad opera di Alessandro de’ Pazzi1. L’autorità aristotelica si affianca a quella platonica e neoplatonica, diffusa attraverso la mediazione tradut-tiva e esegetica ficiniana tra la fine del XV e gli inizi del XVI, e si impone come fonte di princìpi regolistici e tassonomici almeno fino agli anni Ottanta del Cinquecento, quando tornerà a farsi sentire l’eco delle idee platoniche, mai del tutto sopite. Le due scuole, per così dire, alimentano le dispute accademiche di letterati e artisti intorno ai modi della poesia, di una poesia riconosciuta aristotelicamente come imitazione della na-tura, platonicamente come imitazione delle Idee divine, chiamando in causa, al contempo, concetti quali il libero arbitrio, la forza del destino, il conflitto tra virtù e fortuna, centrali anche sul piano dell’etica reli-giosa cristiana. Il tragico, dunque, si trova alla confluenza di questioni estremamente delicate e molto dibattute in ragione sia della ripresa dei

1. La prima traduzione in latino del testo aristotelico si deve all’umanista Giorgio Valla nel 1498; nel 1508 esce la princeps dell’opera in greco per i torchi di Aldo Manuzio e al 1536 è datata la traduzione latina di Alessandro de’ Pazzi, che diede impulso alla proliferazione di commenti e discussioni critico-teoriche sulla poesia e sulla codificazione dei generi letterari.

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La morte tragica nel Cinquecento

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classici sia dell’aspra contrapposizione tra le fedi religiose2.La ricerca di equilibrio tra uno stile pedestre privo di eleganza lirica –

come Tasso giudicò certi passi della Sofonisba – e l’eccesso fuori di misura del senechismo di stampo giraldiano detta a Tasso l’esigenza di puntare sull’affettuosità dei personaggi e sul movimento delle passioni per ren-dere più accettabile al gusto ‘isvogliato’ del pubblico la proposta di una favola triste e complicata3.

Nel contesto ricchissimo della riflessione teorico-critica cinquecente-sca sulla natura, sulla funzione e sui modi della poesia epica e tragica, le Divisioni trissiniane e i Discorsi tassiani rivelano le premesse teoriche e le istanze poetiche che nella Sofonisba e nel Re Torrismondo trovano prov-visoria soluzione4.

Già nel 1529 Trissino compone un trattato intitolato La Poetica, ispi-rato al testo di Aristotele, nel quale si legge che la poesia è imitazione del-le azioni degli uomini fatta attraverso parole, rime e armonia così come l’imitazione del pittore si fa con il disegno e con i colori. Nel 1562, in concomitanza con l’allestimento per le scene della Sofonisba, e mentre

2. Su questi aspetti in relazione ai costumi degli eroi pagani e di quelli cavallereschi ha fatto luce G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tra-dizione omerica, Roma, Bulzoni, 1982.

3. Cfr. G. Getto, Interpretazione del Tasso, Napoli, Edizioni scientifiche Italiane, 1967. Nei Discorsi dell’Arte poetica, a proposito della magnificenza dello stile, dopo aver specificato che, a differenza dell’epico, il tragico tratta materia affettuosissima con parole e stile non troppo alto poiché contrasterebbe con il costume dei personaggi (mezzani), scrive: «Percioché così proprio del magnifico dicitore è il commuover e il rapire gli animi, come dell’umile l’insegnare, e del temperato il dilettare, ancora che e nell’essere mosso e nell’esser insegnato trov il lettore qualche diletto» T. Tasso, Discorsi dell’Arte poetica, in Discorsi dell’Arte poetica e del poema eroico…, 43.

4. A partire dagli anni Quaranta del Cinquecento si succedono le Poetiche, le Esposizioni, i Commenti di Robortello (1548), Maggi (1550), Muzio (1551), Varchi (1560), Vetto-ri (1560), Scaligero (1561), Trissino (1529; 1562), Minturno (1563), Calstelvetro (1570), Piccolomini (1575), Patrizi da Cherso (1586), Rossi (1590), Tasso (1594). Per i testi si rimanda ai 4 volumi di Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970-1974. Sulla riscoperta della Poetica e sul dibattito teorico nel Cinquecento si rimanda ai seguenti studi: G. Toffanin, La fine dell’Umanesimo, Bocca, Milano, 1920; G. Della Volpe, Poetica del Cinquecento. La ‘Poetica’ aristotelica nei commenti essenziali degli ultimi uma-nisti italiani con annotazioni e un saggio introduttivo, Bari, Laterza, 1854; B. Hathaway, The Age of Criticism. The Late Renaissance in Italy, Ithaca-New York, Cornell University Press, 1962; G. Mazzacurati, Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 1977; G. Patrizi, Il dibat-tito sull’arte: poetica e retorica, in Storia generale della Letteratura italiana, vol. IV, Milano, Motta editore, 1999: 289-304; G. Alfano, Sul concetto di verosimile nei commenti cinquecenteschi alla ‘Poetica’ di Aristotele, in «Filologia e Critica», XXVI, (2001): 187-209.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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Tasso concepisce e stende i primi Discorsi dell’arte poetica che saranno poi pubblicati solo nel 1587, si aggiungono la Quinta e la Sesta Divisione, due altri libri nei quali il Vicentino conduce una puntuale ricognizione dei princìpi compositivi della tragedia e dei modi dell’imitazione, pro-muovendo una pratica esegetica e critica che avrebbe avuto larga fortuna nel corso degli anni a seguire. Come più tardi Tasso, anche Trissino in-fatti esercita la propria attività intellettuale contemporaneamente su più tavoli di lavoro, passando dagli scritti teorici a quelli poetici, dalla codifi-cazione delle regole linguistiche a quella dei diversi generi letterari, dando vita a travasi e convergenze concettuali inevitabili quanto interessanti e utili alla ricostruzione del pensiero poetico.

Sulla scorta dell’autorità aristotelica, seguita in modo fin troppo orto-dosso come più tardi gli rimprovererà Tasso5, nella Quinta Divisione della Poetica Trissino scrive che la poesia è imitazione delle azioni degli uomini e che la tragedia insieme alla poesia epica è la più nobile tra le forme per-ché imitando le azioni degli uomini eccellenti con sermone suave e dolce produce diletto e purificazione:

La diffinizione, adunque, sustanziale della tragedia secondo Aristotele sarà questa: la tragedia è una imitazione di una virtuosa e notabile azione che sia compiuta e grande, la quale imitazione si fa con sermone fatto suave e dolce, separatamente in alcune parti di quella, et essa tragedia non per enunziazio-ne ma per misericordia e per tema purga nei spettatori queste tali perturba-zioni6.

5. Nel secondo libro dei Discorsi dell’arte poetica Tasso riconosce al Furioso invenzioni «più vaghe e accomodate alle nostre orecchie che quelle del Trissino non sono», cit., p. 34. Si tratta del passaggio in cui Tasso dichiara che il fine della poesia è il diletto e che l’esperienza dimostra che il Furioso diletta più di altri poemi ma nega che il diletto sia procurato dalla varietà e dalla moltepli-cità delle storie narrate. È in questo punto, infatti, che il poeta della Liberata introduce il concetto del molteplice nell’unità a somiglianza della creazione divina del mondo che racchiude in unità una sconfinata varietà di specie viventi: «così parimenti giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare, un poema formar si posssa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, […] ma che nondime-no uno sia il poema che tanta varietà contegna, una la forma e la favola sua», cit., p. 36. Cfr. G. Baldassarri, Introduzione ai ‘Discorsi dell’arte poetica’ del Tasso, in «Studi tassiani» XXVI, (1977): 5-38.

6. G.G. Trissino, La Quinta e la Sesta Divisione della Poetica, in Aa.Vv., Trattati di Poetica e Retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, I-IV, Bari, Laterza, 1970-1974, II, 14-15.

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La morte tragica nel Cinquecento

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Tra i generi poetici, quello tragico si distingue, dunque, per via del soggetto – le azioni nobili di uomini illustri – dello stile – il sermone soave e dolce – del codice – non attraverso la enunziazione ma con la rappresentazione – e del fine – la purgazione delle passioni attraverso misericordia e paura. Nel tentativo di confrontarsi con la precettistica aristotelica, il Vicentino illustra sul piano teorico le scelte operate, di fat-to, nella Sofonisba dove in comune con la poesia eroica quella tragica ha la favola, il costume, i discorsi e i versi ma in più quest’ultima ha il canto (parole e melodia) e la rappresentazione, che è il modo in cui si realizza l’imitazione. Pur ribadendo che è esclusiva pertinenza del poeta tragico curare l’enunciazione ovvero i versi, in modo che solo a leggerla la trage-dia muova gli animi a compassione, Trissino non riesce tuttavia ad evitare un certo squilibrio, che Tasso nel postillare il testo gli rimprovererà, tra il lirismo dei Cori, soffuso e intenso, e la lenta, talvolta pesante, eloquenza delle scene: «quasi da per tutto puol rimproverarsi a l’autore difetto ne la locutione che manca di gravita e nobilta»7.

La Sofonisba è modellata sui tragici greci, tra i quali l’Alcesti di Euripi-de e l’Antigone di Sofocle, è composta in lingua italiana in endecasillabi sciolti ed è priva di Prologo, come l’autore precisa nella Lettera dedicato-ria al papa Leone X che accompagna il testo. La novità dell’opera consiste infatti nella scelta di una lingua che possa essere intesa da tutto il popo-lo, e dalla rinuncia alle rime che, legando le parole in modo artificioso, impediscono al dolore e alle passioni di prorompere spontaneamente e quindi di muovere a compassione gli spettatori. Fin dal suo apparire la Sofonisba segna una forte discontinuità con la tradizione tragica quat-trocentesca d’ispirazione senecana, inaugurando un nuovo classicismo moderno al quale guarderanno molti continuatori del genere. Come ve-

7. G.G. Trissino, La Sofonisba con note di T. Tasso, a cura di F. Paglierani. Ristampa foto-meccanica sull’edizione di G. Romagnoli (1884), Bologna, Forni, 1969. In un passaggio della Sesta Divisione della Poetica Trissino spiega le ragioni della eccellenza del tragico rispetto all’epico eroico considerato anche da Aristotele il più nobile genere di poesia. Scrive Trissino che entrambi trattano il verosimile, le virtù e non i vizi in modo che la poesia risulti di utile esempio e ammaestramento del pubblico; tuttavia, rispetto all’eroico la tragedia è costituita sia dalla poesia sia dalla melodia e dalla recitazione degli attori che, se non imita le azioni lascive e disoneste, è altamente utile a suscitare il diletto del pubblico. Per questa ragione la tragedia è migliore dell’eroico: «Se adunque la tragedia in tutte le predette cose et ancora nell’artificio è migliore perciò che ella non dee fare ogni dilettazione ma solamente quella che avemo detto della misericordia e della tema, è manifesto ch’ella è miglior poema che lo eroico e che meglio di quello asseguisse il fine della poesia. Per le predette ragioni adun-que Aristotele prepone la tragedia all’eroico» La Sesta Divisione della Poetica..., 56.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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dremo, le soluzioni proposte e attuate nella prima tragedia regolare in lingua volgare rivelano una consapevolezza teorica e poetica molto for-te, che determina scelte innovative e di rottura ben precise, tra le quali per esempio la preferenza per l’uso greco della tragedia indivisa e in versi sciolti, al contrario della preferenza tassiana per che il modello latino di tragedia in cinque atti. La Sofonisba inaugura di fatto un teatro tragico che restituirà al genere vigore e nuova attenzione dopo una stagione de-cisamente languida caratterizzata dal successo delle favole pastorali, da sperimentazioni tragicomiche e in generale dalla riproposizione di un pa-tetismo tragico di derivazione senecana e boccacciana. Solo a partire dalla traduzione e diffusione delle tragedie di Sofocle e di Eschilo, il genere tragico riceve nuovo impulso e interesse. La Sofonisba nasce nel contesto di questo rinnovato interesse suscitato sia dalle opere dei tragediografi greci sia dalle teorie contenute nella Poetica di Aristotele che proprio ne-gli anni Quaranta si andava diffondendo in traduzione latina8. La prima tragedia regolare italiana dunque risente del clima di fermento culturale e ideologico che si respirava a Firenze nei primi anni Dieci quando Tris-sino insieme a Bembo, a Rucellai, allo stesso Castiglione, riuniti presso il cenacolo degli Orti Oricellari, riflettono e discutono sui nuovi oriz-zonti culturali dell’aristocrazia delle lettere9. Attraverso una coraggiosa

8. Le tragedie sofoclee sono pubblicate da Aldo Manuzio nel 1502, quelle eschilee nel 1518 e di fatto si impongono sulla stanca riproposizione di temi ‘tragediabili’ (derivati dal Boccaccio della IV giornata o da fonti storiche) alla maniera latina. Alle novità introdotte dal vicentino sul piano linguistico e metrico guarderanno tutti gli autori di tragedie, da Giraldi Cinzio, che lo cita esplicitamente nella Lettera sulla Tragedia (1543), in Aa.Vv., Trattati di poetica e retorica del Cin-quecento… I, 467-486, a Lodovico Dolce – che nel Prologo dell’Ifigenia fa parlare la Tragedia stessa: «Quel che già pianse il fin di Sofonisba / E quello che d’Antigone e di Emone / Rinovò la pietà, la fè, e l’amore/ E quell’altro dapoi che estinse Orbecche / E chi cantò lo sdegno di Rosmunda / E chi con nuovo e non più visto esempio/ Lo scelerato amor di Macareo, / Né men quell’alto ingegno che fè degna l’Orazia de l’orecchie» per elogiare i massimi esponenti del genere (nell’ordine Trissi-no, Alamanni, Giraldi Cinzio, Rucellai, Speroni, Aretino) – fino a Tasso che ne postillò la tragedia.

9. Trissino non era l’unico poeta a credere e impegnarsi nel rinnovamento culturale delle corti italiane; insieme ad altri sodali scrittori-diplomatici, quali Bembo, Sadoleto, Rucellai, Casti-glione, Lascaris, Bibbiena, sublimava sul piano artistico l’ansia di pacificazione e riunificazione del suolo italiano nel nome di una utopia di ascendenza platonico-ficiniana. A proposito della Sofoni-sba, Ariani (Tra Classicismo e Manierismo. Il Teatro tragico del Cinquecento…, 13-14, 14n) osserva: «È un ideale di rigore morale temperato da un edonismo pensoso dell’inadattabilità delle passioni ad un’eccessiva umiliazione dei loro diritti: questo stoicismo temperato di epicureismo platonica-mente attivo entrerà nella formazione della Sofonisba, la cui eroina si ribella alla violenza politica in nome di una dolcezza e di una grazia vitalmente presenti nella rivendicazione della propria li-

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La morte tragica nel Cinquecento

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operazione di rinnovamento linguistico e formale, Trissino propone un modello tragico forte del rispetto dei precetti aristotelici ma aperto ad accogliere elementi innovativi (la lingua, l’abolizione delle rime tranne che nei Cori, la favola indivisa) con i quali inevitabilmente i continuatori del genere dovranno confrontarsi.

Formatosi all’ombra degli Antichi, letti e interpretati in funzione del presente, Trissino e poi anche Tasso è legato alla contingenza culturale e politica del proprio tempo, a cui partecipa sia con gli scritti teorici sia con quelli poetici. Il vicentino alimenta la fiducia in una ricomposizione pacifica dei conflitti tra gli stati italiani e quelli stranieri e sogna l’utopia di un accordo tra Papato e Impero che tradisce l’ascendenza dantesca e la visione idealizzata della storia perseguita attraverso l’attività letteraria e quella diplomatica10. In uno scenario di tale natura la messa a punto della forma tragica assume un rilievo oltre che poetico-culturale anche ideologico, in quanto attraverso la storia dell’infelice regina che, vittima della schiacciante logica del potere, si sacrifica celebrando non le pom-pe nuziali ma quelle funebri, Trissino celebra una visione idealizzata dei rapporti politici che non poteva non attirare l’attenzione dei contem-poranei. L’intima politicità riconosciutagli da Ariani, non è altro che la valenza ideologica che il classicismo moderno proposto nell’opera assu-me; un classicismo che si esprime attraverso scelte linguistiche, ritmiche e stilistiche di straordinaria novità rispetto alle consuetudini del tempo. La scena tragica, nata in alternativa a quella comica, si costituisce come spazio simbolico nel quale un’aristocrazia colta ma esautorata dal potere convoglia le proprie tensioni, le ambizioni e le utopie risarcitorie rispetto alla crisi del presente11. Dunque, il tragico come proiezione sublimata e

bertà». Il platonismo informa di sé la cultura di fine Quattrocento sostituendosi alla esaltazione della vita civile che aveva caratterizzato la prima metà del secolo, come notano Eugenio Garin in L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento (1964), Roma-Bari, Laterza, 1994 e Ezio Raimondi nella sua rassegna delle tendenze e influenze filosofico ermetiche nel Rinascimento, Rinascimento inquieto, (1965) Torino, Einaudi, 1994.

10. Trissino dedicò la Sofonisba al papa mediceo Leone X nella speranza di ottenere la restitu-zione dei beni confiscati alla sua famiglia colpevole di essersi schierata dalla parte dell’Impero, e non di Venezia, nella battaglia della Ghieradadda. Ne ottenne una parte e nel 1516-18 fu nominato nun-zio papale a Venezia. Nel frattempo non smise di esercitare un’azione diplomatica mirata a convince-re il papa alla pace con l’Imperatore, pace che fu siglata più tardi con Clemente VII e Carlo V (1530) dopo che Trissino aveva iniziato la pubblicazione delle sue opere, tra cui, nel 1524 la Sofonisba.

11. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1967), Torino, Einaudi, 1999; M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento...

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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idealizzata di conflittualità irrisolte, nell’essere imitazione di un’azione nobile e compiuta, recupera le correnti neoplatoniche di pensiero circo-lanti nel primo e secondo Cinquecento.

In questa direzione vanno lette dunque le scelte rivendicate dall’auto-re nella Dedica a Leone X:

Alla quale [la mia Sofonisba] non credo già, che si possa giustamente attribuire a vitio, l’essere scritta in lingua italiana, & il nō hauere anchora secondo l’uso commune accordate le rime, ma lasciatele libere in molti luoghi. Perciò che la cagione, la qual m’ha indotto a farla in questa lingua, sí è; Che hauendo la Tragedia sei parti necessarie, e cioe la Fauola, i Costumi, le Parole, il Discorso, la Rappresentatione, & il Cāto; Manifesta cosa e, che hauendosi a rappresentare in Italia, non potrebbe essere intesa da tutto il popolo, s’ella fosse in altra lingua, che Italiana, cōposta; Et appresso i Costumi, le sententie, & il Discorso non arrecherebbono universale utilitate, e diletto, se non fossero intese da gli ascoltanti. […] Quanto poi al non hauere per tutto accordate le rime, non diro altra ragione; percio ch’io mi persuado, che se a vostra Beatitudine non spiacerà di volere alquanto le orecchie a tal numero accomodare, che lo trouerà, e migliore, e più nobile, e forse mē facile ad asseguire, di quello, che per auentura, e reputato; E lo vederà non solamente ne le narrationi, et oratiōi utilissimo, ma nel mouere compassione necessario12.

Nonostante le convincenti premesse, però, nella Sofonisba la cura del piano discorsivo e oratorio finisce col prevalere e con l’invadere, talvolta, anche lo spazio riservato ai Cori, generalmente immune dalla gravezza quasi prosaica delle parti recitate. Il soave sermone, insomma, rende lento e quasi noioso il ritmo recitativo mettendo a rischio il gra-dimento del pubblico. Addirittura, in certi passaggi come ad esempio il dialogo tra Siface e Scipione, il sermone sfiora i toni del discorso giuri-dico, della declamazione oratoria ben lontana dai territori della poesia. In generale, la prima tragedia regolare risente di un eccesso di verbosità sull’azione scenica, sulla espressività del gesto, che tradisce sul piano ideologico la grande fiducia dell’autore nell’efficacia persuasiva delle parole, come rivelano le insistenti esortazioni del Coro a Massinissa che ha appena finito di ascoltare le preghiere di Sofonisba («Rinforzate il pregare, alta regina», v. 462; «Gran forza aver devrebbon le parole

12. Dalla Dedica riprodotta in M. Lucignano Marchegiani, La Sofonisba di G.G. Trissi-no con postille di Torquato Tasso, in «Ariel», IV, 1/2, gennaio-agosto (1990): 137-198, a 149-150.

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La morte tragica nel Cinquecento

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/ che son mosse dal cuore, e dolcemente / escon di bocca d’una bella donna», vv. 515-517)13.

Trissino dedica alla trattazione dell’elocuzione e dello stile ampie parti delle Divisioni della Poetica rivelando anche in questo la sua pre-dilezione per le scelte dantesche del De vulgari eloquentia, da lui stesso tradotto, e più in generale la coscienza della funzione politica che il let-terato ritiene ancora di poter svolgere. La difesa del volgare come lingua nazionale rivelava, per quegli anni, orientamenti innovativi, progressisti, improntati a un realismo di fondo che permea anche le scelte in ambito poetico. Il fine della tragedia, per esempio, dev’essere l’utile, unito al diletto che consiste nell’ammaestramento del pubblico, come leggiamo in apertura della Poetica: «Bellissima cosa è fare beneficio a le genti; la quale non solamente tanto più bella è reputata, quanto più che il bene-ficio in più persone si estende […] essendo il maggior beneficio che a le genti humane si possa fare lo insegnarli a vivere bene»14. Sulla scorta dei precetti aristotelici e platonici, Trissino rilancia l’idea di un’utilità sociale del poeta e della poesia che beneficano l’umanità con i loro dolci e soavi ammaestramenti.

Ma se nella Sofonisba prevale la fuga nell’utopia della risoluzione dei conflitti attraverso il sacrificio della regina, nel Torrismondo, in pieno clima manierista, il tragico esprime una visione desublimata della real-tà, cupa e disperata, che non si risolve nella catarsi. Non c’è più spazio per la proposta trissiniana di un classicismo moderno rispondente alle esigenze di autorappresentazione idealizzata dell’aristocrazia neofeu-dale. Di fronte al mutato scenario politico, non resta che trasferire sul piano simbolico artistico le aspirazioni frustrate sul piano della storia. In questo senso, il teatro tragico assolve alla funzione morale di risar-cimento simbolico di un prestigio e un’autorità che ormai solo sulla

13. In una lettera al Vescovo di Verona e Datario del Papa, Giovan Matteo Giberti, pubblicata nel 1524, Trissino individua la residua funzione del poeta cortigiano nel consigliare prudenza al Principe: «Ma essendo l’uomo più d’ogni altro animale imitatore, ed essendo a la moltitudine più facile con la imitazione, che non altro, imparare; e sapendosi che ’l Principe virtuoso è lo esempio, e quasi la regola de la vita de’ popoli, parmi, che la via de le laudazioni sia stata non meno che l’altre ingegnose, e bella; perciò che, per esser difficile, e a le volte pericoloso dare ammaestramenti a i Principi, la prudenzia de’ gli antiqui trovò le laudazioni» lettera citata da Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 18-19.

14. G.G. Trissino, La Prima Divisione della Poetica, in Aa.Vv., Trattati di poetica e retorica del Cinquecento…, I: 23.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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scena teatrale ha modo di essere riconosciuto15.Dopo il Concilio di Trento e con Tasso si eclissa qualsiasi utopia o

illusione sui margini di intervento del letterato che non si riduca quasi esclusivamente all’impegno verso un tipo di poesia come indagine di ve-rità. Tasso esprime ormai una diversa sensibilità artistica, che si riflette nelle anime tormentate dei suoi personaggi, lontanissimi dall’aureo e se-reno classicismo di inizio secolo. Lo si vede per esempio nella concezione della morte, motivo centrale del genere tragico. La morte di Sofonisba, annunciata fin dall’inizio del dramma, acquista i caratteri estetici di un rito sontuoso, commovente e lirico, come Tasso non mancherà di notare nel testo postillato; la morte della regina è narrata fin nei minimi par-ticolari con una sproporzione paradossale tra il significato del suicidio, cioè la sparizione dalla scena del corpo della regina, e la sovrabbondanza verbale con cui essa è narrata e descritta. La morte in scena è risarcita da un diluvio di parole che sostituiscono la vita-non più vita della protagoni-sta. Inoltre, il sacrificio di Sofonisba, come si è detto, assume i connotati di un necessario rituale che consentirà la ricomposizione della pace tra i contendenti, quindi, paradossalmente la tragedia può dirsi conclusa con un lieto fine.

Nel caso, invece, dei due fratelli-amanti, Alvida e Torrismondo, la morte figura come languido e commosso suicidio necessitato dal trionfo del tradimento, dell’inganno, della violenza di una sorte rea e empia che contrasta qualsivoglia Virtù. Rispetto alla fine luttuosa della bella Sofo-nisba il destino drammatico di Alvida e Torrismondo getta lo spettatore in un universo poliprospettico di segni ambigui, dove la verità tanto an-gosciosamente ricercata resta nascosta quasi fino alla fine, e ognuno dei personaggi può rappresentarsela in modi differenti. Il volere di Sofonisba è determinato dalla volontà autoritaria del padre e del nemico rispetto alla quale ella può solo opporre la scelta estrema della morte, del non esse-re. Trissino le concede soltanto il risarcimento morale di un nobilissimo rito funebre che la proietta direttamente nella sfera della idealizzazione

15. Già Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 29-30, e poi anche Valentina Gallo, La ‘Sofonisba’ di Trissino. Fondazione o riscrittura?, in «Ariel», a. XVII, n.1, gennaio-aprile, (2002): 67-103, sottolineano la partecipazione di Trissino al clima ideologico e culturale del suo tempo, non solo in riferimento alle amicizie e alle frequentazioni (Machiavelli e il cenacolo fiorentino degli Orti Oricellari) ma anche e soprattutto in considerazio-ne delle scelte di politica culturale.

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La morte tragica nel Cinquecento

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eterna. Nel tragico trissiniano la morte sublima il desiderio di essere nella storia e, simbolicamente, ricompone sulla scena teatrale le lacerazioni del potere. Nel Torrismondo, invece, la storia finisce col determinare tragi-camente il destino dei due protagonisti, le cui traiettorie sono predeter-minate dalle ‘stelle congiurate’, da ‘ascosa cagione’ a cui i miseri devono sottomettersi.

Nel Torrismondo si riducono i margini di azione del personaggio tra-gico, interamente sovraordinato da forze occulte e dalla fine dell’utopia. Tasso propone un tragico assoluto nel quale l’orrore storico s’impone al di là di qualunque orizzonte di fuga nell’ideale. Ed è per questo motivo che, dopo la stagione speroniana e giraldiana, a circa mezzo secolo dalla prima tragedia regolare, la sua proposta di tragico si esaurisce molto pre-sto dopo una breve intensa stagione di successo. Al pubblico che gradiva i dilettevoli spettacoli boscherecci, le spensierate favole comiche con esito felice, il Torrismondo non poteva risultare facilmente digeribile; un ge-nere gravissimo, come si legge nella Dedica al duca di Mantova, che ha bisogno del diletto e dell’utile:

La tragedia per opinione di alcuni è gravissimo componimento; come ad al-tri pare, affettuosissimo e convenevole a’ governanti: i quali, oltre tutti gli altri, par che ricerchi per uditori […] Oltre a ciò, la tragedia per giudizio d’A-ristotele ne l’esser perfetto supera ciascun altro. E voi sete principe dotato d’altissimo ingegno e d’ogne perfezione […] In una cosa solamente potrebbe alcuno estimar ch’io avessi avuto poco risguardo a la sua prospera fortuna. Io dico nel donare a felicissimo principe infelicissima composizione; ma le azioni de’ miseri possono ancora a’ beati servire per ammaestramento; e Vo-stra Altezza, leggendo o ascoltando questa favola, troverà alcune cose da imi-tare, altre da schivare, altre da lodare, altre da riprendere, altre da rallegrarsi, altre da contristarsi. E potrà col suo gravissimo giudizio purgar in guisa l’a-nimo, ed in guisa temprar le passioni, che l’altrui dolore sia cagione del suo diletto; e l’imprudenza degli altri, del suo avedimento; e gli infortunii, de la sua prosperità. E piaccia a Dio di scacciar lontano de la sua casa ogni infeli-cità, ogni tempesta, ogni nube, ogni nebbia, ogni ombra di nemica fortuna o di fortunoso avenimento16.

16. T. Tasso, Il Re Torrismondo, Al Serenissimo Signor don Vincenzo Gonzaga Duca di Mantova e di Monferrato etc., in Id., Teatro, a cura di M. Guglielminetti, Milano, Garzanti, (1983), 2003.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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Optando per la ripresa della poesia tragica, Tasso, dunque, manifesta chiaramente la volontà di acquisire fama e visibilità dopo gli anni del-la carcerazione legando il proprio nome a quello dell’illustre casata dei Gonzaga e a un genere perfetto – secondo la codificazione cinquecente-sca – garanzie di sicura fortuna per un poeta peraltro reduce dal successo indiscusso dell’Aminta17. Non bisogna trascurare che il teatro tragico in quegli anni acquista una centralità prima sconosciuta, svolgendo una pre-cisa funzione politico-ideologica, in quanto rappresenta simbolicamente la forza e il prestigio politico-culturale di principi e duchi, misurato anche attraverso l’eccellenza di feste e spettacoli:

I drammaturghi cinquecenteschi hanno sperimentato un tipo di tragico in cui ideologia e stile fossero funzioni necessarie di un teatro inteso prima di tutto come chiarificazione concettuale, come verifica razionale o, se si vuole, intellettualistica, di personali e storiche angosce18.

Il programma culturale di Trissino prevedeva l’atto fondativo delle norme linguistiche e dei codici della poesia, lirica, epica e teatrale, secon-do direttrici volte a conciliare modelli antichi con esigenze moderne e assegnando al poeta e alla sua opera un’indiscussa centralità nell’agone politico cortigiano.

Diversissima è, invece, la funzione che Tasso assegna al teatro e alla poesia. Il Re Torrismondo risponde a ragioni di opportunità cortigiana ma, al contempo, offre un campo interessante di sperimentazione di una poesia che trova la sua ragion d’essere come strumento di conoscenza, come ricerca di verità, in linea con gli orientamenti perseguiti con la Con-quistata, con il Giudizio, con il Mondo Creato nell’ultimo decennio della

17. Per gli aspetti scenici del Torrismondo, che ebbe dieci edizioni in soli tre mesi nel solo cir-cuito padovano-veneto, cfr. M. Pieri, Interpretazione teatrale del ‘Torrismondo’, in «La Rassegna della Letteratura italiana», XC, serie VIII, n. 3, sett.-dic. (1986): 397-414.

18. M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il Teatro tragico del Cinquecento…, 6; Id., In-troduzione, in Il teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecento, t. I, Torino, Einaudi, 1977, VII-LXXX; N. Borselllino - R. Mercuri, Il teatro del Cinquecento, Bari, Laterza, 1973; Aa.Vv., Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di M. De Panizza Lorch, Edizioni di Comunità, Mila-no, 1980; G. Ferroni, Il testo e la scena. Saggi sul teatro del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980; R. Scrivano, La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma, Bonacci, 1980.

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La morte tragica nel Cinquecento

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vita del poeta19. Lo spessore di riferimenti teologici e filosofici che il Re Torrismondo ha alle spalle ne fa un testo complesso sul piano dei signifi-cati ultimi da attribuire alla concezione di poesia tragica che esso espri-me20. Pertanto, il confronto tra i due poeti condotto sul versante delle riflessioni teoriche e delle ragioni delle scelte poetiche può risultare di grande interesse per valutare adeguatamente e comprendere forse meglio le motivazioni profonde di esiti non solo ideologicamente distanti ma anche stilisticamente diversi e, infine, per seguire la parabola evolutiva del

19. La tragedia, dedicata al duca Vincenzo I Gonzaga, è il tributo del poeta al suo liberatore dal carcere di Sant’Anna, felicissimo principe che da tempo tentava di rilanciare gli spettacoli tragici nella sua città, città non meno adatta agli spettacoli e alle feste della vicina Ferrara. Per gli aspetti scenici dello spettacolo tragico, in particolare riferiti al Torrismondo, si rimanda a M. Pieri, Inter-pretazione teatrale del ‘Torismondo’, sopra citata. Per quel che riguarda, invece, l’ultima stagione creativa di Tasso e l’incremento davvero sorprendente di letture filosofiche e teologiche, si veda l’Introduzione al Giudicio sovra la Gerusalemme riformata, a cura di C. Gigante, Roma, Salerno editrice, 2000: XI-LII e relativa bibliografia. Gigante sostiene e dimostra attraverso puntuale ri-cognizione delle fonti tassiane che l’ultima stagione, ovvero gli anni dall’Apologia della ‘Gerusa-lemme liberata’ (1585) alla morte, furono costellati di letture di testi biblici, platonici, aristotelici e patristici, attraverso i quali Tasso costruisce la propria difesa della poesia del poema riformato nell’uso dell’allegoria non come ‘falso’ ma come senso diverso e più profondo del letterale. Cfr. C. Scarpati, Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso, in C. Scarpati - E. Bellini, Il vero e il falso dei poeti, Milano, Vita e Pensiero, 1990: 3-34.

20. Sulla religiosità di Tasso si veda, in particolare, A. Corsaro, Percorsi dell’incredulità. Religione, Amore, Natura nel primo Tasso, Roma, Salerno Editrice, 2003 e la rassegna bibliografica curata da E. Ardissino, Il pensiero e la cultura religiosa di Torquato Tasso. Rassegna e discussione su un quinquennio di studi (1998-2002), in «Lettere italiane», LV, 4, ottobre-dicembre, (2003): 591-614. Antonio Corsaro ripercorre puntualmente le Lettere, in molte delle quali Tasso è pre-occupato di discolparsi da scottanti accuse di eresia ma non può negare di essersi mostrato, come filosofo, curioso di tante questioni. Si legga tra le tante possibili, la Lettera inviata al Marchese Gia-como Buoncompagno da Sant’Anna, 17 maggio 1580 (n. 133 nell’edizione Guasti), dove Tasso scrive: «[…] S’io ben mi rammento, quando in Bologna al Santo Ufficio m’appresentai, confessai a l’inquisitore ch’io come filosofo era stato dubbio ne l’immortalità de l’anima, ne la creazion del mon-do, e in alcune altre cose; e gli confessai ancora d’aver avuta opinione, che la misericordia infinita di Cristo dovesse salvar l’anima di que’ giusti i quali, non per altro difetto che per mancamento di fede, sono immeritevoli de la gloria del paradiso; ma non gli dissi nondimeno d’aver avuta alcuna opinione luterana o ebraica». L’investigazione filosofica come modus operandi della ricerca e della conoscenza appartiene a Tasso come veste poetica, applicata cioè anche alla prassi di un poeta che aspira alla bellezza non separata dalla scoperta delle verità. In questo senso vanno quindi interpre-tate le letture teologiche e neoplatoniche che il poeta peraltro incrementò nel tempo fino all’ultima stagione creativa, dove anzi la filosofia diviene uno strumento per riportare ordine e disegno al caos dell’esistenza e la poesia una via del vero. Per questi aspetti cfr. E. Russo, L’ordine, la fantasia e l’arte. Ricerche per un quinquennio tassiano (1588-1592), Roma, Bulzoni, 2002; M.T. Girardi, Tasso e la nuova “Gerusalemme”. Studio sulla “Conquistata” e sul “Giudicio”, Napoli, ESI, 2002 e agli studi di Gigante e Ardissino sopra citati.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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genere tragico nel Cinquecento italiano.Se si accetta di datare le postille tassiane alla Sofonisba all’ultimo de-

cennio di vita del poeta, come propone Franco Paglierani che ne caldeg-giò fortemente la pubblicazione nel 1884, a quell’altezza di anni Tasso possiede ormai una robusta formazione non solo strettamente poetica ma anche teologica e filosofica, come rivelano le opere composte in questi anni, dal Giudizio alla Conquistata dal Torrismondo ai Discorsi del poe-ma eroico, oltre che le Lettere nelle quali il poeta richiede insistentemente testi dei Padri della Chiesa, gli Opuscola e la Summa di Tommaso d’A-quino, i libri di Agostino, i commenti di san Girolamo, le traduzioni in latino della Repubblica e delle Leggi di Platone, della Metafisica di Aristo-tele, del De audiendis poetis di Plutarco21. È cioè un poeta maturo che, nel postillare il testo della prima tragedia regolare italiana, misura la distanza delle proprie scelte stilistiche da quelle del suo predecessore. Pur condi-videndo la natura gravissima del tragico e l’utilità degli ammaestramenti che il destino luttuoso di chi per errore ha commesso azioni moralmente abiette, Tasso tuttavia esprime un sentimento affettuoso e patetico mol-to diverso. Dopo Sant’Anna il poeta, forte della sapienza dei Padri della Chiesa e dei filosofi neoplatonici, recupera una concezione della poesia come filosofia e ricerca del vero, da perseguire nelle forme più eccellenti quali il poema eroico e la tragedia. Rispetto al primo che procura gio-vamento agli uomini mostrando l’eccellenza delle virtù, la seconda, per farlo, ricorre all’orrore che le azioni empie, compiute per errore, suscita-no nell’animo22. La poesia, insomma, sia eroica sia tragica, si ripropone una finalità morale oltre che estetica proprio perché svela la verità oltre il falso e, nel caso della tragedia, rivela la consapevolezza drammatica della ‘vita non vita’, come recita Germondo nell’explicit del Torrismondo, di esistenze sovradeterminate da ragioni occulte e misteriose, dunque, di un piano – quello umano – escluso dalle verità ultime, nascoste e lontane23.

21. C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno editrice, 2007: 334 e l’Introduzione al Giudicio sopra citata.

22. T. Tasso, Discorsi del poema eroico…, 259.23. Come si vedrà nel capitolo riservato all’analisi dei versi del Torrismondo, il richiamo al

mistero che circonda la vita di Alvida e di Torrismondo, negando l’accesso alla verità, è continuo e ossessivamente disseminato sul piano linguistico in aggettivi e sintagmi che affiorano dai pensieri e dalle parole di Alvida fin dall’inizio, e poi anche di Torrismondo. Il riferimento, nel IV Atto, all’antro ascoso delle ninfe dove sarebbe stata celata la vera figlia di Alraldo nel tentativo di impe-

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La morte tragica nel Cinquecento

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Il poeta dei Discorsi del poema eroico, pubblicati nello stesso anno del Tor-rismondo (1587) è un estimatore più distaccato dalla Poetica aristotelica rispetto al suo predecessore Trissino; si concede di ‘tradirlo’ in nome per esempio di un maggiore impiego del diletto che nel caso della riforma del-la Gerusalemme si traduce nell’impiego dell’allegoria che gli permette di estendere i confini di ciò che può considerarsi reale perché possibile, dun-que, vero o verosimile24. Ne deriva una proposta di poesia epica e tragica che deve avere l’autorità dell’istoria, la verità della religione, la licenza del fingere, la qualità de’ tempi accomodati e la grandezza de gli avveni-menti25. Tale formula agisce nella critica della Sofonisba di Trissino, le cui postille infatti chiariscono alcune linee generali di intervento riassumbili nella disapprovazione del sermo pedestris nei Cori, dove più alto dovrebbe essere il lirismo, della prosasticità dell’elocuzione sia di Sofonisba sia di Massinissa (Sofonisba, vv. 423-514) e dello squilibrio tra versi decisamen-te riusciti e parti noiose e lente, più discorsive che liriche. Addirittura, confrontando l’orazione della regina a Massinissa con il precedente virgi-liano di Didone a Enea, il giudizio di Tasso è senza appello:

l’autore appare sempre più retore che oratore e poeta et un solo verso di Vir-gilio e più atto a commovere di tutta q.ta languida peroratione Eppure So-

dire la rovina del regno predetta al re da ‘accorte ninfe’, allude a un luogo sacro, ancestrale, riposto, separato dal mondo umano, nel quale si raccoglie come un tesoro tutta la sapienza del Creato. Die-tro il simbolismo di queste immagini sta la lettura di un «picciolo ma dotto libretto» composto da Porfirio, L’Antro delle Ninfe, ispirato al XIII canto dell’Odissea, vv. 125-137, dove si racconta dei doni offerti dal re dei Feaci a Ulisse di ritorno a Itaca e custoditi in una celata spelonca. Scrive Tasso, per motivare il senso allegorico della poesia: «Oltre a ciò, la spelonca riceve molte allegorie, come l’antro di Platone figurato per lo mondo, e quello d’Omero, del qual Porfirio compose un picciolo ma dotto libretto» in Discorsi del poema eroico…, 171.

24. Nel II libro dei Discorsi del poema eroico Tasso si avventura nell’argomentazione sottile e ardua della poesia come imitazione del verosimile obiettando le tesi di Iacopo Mazzoni che nella sua Difesa di Dante distingueva l’imitazione icastica da quella fantastica, a p. 86 e sgg. Tasso con-testa la tesi di una somiglianza della poesia alla sofistica perché quest’ultima è fondata sul falso mentre il soggetto del poeta è quel che è, o quel che può essere, o quel che si crede o quel che si narra (a p. 88). Ne deriva per Tasso l’assimilazione del poeta al divino teologo che ricorre alle immagini come il parlante pittore che forma le immagini che significano e che, in forza del linguaggio figura-tivo più espressivo e immediato di quello verbale, sono più adatte a esprimere concetti rivestendoli di segni che bisognano del poeta, mistico teologo, come mediatore. Pertanto con l’autorità di san Tommaso e di Agostino Tasso può affermare che al poeta è concessa la meraviglia, il meraviglioso credibile, in cui consiste la licenza del fingere del poeta.

25. T. Tasso, Discorsi del poema eroico…, 113.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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fonisba persuade Massinissa e Didone non riesce con Enea, e perché l’uno desiderava ottenere, e l’altro aveva ottenuto […] un poeta che non parla il linguaggio delle muse non potrà piacere giammai26.

Altrove, in corrispondenza dei Cori, Tasso apprezza l’enorme in-nalzamento stilistico, al punto da annotare: «sembra che i cori siano di diverso autore tanto sono più eleganti e nobili» e ancora: «il coro qui come altrove usa un linguaggio certamente poetico e v’è eleganza e le-giadria». In corrispondenza dello scambio veloce di battute tra il Messo e Lelio che domanda dove si trovi Massinissa (vv. 735 e sgg.) il poeta an-nota l’eccessiva semplicità del dettato greco che però qui rischia di diven-tare linguaggio triviale e basso, e si domanda cosa penserebbe la Crusca di fronte a certi vocaboli decisamente non convenienti al registro stili-stico del tragico. Rimprovera ancora l’uso di un sermone non antico ma moderno, la scarsa verosimiglianza linguistica e di costumi, quando per esempio fa notare che le nozze di Sofonisba e Massinissa sono celebrate secondo il rito cattolico della Santa romana Chiesa, spia di una evidente finalità encomiastica dell’autore27. Sul piano morale della convenienza dei costumi Tasso sottolinea il difetto di decoro e di dignità («q.a scusa manca di dignità di decoro e di virtù») quando per esempio Siface giusti-fica il tradimento dell’alleanza con i Romani con la seduzione esercitata su di lui dalla bellezza della regina (vv. 1190 e segg. «La causa fu la bella Sofonisba / de l’amor de la qual fui preso, e arso»).

Altrove concede che «non può negarsi che ognuno dei personaggi conservi il suo naturale, ma la bassezza de lo stile toglie loro forza energia ed espressione» e lamenta, infine, ripetizioni e lungaggini. In corrispon-denza della preparazione alla morte della regina (vv. 1569 e sgg.), mali-ziosamente annota che la cura per le vesti, i serti di fiori e la bellezza sono tali che «qualche maligno dirà che q.te lavande, et ornamenti ave-non altro scopo che placare i numi». Al contrario, quando Sofinisba in punto di morte pronuncia le ultime parole al piccolo figlio, Tasso deve ammet-

26. G. G. Trissino, La Sofonisba con note di T. Tasso...27. Come si è già ricordato, con la dedica al papa, Trissino sperava, come poi avvenne, di riot-

tenere da Venezia i beni confiscati per essersi schierato con tutta la famiglia dalla parte dell’impe-ratore e di potere così rientrare in patria. I lunghi anni di esilio lo avevano portato a vivere in molte città, da Milano a Ferrara, fino a Napoli e per due anni anche in Germania, alimentando in lui una visione del mondo niente affatto municipalistica e laica.

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tere che i versi raggiungono la più tenera commozione, assecondando il gusto per il patetico e per l’effusione lirica dei sentimenti: «qui l’autore comincia a dare un compenso della lunga noia che ci ha fatto soffrire nel precedente dialogo sparisce il languore della locutione parla il poeta con il linguaggio degli antichi si mostra vero loro discepolo et appare pittore da la natura»28 e giudica ‘verso sublime’ quello in cui la regina così si rivolge alla sorella: «Erminia mia, tu sola a questo tempo/mi sei padre, fratel, so-rella e madre»29. In altre occasioni consiglierebbe l’eliminazione di alcu-ni versi, che stemperano e smorzano la forza lirica del tragico, giudicando addirittura ridicolo il lamento di Erminia: «Ohimei Ohimei Ohimei»:

fanno ridere, e non piangere, et il poeta, a mio giuditio, avrebbe colpito nel segno se colla morte Sofonisba avesse terminata la tragedia Dopo uno scio-glimento tanto terribile, qualunque aggiunta non può a meno di non riuscir languida, fredda et infievolire l’impressione de la scena30.

In generale, il patetico gioca un ruolo di primo piano nel giudizio di valore espresso da Tasso, così come il decoro e la convenienza tra il registro espressivo e il soggetto, secondo la regola oraziana ereditata nelle poetiche del Cinquecento. Dalle postille emerge un gusto educa-to sul modello degli Antichi, sui precetti oraziani e aristotelici, su un ideale poetico dilettevole ma utile a ammaestrare e educare attraverso il patetico di una poesia che, come quella tragica, epica e sacra, vuole essere fondamento delle verità ultime attraverso il ricorso all’allego-ria. Si ricorderà, infatti, che a partire dal 1584, sulla scia della polemica scoppiata dopo la pubblicazione del Carafa overo della poesia epica di Camillo Pellegrino, tra i sostenitori del Furioso e quelli della Liberata, Tasso torna ripetutamente a riflettere sulla natura della poesia e se deb-ba ispirarsi al vero o alla fantasia. Nel 1585 con l’Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata e poi con il Giudicio e i Discorsi del poema eroi-co, il poeta confermerà la preferenza nei riguardi di una poesia che col velo dell’allegoria possa dilettare e docere, coniugando armoniosamente l’ordine e la fantasia e testimoniando così una nuova sensibilità lontana

28. La postilla si riferisce ai vv. 1875 e sgg. della Sofonisba.29. G.G. Trissino, La Sofonisba, in Aa.Vv., Il teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecen-

to, t. I a cura di M. Ariani, Einaudi, Torino, 1977, vv. 1885-1886.30. G.G. Trissino, La Sofonisba…, 1935 e sgg.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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ormai dalla libera espressività del primo Rinascimento:

La poesia è dunque imitazione dell’azioni umane, fatta per ammaestramen-to della vita. […] È dunque […] la poesia imitazione dell’azioni umane affine di giovar dilettando, e il poeta uno imitator sì fatto il quale con l’arte sua po-trebbe dilettare altrimente, come hanno dilettato molti senza giovamento; ma non facendolo è buon poeta, e per aventura è in ciò simile all’oratore31.

Il giovamento della poesia deriva dall’essere essa stessa una specie di filosofia che fin dalla nascita ammaestra gli uomini nei costumi e nelle ra-gioni della vita; essendo l’utile connesso all’onesto, il poeta è anche uomo civile perché unisce il fine proprio dell’arte, il diletto, all’ammaestramen-to che è il fine proprio della filosofia. L’attenzione riservata alla bellezza, oltre che a ciò che è buono e onesto, rivela in Tasso l’eredità dei trattati poetici ispirati alla filosofia platonica e neoplatonica, quali ad esempio il Nauagerius sive de poetica dialogus (1540) di Girolamo Fracastoro, dove la bellezza come armonia e ordine superiore è il fine della poesia e l’e-sperienza di superiore contatto dell’umano col divino, sancendo di fatto un progressivo allontanamento dell’esperienza poetica da quella reale e concreta delle cose e assimilando il processo poetico al furor divino32. Tuttavia, nei Discorsi del poema eroico, nonostante non siano rinnegati i princìpi esposti nei giovanili Discorsi dell’Arte poetica – la grandezza della poesia eroica, l’eccellenza dello stile, la liceità del meraviglioso cristiano, il principio dell’unità nella varietà – Tasso difende con forza un’idea della

31. T. Tasso, Discorso del poema eroico, in Id., Discorso dell’Arte poetica e del Poema eroico…, 67, 69. Poche righe oltre (74), dichiara che il poema eroico è imitazione di azioni illustri, grandi e perfette, fatta narrando con altissimo verso, al fine di muovere gli animi con la meraviglia e di giovare.

32. Lungo il corso del Cinquecento le due correnti filosofiche, aristotelica e platonica, si in-trecciano articolando variamente il dibattito sulla natura del poeta e della poesia. Se Francesco Robortello nel 1548 conduce il commento alla Poetica aristotelica nelle Explicationes, proponen-do insieme con Sperone Speroni, Benedetto Varchi e la scuola padovana un’idea di poesia come imitazione a fini morali educativi, nel 1563 Antonio Minturno pubblica la sua Arte poetica nella quale introduce il fine poetico del docere delectando. Di più stretta derivazione platonica, oltre al Nauagerius di Fracastoro, Francesco Patrizi da Cherso pubblicò nel 1586 il Della Poetica sostenen-do un’idea di poesia meno razionalmente legata alla precettistica aristotelica e più riconducibile a una sfera irrazionale e intuitiva dell’essere. Cfr. il capitolo dedicato ai Discorsi del poema eroico nella monografia su Tasso di Gigante, la puntuale disamina degli scritti tassiani del quinquennio 1585-1592 svolta da E. Russo in L’ordine, la fantasia e l’arte. Ricerche per un quinquennio tassiano (1588-1592), Roma, Bulzoni Editore, 2002, in particolare il III cap. e la relativa bibliografia.

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La morte tragica nel Cinquecento

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poesia come altissima imitazione di ciò che è e non del falso e delle men-zogne, idea che assimila di fatto il poeta al teologo nell’uso delle immagi-ni per meglio parlare delle cose intellegibili ma non visibili:

il principale soggetto del poeta è quel ch’è, o quel che può essere, […] Laon-de, quantunque il poeta sia facitor degli idoli, ciò non si dee intendere ne l’i-stesso significato nel qual si dice ch’il sofista è fabro degli idoli, ma debbiam dir più tosto che sia facitore de l’imagini a guisa d’un parlante pittore, e in ciò simile al divino teologo, che forma l’imagini e comanda che si facciano33.

Sul piano teorico, dunque, Trissino e Tasso condividono il concetto di poesia come imitazione e la finalità dell’utile della poesia eroica e di quella tragica, rivendicate nella Poetica di Trissino, pubblicata nel 1562 ovvero negli stessi anni di elaborazione dei primi Discorsi tassiani, e che, come questi, risentono fortemente del dibattito teorico al quale parteci-pano tra gli altri, Robortello, Pigna, Minturno, Giraldi Cinzio.

Sul piano del registro stilistico del tragico, Trissino opta per un ser-mone soave e dolce e per parole chiare e comprensibili in lingua italiana e non forestiere, che non provocherebbero la compassione e l’orrore34.

La virtù poi universale del sermone è quando esso è composto di parole ma-nifeste e chiare, ma non umili né abiette35.

Analogamente Tasso consiglia un registro stilistico appropriato alla condizione sociale dei personaggi, poiché la tragedia tratta materie più affettuose e «l’affetto richiede purità e semplicità di concetti e proprietà

33. T. Tasso, Del poema eroico…, 89. Appellandosi all’autorità di san Tommaso nella Sum-ma Theologica, si dichiara convinto che il soggetto della poesia dev’essere il vero e non il falso, pren-dendo così anche posizione contro le idee illustrate da Jacopo Mazzoni nella sua Difesa di Dante, forse non integralmente lette e comprese. Scagliandosi contro la distinzione tra la poesia icastica e quella fantastica, Tasso di fatto ritorna sulla natura della poesia come imitazione del vero, semmai del verosimile, obiettando risolutamente alle idee di Robortello e di Piccolomini che ammettevano nella poesia l’imitazione del falso «avvenga che il falso, per giudizi di Platone e d’Aristotele, sia la materia del sofista, il quale s’affatica intorno a quel che non è» ivi, 86.

34. G.G. Trissino, La Quinta e la Sesta Divisione della Poetica, in Trattati di Poetica e Reto-rica del Cinquecento…, 2: 14.

35. G.G. Trissino, La Quinta e la Sesta Divsione della Poetica…, 41 e segg. dove è spiegata la ragione per cui nella tragedia conviene un sermone non troppo vago e pieno di metafore oscure né un eloquio affettato che risulta vizioso.

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Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso

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d’elocuzioni, perché in tal guisa è verisimile che ragioni uno che è pieno d’affanno o di timore o di misericordia o d’altra simile perturbazione»36, e poi perché l’eccessivo ornamento adombra e smorza gli affetti. In os-sequio al principio della verisimiglianza, pertanto, lo stile tragico non dev’essere al di sopra dell’ordinario tranne che nelle parti affidate diretta-mente alla voce del poeta, ovvero nei Cori, dove il registro può innalzarsi divinamente.

Un punto sul quale Trissino insiste particolarmente è quello che ri-guarda la costituzione della favola ovvero la legatura, la connessione delle diverse parti nelle quali la tragedia si divide, il prologo, l’episodio, l’esodo e il Coro. Scrive il poeta:

Ma la propria dilettazione della tragedia viene dalle cose formidabili e mi-sericordiose. E quantunque queste due tali perturbazioni talora siano fatte dalla rappresentazione, molto più laudabile cosa è, e da miglior poeta, che vengano dalla constituzione della favola. La quale dee essere talmente con-stituita che solamente a leggerla, senza vederla altrimente rappresentare, muova orrore e misericordia per le cose che in essa sono accadute; il che suo-le avvenire a ciascuno che legge la favola di Edipo e quella di Aiace e forse la nostra Sofonisba37.

Il diletto proprio del tragico dunque consiste nell’effetto delle passio-ni, la misericordia e l’orrore per la fine spaventosa del personaggio, ma tale effetto è procurato dall’ottima connessione creata dal poeta tra le parti della favola destinata alla rappresentazione in scena ma anche alla semplice lettura. L’arte con cui il poeta sa complicare e sciogliere l’azio-ne, assicurando coesione e organicità alle parti, determina l’eccellenza dell’artificio poetico. Per lo stesso motivo, aggiunge Trissino, «la mi-gliore soluzione della favola è quella che da la istessa favola viene, e non quella che con la machina scenica ve introduce i dèi che la solvano; e che la legatura della tragedia è tutta quella parte che è dal principio fino alla mutazione della fortuna»38.

Entrambi i poeti dunque rivendicano la centralità del componimento

36. T. Tasso, Discorso dell’arte poetica, in Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, III: 42.

37. G.G.Trissino, La Quinta e la Sesta Divisione della Poetica…, 25.38. Ivi: 29.

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La morte tragica nel Cinquecento

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gravissimo, la tragedia, attribuendole la funzione morale della purgazione dell’animo umano, l’ammaestramento attraverso lo spettacolo dei vizi altrui, dell’altrui dolore sofferto per errore e ignoranza; entrambi disser-tano sulle differenze tra l’eroico e il tragico ma se l’impegno teorico del vicentino sembra finalizzato a classificare, catalogare e distinguere, quello di Tasso nei Discorsi è motivato dalla volontà di spiegare e giustificare le scelte operate sul versante poetico e, al contempo, è sollecitato dagli sti-moli ricevuti dalle letture teologiche e filosofiche alle quali intende torna-re, come dichiara nell’epilogo dei Discorsi dove, dopo aver precisato che il diletto del tragico è inferiore a quello dell’eroico «perché l’uomo non è di così fiera e scelerata natura che riponga il suo sommo piacere nel dolore e nell’infelicità di coloro che per qualche errore umano sono caduti in miseria», così conclude:

Concedamisi dunque ch’in questa e in alcune poche opinioni lasci Aristote-le, per non l’abbandonare in cosa di maggiore importanza, cioè nel desiderio di ritrovar la verità e nell’amore della filosofia; percioché in questa diversità di parere io imiterò coloro i quali nella divisione delle strade sogliono divi-dersi per breve spazio, e popi tornano a congiungersi nell’amplissima strada la qual conduce a qualche altissima meta o ad alcuna nobilissima città, piena di magnifiche e di reali abitazioni, e ornata di templi e di palazzi e d’altre fabriche reali e maravigliose39.

Con questo finale allegorico nel quale si figura l’immagine di una cit-tà divina e celeste al termine di un itinerario altissimo, che è figura del cammino intellettuale del poeta, Tasso chiude un altro capitolo della speculazione teorica che, di lì a pochi anni, avrebbe nel Giudicio sovra la Gerusalemme riformata trovato formulazioni e figurazioni ancora più alte condividendo con i filosofi e i teologi l’arduo percorso.

39. T. Tasso, Discorsi del poema eroico…, 259.

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Capitolo IIL’esequie sontuose e belle di Sofonisba

Dedicata al papa Leone X e stampata nell’editio princeps romana del 1524 per i tipi di Lodovico Vicentino e Lautitio Perugino, la Sofonisba di Giangiorgio Trissino (1478-1550) inaugura il teatro tragico regolare in lingua italiana nelle corti del Cinquecento1. La sua composizione si fa risalire agli anni tra il 1514 e il 1515 nel contesto della corte papale di Le-one X a Roma, città dai forti interessi teatrali dove Trissino risiedette in occasione delle rappresentazioni teatrali legate ai festeggiamenti in onore di Isabella di Mantova, cui il poeta aveva reso omaggio nei suoi Ritratti2. Nobile vicentino e frequentatore nel 1513 del cenacolo fiorentino degli Orti Oricellari, a Roma Trissino trovava un ambiente favorevole all’e-sercizio della sua politica culturale volta, con la dedica della Sofonisba a Leone X, a ingraziarsi il papa per ottenere un suo intervento a favore della restituzione alla propria famiglia dei beni confiscati da Venezia per essersi schierata dalla parte dell’Imperatore nella battaglia della Ghiaradadda.

La Sofonisba nasce pertanto nel clima di fervente risveglio artistico e letterario italiano, nel vivo delle discussioni sulla lingua letteraria, della

1. Tranne che per la Dedica, citata nell’edizione curata da Renzo Cremante, per il resto la tragedia è citata nell’edizione a cura di M. Ariani, Il Teatro italiano. II. La Tragedia del Cin-quecento, t. I, Torino, Einaudi, 1977, che riproduce la vicentina del 1529 con lievi modifiche nell’interpunzione e negli aggiornamenti grafici. Per le notizie biografiche su Trissino e per un inquadramento storico-critico si rimanda al profilo di Ariani nella suddetta edizione del 1977 e i due capitoli dedicati alla Sofonisba e al tragico trissiniano dello stesso Ariani in Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento... Altri contributi critici saranno opportunamente citati. Nella Dedica a Leone X il poeta scrive: «la Tragedia muove compassione e tema, con le qual e con altri ammaestramenti arreca diletto a li ascoltatori e utilitate al vivere humano» in La Sofo-nisba, in Aa.Vv., Teatro del Cinquecento, I, La Tragedia, a cura di R. Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988: 30.

2. Si veda G. Ferroni, La «Sofonisba»: un classicismo senza conflitto, in Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, a cura di Neri Pozza, Vicenza 31 marzo-1 aprile 1979, Odeon del Teatro Olimpico, Vicenza, Accadema Olimpica 1980: 111-138. La data di composizione della tragedia può essere fissata con relativa certezza grazie a una lettera inviata a Trissino dall’amico Giovanni Rucellai, in data 5 novembre 1515, che è terminus ante quem per la stesura dell’opera; in ogni caso, la tragedia doveva essere terminata alla fine dell’estate del 1515, quando il poeta lasciava Roma alla volta della missione diplomatica in Germania dall’imperatore Massimiliano.

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trattatistica sul comportamento cortigiano, della riflessione teorica sul potere e sui modi di amministrarlo, e segna l’avvio di un confronto tra intellettuali sulla funzione sociale e politica del teatro tragico che nel cor-so del XVI secolo costituirà una delle principali forme di coinvolgimento del pubblico e di adesione a un orizzonte politico, culturale e ideologico. La Sofonisba costituisce il prototipo di una forma del tragico che nel cor-so del XVI secolo, nonostante l’enorme succcesso di pubblico e le nume-rose ristampe di fine secolo, seguì percorsi eterogenei fino a giungere, at-traverso l’esplorazione del sentimento dell’orrore e della meraviglia, alle ambiguità proprie del Manierismo, alle forme introspettive e laceranti del Torrismondo tassiano.

La fortuna della Sofonisba cominciò a decrescere gradualmente a partire dal Seicento3 dovendo fare i conti con le difficoltà di traduzione sulla scena di un complesso di istanze non solo squisitamente poetiche e tecniche ma anche ideologiche e politiche4. La proposta tragica di Tris-

3. Dopo la princeps del 1524 si contano 15 ristampe, tra cui due vicentine, una genovese e tutte le altre veneziane. Quattro furono le riedizioni nel Seicento, sei quelle settecentesche – dopo la silloge delle opere del vicentino curata da Scipione Maffei nel 1729, che rivela un interesse par-ticolare per il ghibellinismo dell’autore – e infine 5 le riedizioni ottocentesche. Si rimanda a B. Alfonzetti, «Oh vani giuramenti!». Tragico ed eroico in Tasso e Trissino, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di G. Patrizi, Roma Bulzoni, 2002: 355-385.

4. Si ha notizia di una prima rappresentazione in traduzione francese nel 1554 davanti a Caterina de’ Medici mentre la prima in Italia risale al 1562 a Vicenza presso il Palazzo della Ra-gione. Le prime critiche allo stile della Sofonisba – antitragico, accademico, sciatto – giunsero da Benedetto Varchi, Lezioni, Firenze, Giunti, 1590, e proseguirono con Tasso che gli rimproverava l’eccessiva ortodossia aristotelica, la prosasticità stilistica e alcune insistenze giudicate ridondanti (G.G. Trissino, La Sofonisba con note di T. Tasso...). Ancora Tasso, nei Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico non risparmiava critiche neppure al poema L’Italia liberata dai Goti: «il Trissino […] mentovato da pochi, letto da pochissimi, prezzato quasi da nissuno, muto nel teatro del mondo e morto alla luce degli uomini, sepolto a pena nelle librarie e nello studio d’alcun letterato se ne rimane», in Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico…, 23. La prima rivalutazione critica della So-fonisba si deve a Scipione Maffei nella sua Introduzione a Sofonisba, in Teatro italiano, ossia scelta di tragedie per l’uso della scena, Verona, Vallarsi, 1723, che la definì la prima tragedia regolare italiana e esempio di teatralità razionale, giudizio condiviso nel secolo dei Lumi da lettori non solo italiani, quali Girolamo Tiraboschi, Ranieri de’ Calzabigi, Vittorio Alfieri, ma anche stranieri (Voltaire, Œuvres complètes, Paris, Société Littéraire, 1785, tomo V). La fortuna dell’opera tornò a declinare nel corso dell’Ottocento che ne criticò la pedissequa imitazione della Poetica aristotelica e dei mo-delli greci, e la lentezza dell’azione, appesantita da una esorbitante dimensione verbale. Bisognerà superare la critica astiosa di De Sanctis (Storia della letteratura italiana) e l’incomprensione crociana (Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza, 1933) per trovare le prime meticolose analisi sul piano dello stile e la prima biografia curata da Bernardo Morsolin, che ritrasse Trissino come letterato politicamente e storicamente impegnato nel rapporto con le corti. Gli studi novecente-

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sino, infatti, soddisfa il bisogno autocelebrativo delle classi egemoni so-cialmente e politicamente, le quali sublimano proiettandole sulla scena le tensioni e i conflitti del tempo, neutralizzando qualsiasi spinta eversiva o polemica nei confronti degli assetti costituiti in una sfera idealistica e utopica di ricomposta pace. La Sofonisba nasce come risposta di un lette-rato vicentino cresciuto all’interno dei circoli umanistico-rinascimentali delle corti padane e toscane, amico e sodale dei poeti (Bembo, Rucellai, Castiglione) impegnati nella teorizzazione del perfetto cortigiano, nella individuazione della perfetta lingua letteraria, nel segno di una funzione di guida e di consiglio nei confronti delle istituzioni cortigiane. Trissino, in particolare, alimentò l’utopia dantesca e ghibellina di una concordia imperial-papale che avrebbe consentito alla pace in Italia di regnare, met-tendo fine a una lunga stagione di conflitti e guerre intestine. La tragedia, all’opposto della commedia che suscita il riso e fa parlare persone rozze e volgari, si offre come possibilità di ricomporre le fratture e le lacerazioni provocate da un potere cieco, ossequioso solo alla ragion di Stato, e di celebrare la virtù esemplare di una regalità al femminile, mirando all’am-maestramento e al diletto.

La morte di Sofonisba catalizza fin dall’inizio le traiettorie del tragico trissiniano per accamparsi al centro degli sguardi e delle emozioni degli spettatori. Ariani e, in anni più recenti, Ruggirello hanno molto insistito sulla funzione della tecnica drammatica della deissi e dell’ostensione ai fini della perfetta catarsi dello spettatore5. La scena, cioè, è costruita sulla base di una serie di riferimenti topografici, spaziali e temporali condivisi dagli spettatori perché la tragedia è aristotelicamente un genere alto-mi-metico. Dunque, il pubblico si identifica facilmente con le vicende di cui

schi si sono mossi tra i sondaggi stilistici (Flora e Sapegno) e quelli storici (Paratore) tesi a considerare i nessi che legano la Sofonisba e, in generale, il testo cinquecentesco alla contingenza politico-storica e geografica del suo tempo. Dopo l’ampia ricognizione sul teatro tragico ad opera di M. Ariani e R. Cremante negli anni Settanta, tra gli studi più recenti si ricordano G. Ferroni, La “Sofonisba”: un classicismo senza conflitto, in Convegno di studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza 31 marzo-1 aprile 1979, Vicenza Accademia Olimpica, 1980: 111-138; R. Barilli, Modernità del Trissino, in «Studi italiani», anno IX, fasc. 2, luglio-dicembre (1997): 27-60, V. Gallo, La Sofonisba di Trissino. Fondazione o riscrittura?, in «Ariel», a. XVII, 1, gennaio-aprile (2002): 67-103; B. Alfonzetti «Oh vani giuramenti!». Tragico ed eroico in Tasso e Trissino, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di G. Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002, 355-385.

5. M. Ariani, La Sofonisba, in Aa.Vv., Il Teatro italiano. II. La Tragedia del Cinquecento, t. I: XV-XXII e F. Ruggirello, L’“occulta virtù” del testo: deissi ed ostensione nel teatro tragico cinquecentesco, in «Italica», vol. 83, No. 2 (Summer, 2006): 216-237.

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sono protagonisti i personaggi della tragedia e proietta su di essi paure e emozioni profonde. La scena diventa così un doppio della realtà storica e, al contempo, consente al pubblico di proiettare fuori di sé le passioni proprie del tragico, quali compassione e paura.

La Tragedia, seconda Aristotele, è preposta a tutti gli altri poemi, per imita-re con suave sermone una virtuosa e perfetta actione, la quale habbia grandez-za; e come Polignoto antico pictore ne le opere sue imitando faceva e corpi di quello che erano migliori, e Pauson peggiori, così la Tragedia imitando fa e costumi migliori; […] la Tragedia muove compassione e tema, con le quali e con gli altri amaestramenti arreca diletto agli ascoltatori, et utilitate al vivere humano6.

Ribadita la superiorità della tragedia rispetto alla commedia, Trissino

riprende il dettato aristotelico nell’individuare la pietà e l’orrore come le due passioni tragiche per eccellenza e nel considerare la catarsi come il piacere (diletto) proprio del tragico e l’ammaestramento come l’utile che se ne ricava. L’esemplarità del comportamento di Sofonisba, in effet-ti, non può che indurre gli spettatori a identificarsi emotivamente con i princìpi da lei incarnati: integrità morale, fedeltà al giuramento, vocazio-ne martirologica. Il suo sacrificio sublima le tensioni tra le parti in con-trasto – Massinissa/Scipione, Siface/Massinissa – e stempera il conflitto nella proiezione della speranza di pace in un altrove, lontano dalla scena ma concretamente immaginato dagli spettatori7. La finalità pedagogica e didascalica dell’azione tragica trova conferma infatti nella perfetta ade-sione delle istanze eireniche e sublimanti del pubblico al modello di virtù rappresentato dall’exemplum della regina, perfetta eroina tragica model-lata sull’esempio dei classici antichi e moderni8. Spetta al Coro, porta-

6. G.G. Trissino, La Sofonisba..., Dedica a Leone X.7. M. Ariani, La Sofonisba…, XXI.8. L’argomento della tragedia è tratto da Livio (Ab Urbe condita, XXX, 12-15) e da Ap-

piano Alessandrino (Historia romana: Bellum Hispanicum 10-28) ma Trissino impiega anche Petrarca che aveva dedicato il V libro della sua Africa alle vicende romano-cartaginesi. Non pare, invece, che l’omonima tragedia in ottave di Galeotto del Carretto, scritta nel 1502, abbia esercitato alcuna influenza sull’opera di Trissino che sposta tutta l’attenzione sulla figura di Sofonisba, vera eroina tragica sul modello delle tante virtuose donne del Decameron IV. Per inciso, la diffusione del motivo boccacciano dell’eroismo muliebre è attestata non tanto casualmente, dal primo tentativo di tragedia regolare in volgare, il dramma in terzine Philostrato e Pamphila, di Antonio Cammelli sul finire del Quattrocento, e l’ultimo dramma, il Tancredi di Pomponio Torelli del 1597. G. Al-

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voce delle istanze morali dell’autore, lamentare la fallacia speranza dei mortali il cui accesso alle verità ultime è definitivamente negato:

La fallace speranza de’ mortali, a guisa d’onda in un superbo fiume, ora si vede, or par che si consume. […] E talor, quando il mar più si rinforza e men si spera, il suo furor s’acqueta, […] ché l’avenir ne la virtù divina è posto, il cui non cognito costume fa ’l nostro antiveder privo di lume9.

Lontani dalla colpa edipica per eccellenza, ovvero l’incesto, siamo di fronte al caso di un eroismo del sacrificio, proprio come la Ghismonda della prima novella del Decameron IV. Come l’eroina boccacciana, in-fatti, Sofonisba oppone le ragioni dell’amore a quelle diplomatiche del padre Asdrubale, che rispondono a opportunità politiche e strategico-militari. Egli, infatti, dopo averla promessa al magnanimo Massinissa, re dei Massuli, l’ha ceduta in moglie a Siface, re dei Numidi, per farselo alleato nel conflitto con i Romani10. Trissino scolpisce un personaggio femminile come campione di ogni virtù di fronte al quale i personaggi maschili scolorano pur manifestando un ineccepibile formalismo cor-tese e cristiano. Nel gioco di forze in campo, la virtù eccelsa e perfetta di Sofonisba trionfa sulle strategie diplomatiche e gli accordi di potere nei quali il pubblico cortigiano poteva vedere riflesso lo scenario politico dell’Italia delle corti. Da questo punto di vista, dunque, l’effetto catarti-co è pienamente riuscito: sul sacrificio di Sofonisba si concentrano tut-te le direttrici dell’azione tragica che, prive di una specifica autonomia drammaturgica, lasciano alla regina la funzione di catalizzatore tragico. Al conseguimento di tale effetto contribuiscono senz’altro la recitazione e la musicalità delle parti liriche ma soprattutto il suave sermone ovvero

fano, C. Gigante, E. Russo, Il Rinascimento. Un’introduzione al Cinquecento letterario italia-no, cap. VIII, Roma, Salerno editrice, 2016: 225.

9. G.G. Trissino, La Sofonisba, versi finali dell’ultimo Coro: 2101-2103.10. G.G. Trissino, Quinta Divisione della Poetica, in Trattati di poetica e di retorica del Cin-

quecento..., II, 31-32.

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un dettato linguistico-stilistico di forte sapore petrarchesco, lirico, che già ai primi lettori risultò appesantire molto la drammaturgia scenica. Si ricorderà che proprio nella Quinta Divisione Trissino scrive che la trage-dia deve muovere compassione e orrore soltanto per effetto di una buona legatura della favola:

Ma la propria dilettazione della tragedia viene dalle cose formidabili e mi-sericordiose. E quantunque queste due tali perturbazioni talora siano fatte dalla rappresentazione, molto più laudabile cosa è, e da miglior poeta, che vengano dalla constituzione della favola. La quale dee essere talmente consti-tuita che solamente a leggerla, senza vederla altrimenti rappresentare, muova orrore e misericordia per le cose che in essa sono accadute; il che suole avve-nire a ciascuno che legge la favola di Edipo e quella di Aiace e forse la nostra Sofonisba. Ma se tale misericordia e tema si muoverà dalla rappresentazione, sarà cosa di poco artificio del poeta11.

Il merito del poeta, dunque, consiste nella perfetta legatura della fa-

vola, nella capacità di legarla in nodi e viluppi, di scioglierla mutando la sorte dei personaggi da buona a cattiva e avviandola alla catastrofe finale. Le parole, il discorso, il piano retorico della lingua sono di pertinenza del poeta, il quale deve dimostrare di sapere legare e sciogliere i nodi della vicenda tragica con soave sermone e accorte sentenze, e senza intervento del deus ex-machina; deve il poeta rappresentare con la forza performa-tiva delle parole stesse e far sì che al solo leggerla la tragedia produca nel pubblico le passioni ricercate:

Dico che dee considerare che la tragedia che scrive debbia essere recitata, e veduti i gesti e uditi i sermoni e la melodia di essa. Laonde dee trattare la favola con parole belle et accomodate, e nel constituirla si de’ ponere ogni cosa avanti gli occhi e fare come se egli stesso fosse intervenuto in quelle azioni12.

A leggerle bene la Quinta e la Sesta Divisione della Poetica aristotelica sono stese allo scopo di giustificare sul piano teorico la poesia della Sofo-nisba del 152413. L’adesione ai princìpi aristotelici è pressocché totale: è

11. Ivi: 25.12. G.G. Trissino, La Quinta Divisione…, 31.13. La Quinta e la Sesta Divisione della Poetica furono composte trent’anni dopo la Sofonisba

e pubblicate postume nel 1562, dopo la prima traduzione italiana della Poetica aristotelica ad opera

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ribadita la natura imitativa della poesia e la superiorità di quella tragica, «il più nobile degli altri poemi, cioè che meglio asseguisce et adempie il fine e la intenzione della poesia»14. Come la poesia eroica quella tragica imita le azioni dei ‘migliori’ ed è divisa in sei parti delle quali la principale è la favola, che deve essere:

imitazione di una virtuosa e notabile azione che sia compiuta e grande, la quale imitazione si fa con sermone fatto suave e dolce, separatamente in al-cune parti di quella, et essa tragedia non per enunziazione ma per misericor-dia e per tema purga nei spettatori queste tali perturbazioni. Et il sermone fatto suave e dolce è quello dei cori, alli quali si richiede il canto e l’armonia; e dicendo “separatamente in alcune parti” si dinota che alcune parti si for-niscono solamente coi versi et ad alcun’altre si ricerca l’armonia e il canto15.

Trissino sceglie a modello tragico Sofocle e Euripide, alle cui opere affianca la propria, per qualità di esiti e princìpi costitutivi, rinunciando pertanto al modello senecano assai diffuso nel secondo Quattrocento e che sarà poi ripreso nell’Orbecche di Giraldi Cinzio. Il formidabile e non il mostruoso è pertinente al tragico ed è effetto proprio dell’arte poetica non dell’azione scenica riservata agli attori. Tra le sei parti costitutive della tragedia, (la favola, il costume, il discorso, le parole, la melodia, e la rappre-sentazione), la prima, anima e cuore del tragico, è la più importante.

Dopo avere precisato la differenza tra il racconto del poeta, che è ve-risimile, e quello dello storico che è vero, e avere ribadito che il fine della tragedia è muovere misericordia e orrore, Trissino passa a esaminare i tipi di favole che si possono sperimentare, favole semplici o mescolate, le pri-me caratterizzate da una e una sola azione che muta dalla felicità all’in-felicità senza peripezie e avventure, la seconda composta invece da molte peripezie e rivolgimenti di fortuna.

Ora, la Sofonisba è la traduzione pedissequa dei princìpi fin qui espo-sti, e soprattutto di quello che assegna il primato della poesia alla cura e elezione retorica del discorso, a detrimento, naturalmente, della sua tea-

di Bernardino Segni, e del primo commento di Francesco Robortello nel 1548. Cfr. M. Ariani, Il teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecento..., t. I: XV.

14. G.G. Trissino, La Quinta Divisione, in Trattati di poetica e di retorica del Cinquecento..., II: 9, 13.

15. Ivi:14-15.

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trabilità della sua rappresentabilità scenica. In effetti, la prima tragedia regolare è un’unica lunga favola indivisa e priva di Prologo separato, che si articola in duemila versi sciolti di endecasillabi e settenari variamente alternati ma non rimati in sedi fisse. Un’unica compatta favola nella qua-le si alternano i lunghi monologhi ora di Sofonisba ora dell’amato Mas-sinissa, ora di Scipione ora di Lelio ai dialoghi serrati tra questi e il Messo o tra Sofonisba e Erminia, e che affida alle parole sapientemente legate e variamente disposte, nel rispetto di una melodia, lenta e grave, il compito di esprimere sentimenti nascosti, aspirazioni e speranze profonde, nasco-sti terrori. La parola aspira a farsi azione essa stessa ma, così facendo, ine-vitabilmente smorza e attenua l’impetuosa violenza dei sensi e l’agitarsi confuso di forze occulte, che vengono rigettate nel profondo del cuore. Per quanto, infatti, il poeta la definisca una tragedia passionale, ovvero basata sull’effetto di misericordia e tema, tali e altre passioni restano nella Sofonisba occultate sotto una coltre di soave classicismo:

L’altra sarà la passionale, come è lo Aiace, la Sofonisba, e simili, e questa arà il suo stato dal discorso, perciò che da esso si preparano le passioni, cioè la misericordia e la tema e l’altre simili. Le quali però ancora dalle azioni si fanno, ma principalmente sono preparate dalli concetti e dal sermone e da l’artificio di quello16.

Concetti e sermoni sono dunque gli strumenti poetici adatti a susci-tare la passione tragica, come mostra in effetti l’incipit della Sofonisba af-

16. G.G. Trissino, La Quinta Divisione…, 28. A proposito della prevaricazione del discorso sulla rappresentazione tragica, e sulla essenza retorica dei personaggi trissiniani, cfr. G. Ferroni, La «Sofonisba»: un classicismo senza conflitti…, 111-138, il quale interpreta la levigatezza e soavità del classicismo retorico e linguistico della Sofonisba come prova della sua estraneità a una presunta vocazione polemica e politica: «se nella Sofonisba c’è una dimensione politica, essa è solo quella data dalla condizione ‘alta’ dei personaggi, dal livello ‘nobile’ e regale a cui tutti i personaggi della pièce si conformano»: 125. Di opinione diametralmente opposta è Ariani in Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 9-33, che dimostra l’intima politicità della prima tragedia in lingua volgare della letteratura italiana. Di analogo orientamento critico è anche Rena-to Barilli, in Modernità del Trissino…, il quale insiste molto sulla dicotomia tutta moderna tra il piano passionale e quello razionale, tra la retorica delle parole e l’intimità delle emozioni e inter-preta la tragedia all’insegna di una tendenza innovativa connaturata all’intera attività di Trissino, detto scrittore-politico impegnato in un progetto di profondo rinnovamento della cultura italiana rinascimentale, come dimostrano i suoi scritti linguistici, il poema e anche la tragedia perfettamen-te inserita, pur nella derivazione dai modelli tragici greci, nel quadro di una necessaria missione ‘politica’ e diplomatica dei letterati italiani per la conquista della pace universale.

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fidato alla risoluzione narrativa e non rappresentativa dei dubbi e delle angosce della eroina:

Lassa, dove poss’io voltar la lingua,se non là ’ve spinge il mio pensiero?Che giorno e notte sempre mi molesta.E come posso disfogare alquantoquesto grave dolor, ch ’l cuor m’ingombra,se non manifestando i miei martiri?I quali ad un ad un voglio narrarti17.

La narrazione, lo slittamento degli avvenimenti dal piano del reale a quello retorico del linguaggio, caratterizza il tragico trissiniano con l’esi-to di una drammaturgia statica e lenta e una esibizione della tradizione lirica petrarchesca fortemente presente e di lì un anno dominante sulla base della proposta bembesca. Non solo il Prologo riassume gli antefatti, come voleva la precettistica tragica, ma l’azione è veramente ridotta al minimo per lasciare campo alla egemonia di una dimensione del reale, quella retorico-verbale, che risulta prevaricante rispetto a quello referen-ziale della storia. In questa scelta Trissino rivela la propria visione della funzione della poesia tragica, la sublimazione e la purificazione di ogni aspetto concreto del reale nell’ordine ideale della sua rappresentazione artistica. Un piano discorsivo che opera come filtro e setaccio delle scorie della storia per lasciare solo spazio all’utopia di un idealismo classicista operante nella realtà delle corti rinascimentali italiane.

Esempi eloquenti della sovrapposizione dei verba alle res sono, tra i tanti possibili esempi, almeno due: la narrazione del sogno e quella del-la morte di Sofonisba, rispettivamente all’inizio e alla fine della tragedia quasi a volere incorniciare la favola in una dimensione soprannaturale, quella onirica (vv. 101-117) e quella per eccellenza oltremondana, costi-tuita dalla morte (vv. 1733-2103).

Il sogno è narrato da Sofonisba a conclusione del Prologo con cui ha riassunto l’antefatto e anticipato le cause della ruina che teme si possa abbattere su di lei. Il sogno profetico, come vuole la tradizione classica per i sogni sognati alle prime luci del giorno, corrobora il timore di una sven-tura imminente. Il topos del sogno profetico ha la funzione di anticipare

17. G.G. Trissino, La Sofonisba…, 1-7.

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proletticamente la parola tematica che agirà come una calamita per tutto lo svolgimento della favola tragica, ovvero la morte e i suoi sinonimi di colore negativo, ruina, sventura, Fato avverso. La regina sogna di trovarsi in una selva oscura inseguita da cani ringhiosi e di trovare salvezza grazie all’aiuto di un pastore che si rivela però anche artefice della sua morte perché, per sottrarla all’assalto delle bestie, la chiude all’interno di una spelonca dicendole: «“Poi che te salvar non posso, / entra costì, che non potran pigliarti” / E io v’entrai; così disparve il sonno / che m’ha lasciato, ohimè, troppo confusa»18.

Appresso, un duro sogno mi spaventa,ch’io vidi inanzi l’apparir de l’alba.Esser pareami in una selva oscura,circundata da cani e da pastori,che avean preso e legato il mio consorte;ond’io, temendo l’empio suo furore,mi volsi ad un pastor, pregando luiche da la rabbia lor mi difendesse;ed e’ pietoso aperse ambe le braccia,e mi raccolse; ma d’intorno udíoun sì fiero latrar che ebbe temenzache mi pigliassen fin dentr’al suo grembo19.

Nella sequenza narrativa tutte le immagini simboliche alludono alla colpa della regina, quella di aver ubbidito al sentimento d’amore sottra-endosi all’autorità paterna, colpa che ha scatenato l’empio furor del ti-ranno al quale Sofonisba si sottrae attraverso il volontario suicidio. La rete allusiva è debitrice delle figurazioni simboliche dantesche – per la selva oscura del peccato – e boccacciane – per il rimando ai casi tragici di donne virtuose che amano ignorando ragioni sociali e politiche.

Il sogno dunque preconizza in linguaggio allegorico la morte immi-nente che Sofonisba chiederà, in supplica all’amato Massinissa, di darle per evitare l’onta della servitù al nemico. L’anticipazione della morte, svolta sul piano discorsivo, è dislocata rispetto alla sua descrizione narra-tiva da un migliaio di versi interposti a ritardare quanto più possibile la

18. G.G. Trissino, La Sofonisba…, 114-117.19. Ivi: 101-112.

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fine, dell’eroina e della tragedia che in lei si identifica, coagulando attor-no alla sua morte tutte le altre direttrici tragiche (Massinissa, Scipione, Siface, la Nutrice).

La morte, non recitata in scena, è riferita dal Coro delle donne di Cir-ta a Massinissa accorso alla notizia del sacrificio dell’amata e, dunque, reduplicata sul piano retorico, che qui svolge la stessa funzione rappre-sentativa assunta dal sogno all’inizio della tragedia. Entrambi, la morte e il sogno, possono rivivere e durare solo se trasferiti sul piano del linguag-gio e resi eterni perché sottratti alla volubilità e alla caducità di ogni cosa mortale.

Analogo effetto ritardante rispetto all’incalzare degli avvenimenti è dato sul piano retorico della lingua dalle coppie di litoti, disposte a chia-smo, e dai raddoppiamenti lessicali che rallentano lo scioglimento dell’a-zione:

FamiglioRegina Sofonisba, a voi rapporto,contra mia voglia, pessime novelle.

SofonisbaO duro esordio, è vivo il mio consorte?

FamiglioMorto non è, né vo’ chiamarlo vivo.

SofonisbaChe cosa, è ferit’egli, o rotto il campo?

FamiglioIl campo è rotto, ed e’ non è ferito,ma preso è ne le man de’ suoi nimici

SofonisbaO sventurata me, che gran ruina;quest’è quel dí, che m’ha distrutta.Ma come rotto fu? Come fu preso? (vv. 247-256)

La formula della ripetizione lessicale, anche per litote, è marca stili-stica propria della Sofonisba, funzionale a un indugiare meditabondo che sospende l’azione, come accade anche al Coro:

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Che farò io? Debbio chiamar di fuore[…] O pur debbio aspettar che qualche sorte,qualch’altro caso a lei nel manifesti?[…] O meglio è non aver tanto rispetto? (vv. 185-218)

La centralità del discorso è testimoniata, come si diceva, dalla scelta di narrare l’antefatto per voce di Sofonisba (vv. 22-117), di far seguire quat-tro racconti ad opera del Famiglio su Siface prigioniero (vv. 256-288), del Messo sull’arrivo dei nemici (vv. 348-377), del Messo sul matrimonio di Sofonisba e Massinissa (vv. 780-866) e della Serva (vv. 1569-1591) e, infine, dal risalto dato alle sentenze e ai sermoni di Sofonisba, del Coro e degli altri personaggi20. Su questo punto, nella Quinta Divisione Trissino precisa che il poeta deve per prima cosa stendere i sermoni e poi inserir-vi gli episodi, pochi brevi e convenienti alla azione, «come sono ivi la venuta di Catone, et il parlar di Scipione con Siface, et il sacrificio di So-fonisba et altri simili, i quali sono pochi e brievi e convenientissimi»21. I discorsi, ovvero la dianea come la nomina Aristotele, devono essere presi dalla retorica per preparare il sermone a cui spetta argomentare, dimo-strare e muovere le passioni quali la pietà, l’ira, il terrore. Sia il discorso sia le azioni muovono le passioni, afferma dunque Trissino, ma è proprio del discorso muovere le passioni in modo conveniente, con decoro e con misura. Nella Sofonisba il poeta dà prova delle sue qualità nell’inventa-re, intrecciare la favola, nella scelta di un’eloquenza chiara e composta e di parole non umili né abiette, ma chiare e appropriate, all’occorrenza anche di metafore, lasciando la cura delle altre due parti, la melodia e la rappresentazione, rispettivamente ai Cori e alla gestualità degli attori22.

La morte, si è detto, è il fulcro prospettico della favola e del discorso tragico; essa occupa gli ultimi cinquecento versi ed è narrata per bocca della Serva (vv. 1569-1672), che riporta indirettamente anche le parole proferite dalla regina morente in lenti e solenni endecasillabi, cui rispon-

20. S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007: 95.21. G.G. Trissino, La Quinta Divisione della Poetica…, 32.22. Cfr. M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 55n,

sottolinea che nella diversità delle poetiche del tragico dei numerosi drammaturghi del Cinque-cento va visto il loro diverso orientamento ideologico e culturale nel momento del più forte sforzo speculativo e rifondativo di un genere così importante nello scenario artistico del secolo.

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dono i più concitati settenari nell’affollarsi di interrogative angosciose del Coro nelle quali risuona il dolore per la fallace speranza dei mortali, motivo che ritornerà nei versi finali della tragedia affidati non a caso nuo-vamente al Coro:

Quando arà mai riposoquesta infelice casa,ch’ognor s’empie d’affanni?Chi più le fia pietoso?Qual altra l’è rimasasperanza in tanti danni? (vv. 1692-1697)

Un topos tragico è poi quello della sontuosità delle funebri pompe commisurate all’altezza del personaggio: «E chi ben nasce deve, o l’o-norata / vita volere, o l’onorata morte»23 dove si noterà la simmetria dei due sintagmi, il primo dei quali è spezzato dall’enjambement. L’agonia della regina è protratta per un numero davvero considerevole di versi per-ché assume una centralità indiscussa nello svolgimento della favola tragi-ca: essa serve a sublimare nella sfera ideale di attese e proiezioni utopiche i conflitti e le tensioni terrene ed è talmente onorata e celebrata da indurre a ritenerla una condizione preferibile a quella mondana:

Megli’è cert’il morire,che ’l viver troppo. A che siam or condutte?Ohimè voi siete gita,e io qui sono. Oh misera mia vita. (vv. 1942-1945)

La vita nostra è come un bel tesoro,che spender non si deve in cosa vile,illustra tutta la passata vita.Né risparmiar ne l’onorate imprese:perché una bella e glorïosa morteillustra tutta la passata vita (vv. 334-339)

Come più avanti sarà ribadito – «E chi ben nasce deve, o l’onorata /

23. G.G. Trissino, La Sofonisba…, 1798-1800.

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vita volere, o l’onorata morte; / ond’io caduta in così basso luogo, / per non voler lasciar sí bella fine, / questa de l’opre mie sola t’ascosi» (vv. 1789-1793) – una bella e gloriosa morte è propria di nobili e re, getta lustro sulla vita passata, la rischiara e la nobilita; è questa la «risposta nobile e dignitosa» con le parole di Tasso lettore della Sofonisba, della regina che oppone il risentimento orgoglioso di un animo regale al rischio di una disonorevole servitù a gente aspra e proterva, e che invocando il padre («O padre, o caro padre, / ove m’avete posta») lamenta il capovol-gimento della fortuna, la fallacia di ogni speranza umana24.

Il tema del conflitto tra Virtù e Fortuna è non solo assai diffuso nella trattatistica del Cinquecento e nella poesia medievale e rinascimentale ma è anche riferimento proprio del tragico poiché, come scrive Trissino nella Quinta Divisione, «Le cose poi delle quali si ha misericordia sono quelle delle afflitte e dolorose che sono mortifere et exiziose, e tutti quei gran mali delli quali sia causa la fortuna»; la metafora naturalistica della Fortuna, come tempesta o come fiume o onda travolgente, è tematica-mente agganciata a quella della volubilità delle passioni terrene e alla fal-lacia della speranza, motivo con cui proprio la Sofonisba si chiude. Miseri-cordia e pietà, dunque, per chi è simile e prossimo allo spettatore ingenera l’immedesimazione necessaria alla catarsi, finalità del tragico secondo i dettami aristotelici25.

Come si ricorderà, Tasso annotava il ridicolo che l’anafora del la-mento di Erminia poteva rischiare di suggerire: «Tutti questi hoimei fano ridere, e non piangere, et il poeta, a mio giuditio avrebbe colpito nel segno se colla morte [di] Sofonisba avesse terminata la tragedia. Dopo uno scioglimento tanto terribile, qualunque aggiunta non può a meno

24. M. Lucignano Marchegiani, La «Sofonisba» con postille di Torquato Tasso, in «Ari-el», IV, n. 1/2, gennaio-agosto 1990: 137-195. Trissino nella Quinta Divisione…, 22-23, scrive a proposito: «La ricognizione adunque e la revoluzione sono due parti principali della favola, della quale la terza è la passione, che è un’azione mortifera e dolorosa perciò che ha morti manifeste e dolori e ferite e simili cose».

25. G.G. Trissino, La Quinta Divisione…, 35-37: «Vegniamo adunque alla misericordia, la quale è un dolore per causa di alcun male o ver che paia male che sia mortifero o doloroso, et incorra ad alcuno che non meriti di patirlo, il quale male si pensi che ancora a sé o vero ad alcuno dei suoi potesse intervenire; e questo fa specialmente quando si dimostra essere propinquo». Il poeta passa in rassegna le cose di cui si prova misericordia e, tra queste, la fortuna occupa un posto rilevante; si prova misericordia quando vediamo che ad altri avvengano tutte quelle cose che noi temiamo per noi stessi.

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di non riuscir languida, fredda et infievolire l’impressione de la scena»26. In effetti, è vero che la lunga sequenza della morte rischia di annoiare gli spettatori, dilatando eccessivamente il compianto, moltiplicato nei rac-conti della Serva, di Erminia, del Coro e di Massinissa27. Il rito funebre celebra al posto di quello nuziale il definitivo sacrificio regale. Vestita di candida veste, ornati gli altari di edere e di mirto, adorna le belle membra di preziose vesti, la regina così bella va incontro a un servitore di Massi-nissa che, per conto di questi, viene a portarle il vaso d’argento colmo di veleno (vv. 1581-1582, poi detto tazza, v. 1602, infine lucente vaso v. 1634), secondo le promesse che i due si sono scambiate. Quindi, posta-si sul letto, si congeda uno dopo l’altro dagli affetti più cari; è a questo punto che Tasso nota la tenera commozione che la regina suscita nel mo-mento in cui, rivolta al figlioletto, lo abbraccia dandogli l’estremo saluto (vv. 1650-1656) e ricordandogli che una vita riparata dalla conoscenza è dolce ma che un male privo di sofferenza è ugualmente grave. Nel Coro delle donne risuona il lamento contro la Fortuna impietosa che manda sventure aspre e pene dolorose su Sofonisba, «donna eletta/sola fra noi perfetta», e alla casa regnante. Quindi, rivolta alla amata Erminia, che si dispera invocando la morte e la sepoltura comune con Sofonisba, le affida il compito di fare da madre al figlioletto e da testimone della sua morte («ivi ai parenti miei tu narrerai»).

Tornano poi nelle parole di Erminia le immagini del sogno profetico, narrato da Sofonisba al principio della tragedia, quali per esempio il se-polcro corrispettivo della porta tombale con cui si era chiusa la caverna, rifugio eterno di Sofonisba; pertanto, il linguaggio onirico si determina come realtà parallela a quella della vita dove le due amate potranno un

26. M. Lucignano Marchegiani, La «Sofonisba» con postille di Torquato Tasso…, 192. Cfr. V. Gallo, La Sofonisba di Trissino. Fondazione o riscrittura?…, 71, sull’iconografia della bella morte nella Sofonisba, dove la ricerca di una morte esemplare spinge il poeta vicentino a riprendere una lunga tradizione letteraria, da Sofocle e Euripide, al Petrarca dei Trionfi e del Canzoniere, dal Boccaccio delle novelle tragiche all’autore del De claris mulieribus, fino al contemporaneo Galeotto del Carretto, autore di una Sofonisba, certamente nota a Trissino, che consegna «una figura forte-mente connotata, ricca di echi e suggestioni, potenzialmente ancora disponibile, forse a causa anche della “debolezza congenita”, a nuove riscritture», ivi, 71-74, 75n.

27. Dopo il lungo dialogo tra la regina e Erminia, la quale vorrebbe morire con lei, non sop-portando di esserne separata, finalmente, annota Tasso, la poesia ritorna a dimostrare quanto il poeta sia discepolo degli antichi e appaia pittore della natura, cfr. La Sofonisba con le postille di Torquato Tasso…, 191.

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giorno reincontrarsi e vivere insieme in eterno. Gli ultimi versi riservati al delirio della regina (vv. 1887-1915) sono intensamente poetici, come notò anche Tasso nelle sue postille, e intensificano il visionarismo qui cercato dal poeta per suggerire allo spettatore la presenza già nella mente della regina morente di un’altra realtà:

SofonisbaChe veggio qui? Che nuova gente è questa?

ErminiaOhimè infelice, che vedete voi?

SofonisbaNon vedete voi questo, che mi tira?Che fai? Dove mi meni? Io so ben dove.Lasciami pur, ch’io me ne vengo teco (vv. 1891-1895)28

L’allusione ossessiva alla morte come rinascita alla vera vita, l’im-portanza che il rito funebre assume nell’economia complessiva dell’o-pera (circa 500 versi sui complessivi 2000) confermano la centralità che la riflessione sulla morte eroica assume all’interno dell’etica delle corti rinascimentali. Si tratta di un motivo diffuso nella letteratura medie-vale, religiosa, morale, novellistica e, attraverso il filtro dei tragediogra-fi greci, anche nelle numerose riscritture tragiche del Cinquecento29.

28. Cfr. le osservazioni sulla tecnica della deissi e dell’ostensione di F. Ruggirello, L’“occulta virtù” del testo: deissi ed ostensione nel teatro tragico cinquecentesco...

29. V. Gallo, La Sofonisba di Trissino. Fondazione o riscrittura?…, 73-74: «La morte dun-que come gesto estetico, come estremo omaggio a un ideale a un tempo aristocratico e piagnone, soggetto a un canone sociale […] la morte si erige come baluardo a salvaguardia dell’onore, valore già cavalleresco ora riverberato dal fuoco dello soicismo e dell’ideologia nobiliare […] Trissino tro-va dunque nell’exemplum Sofonisba la risposta a una urgente e documentatissima riflessione intor-no alla morte testimoniata dalla manualistica e dalla trattatistica più o meno coeve». Si aggiunga anche la riflessione contestuale di M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 48: «la dolce ed estenuata consunzione della Regina, che verrà agìta sul palcosceni-co, contro ogni regola di attenuazione classica, oraziana. Attenuazione che comunque il Trissino persegue con altri mezzi, attraverso una ritualizzazione della morte, spogliata di ogni fremito di orrore, sfilata in litania immobile, in gesto prolungato di modulata eleganza: eros e scelta politica (il suicidio come sublime rifiuto della prepotenza romana) confluiscono in un rito, in una celebra-zione classico-rinascimentale, paganamente memore di antiche cerimonie rinnovate e risentite nel moderno costume del ben morire, prova di una cultura, come quella del Trissino, tutt’altro che avara nel sussumere, nel tessuto tragico, una più larga sensibilità sociale».

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La morte sublima, si è detto, e riscatta una vita piena di errori, colpe e dolore, riservata anche ‘ai migliori’ che si sono pur distinti in virtù e onori, e acquista un significato ancora più forte nel contesto culturale e filosofico delle corti italiane quattro-cinquecentesche pervase dalla ri-cerca di un ideale di Bellezza e di armonia spirituale che ben si sposava anche con le ansie di rinnovamento religioso degli Ordini religiosi, che predicavano il ritorno della Chiesa al suo primitivo spirito evangelico alimentando paure millenaristiche per giustificare la rinuncia ai beni terreni e la proiezione ascetica in una pace oltremondana eterna («vita che fugge / fuggitiva gioia / sventurata altezza contro la disïata pace / la rinascita dal ben morire»).

Sotto il velo di un apparente controllo razionale delle passioni, in re-altà, la tragedia di Trissino mette in campo sentimenti conflittuali che si agitano provocando perturbazione negli animi della protagonista. A Erminia che le consiglia di sopportare con generoso cuore i colpi della sventura (v. 165), Sofonisba risponde che non può, ben sapendo che sa-rebbe giusto farlo:

Ben conosch’ io che quellosi deverebbe far che tu ragioni,ma ’l soverchio dolor troppo mi sforza;e’l senso, ch’è rubellode le più salde e ottime ragionisubitamente il lor volere ammorza (vv. 168-171)

Sensi e ragione sono qui contrapposti e separati dall’avversativa che con forza li divarica, facendo intuire due piani contrapposti dell’azione tragica, l’uno quello sensualmente e teneramente erotico del dialogo con Massinissa e con il figlioletto30, l’altro quello razionale esemplificato da Massinissa, che articola e argomenta a Scipione con forza suasoria le pro-prie ragioni. Dal conflitto tra i due linguaggi deriva un sommovimento appena percepibile sul piano della costruzione verbale e che invece dilania violentemente il cuore della regina, increspa appena il lento andamento degli endecasillabi, emerge a tratti nelle concitate sequenze dialogate o

30. G.G. Trissino, La Sofonisba…, 1657-1660: «E detto questo, se lo strinse al petto, / e lo basciò teneramente in fronte. / E mentre ciò facea, la bella faccia / di rugiadose lacrime bagnava».

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nei fitti interrogativi intimi che straziano il suo cuore spingendola alla morte. Il piano emozionale dei sensi si direbbe trattenuto dal severo con-trollo di una logica, quella dominante regale e cortese, che agisce come censura etica nei confronti delle scomposte emozioni rimandando all’ol-tre dopo la morte l’estrema speranza di eterna pace31. Non siamo ancora alla fitta serie di interrogativi dilemmatici di Alvida nel Torrismondo, che rivelano il tormento e l’angosciosa paura che la attraversa, ma se ne avverte trattenuta l’eco lontana:

Oh che felice statoè il tuo; che quello i’ chiamo esser felice,che vive quieto senz’alcuna altezza;e meno assai beatoè l’esser di coloro, a cui non licefar, se non come vuole la loro grandezza (vv. 134-139)

L’appartenere a una stirpe regale impone un’etica che premette l’O-nore al Piacere, esattamente al contrario dell’esaltazione libera e spensie-rata dell’amore cantato nelle pastorali e nelle favole boscherecce. Il tragi-co infatti scaturisce dall’inconciliabilità tra l’Onore e la Virtù, sebbene in questo caso il sacrificio rituale di Sofonisba serva proprio a ricomporre la frattura e a ripristinare la pace tra i regni. Alla sentenza della regina ri-sponde quella di segno uguale del Coro, che lamenta la fallacia della gioia dei mortali che fa apparire quasi preferibile la morte:

O fuggitiva gioia,o speme, sogno de la gente desta,quanto, quanto molestapare a’ mortali vostra dipartenza,quanto meglio saría viverne senza (vv. 206-210)

I circa duecento versi che comprendono il dialogo tra la regina e l’a-mato Massinissa, giudicati prosastici e non poetici da Tasso, sono in ef-fetti un pezzo di bravura oratoria. La preghiera è svolta con parole suavi

31. Cfr. M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento...; R. Ba-rilli, Modernità del Trissino...

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L’esequie sontuose e belle di Sofonisba

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e dolci, nelle quali risuonano echi petrarcheschi («meco medesma mi vergogno») e che fanno perno sul rifiuto categorico («vergogna e stra-zio, intolerabil danno; / cosa ch’è da fuggir più che la morte») di poter divenire da regina serva di un popolo arrogante, orazione alla quale il re dei Massuli risponde con pari decoro e solennità («il vostro ragionar sua-ve»), intrecciando moduli danteschi a echi virgiliani («Regina, i’ non vo’ dir gli oltraggi e l’onte / che Siface mi fe’ molti e molt’anni, / per non rinovellar vecchio dolore»). Nel dialogo tra i due trascorre un erotismo appena accennato da discreti segnali quali l’abbraccio delle ginocchia del re e il bacio della sua regale mano:

Signore, il vostro ragionar suaveche dimostra di me qualche pietate,mi desta dentro al cuore molta speranza.E però quinci prendo tale ardireche, lasciando da parte ogni paura,io parlerò con voi sicuramente; (vv. 464-469)

«Gli ardenti e graziosi prieghi» di Sofonisba penetrano nel cuore gentile e cortese di Massinissa, la cui etica di comportamento rispecchia quella di un cavaliere cristiano, che accorre in aiuto dei più deboli e che onora il nome di Dio nel compiere azioni buone e giuste:

MassinissaTalora è buono aver molti rispetti,e talor si richiede essere audace.[…]Io so per me, che son di tal natura,che non m’allegro mai de l’altrui male,e volentieri aiuto ognun ch’è oppresso:perché null’altra cosa ci può faretanto simili a Dio, quanto ci rendeil dar salute a gli omini mortali (vv. 518-527)

La coppia regale si configura, dunque, come il prototipo di ogni ec-cellenza e di ogni virtù, onorata bellezza, decoro e cortesia, soavità e dol-cezza di eloquio e di comportamento, nel rispetto ossequioso del canone tragico, che imita le azioni nobili, ma anche secondo la celebrazione che

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La morte tragica nel Cinquecento

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Trissino svolge di un orizzonte di valori cristiano-cortesi32. Per trecento versi, ancora una volta, l’azione è sospesa a tutto vantaggio di un sommes-so e intimo dialogo tra i due sposi che si scambiano le promesse estreme:

Sofonisbai’ pregherò quel Dio, che su dal cielorisguarda e cura l’opere mortali,che ’n vece mia, per questa sí bell’opra,vi renda degno e onorato merto.

MassinissaAltro merto non vo’, però che ’l benesolo si deve far perch’egli è bene,il quale è ’l fin di tutte l’opre umane. (vv. 572-579)

Sofonisba rappresenta il modello di una sovranità esemplare, disposta nobilmente al sacrificio estremo della vita pur di salvare un ideale di con-cordia universale sognato da Trissino e perseguito sia attraverso la atti-vità diplomatico-politica sia attraverso quella di letterato favorevole, per esempio, alla adozione del volgare come lingua letteraria in segno di un interesse per il rinnovamento della cultura del Cinquecento33.

Sul cupo sfondo di guerre e conflitti sanguinosi, il tragico trissiniano propone una riflessione sulla protervia dispotica del potere e sull’utopia di una ricomposta pace, costata il nobile sacrificio di una regina virtuosa. La grazia, la gentilezza e il decoro di Sofonisba sono contrapposte alla fera bestialità di chi non rispetta onestà e cortesia cioè i valori di una società neofeudale quale ambiva ad essere quella nobile delle corti cinquecente-sche.

Accanto a queste virtù Trissino ne pone una di capitale importan-

32. Cfr. G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1967 e Id., Il rinascimento dei moderni (nuova edizione), Bologna, il Mulino, 2016; C. Dionisotti, Geogra-fia e atoria della letteratura italiana (1967), Torino, Einaudi, 1999.

33. Cfr. V. Gallo, La Sofonisba di Trissino. Fondazione o riscrittura?…, 77, la quale propone di interpretare il tema del sacrificio di Sofonisba in chiave cristologica: «Tutto ciò può spiegare l’originalità e pressoché l’unicità della modulazione trissiniana della morte tragica, decesso non cruento (e cruento sarà pressoché sempre a partire dal Rucellai il pathos, cioè l’evento luttuoso), composto secondo un canone estetico della dulcedo: la Sofonisba mentre anela a diventare exem-plum morale e estetico, realizza quell’arte del ben morire così centrale nella cultura cinquecente-sca».

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L’esequie sontuose e belle di Sofonisba

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za nell’universo cortigiano nel quale egli stesso si ritrova a operare, la Prudenza, alleata della Ragione e della Temperanza. La trattatistica sul comportamento del cortigiano di lì a qualche anno avrebbe delineato la precettistica del perfetto uomo di corte, della quale nella tragedia trovia-mo una utile esemplificazione nel discorso suasorio di Lelio, messo del comandante romano Scipione:

LelioSo ben che siete tal, che omai v’è notoche non è ben alcun sopra la terra,che tanto util ci sia, quant’è il sapere;e che non si dee avere alcun per saggio,se non è saggio ancora a se medesmo.Considerate adunque fra voi stessoquel che or avete fatto (deponendola passïon però prima da canto,perch’ella inganna spesso la prudenzia) (vv. 940-948)

Il discorso di Lelio fa leva sulla virtù razionale della conoscenza di sé, della saggezza, contraria alla passione. In nome della capacità socratica di conoscere se stessi, Lelio esorta Massinissa a fare un passo indietro resti-tuendo Sofonisba ai romani come vuole la legge del Senato. Si appella alla Prudenza e alla Ragione, nemiche dell’impulsività e dell’istinto e, per-tanto, ottime qualità del cortigiano che esercita la propria attività diplo-matica e strategica affiancando il Principe a corte34. Le agitate passioni, spesso ingannevoli, devono dunque essere rimosse dalla scena regale per lasciare spazio al ragionamento, alla parola, ai discorsi ben ponderati, alle strategie35.

34. L’elogio della Prudenza, svolto ai vv. 870-872: «Costui, che ci parea tanto prudente, / or è caduto in periglioso errore / per la vittorïosa sua ventura» ricorda molto da vicino il ritratto di Isabella d’Este come dama a cui conviene ogni virtù: «Quinci venendo a le virtù, le quali sono i beni maggiori de l’anima, e questa essendo di tre parti, secondo il divino Platone, e de la parte razionale la Prudenza essere la virtù dicendo, e de la irascibile parte la Mansuetudine, e la Fortezza, de la concupiscibile poi la Temperanza e la Continenza, e di tutta l’anima insieme la Giustizia, la Liberalità e la Magnanimità ponendo, per ciascuna di queste virtù uno ritratto vi farò» cfr. G.G. Trissino, Opere, a cura di S. Maffei, Vallarsi, Verona, 1729, t. II, citato in M. Ariani, Tra Classi-cismo e Manierismo. Il teatro tagico del Cinquecento…, 26-27.

35. Il monito rivolto da Lelio a Massinissa, Considerate adunque fra voi stesso, chiama in causa proprio il verbo dantesco di Inf., XXVI, 118 usato nella celebra orazione di Ulisse ai compagni,

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La morte tragica nel Cinquecento

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È evidente il ricorso alle qualità retoriche e diplomatiche del perfetto uomo di corte, che ha sostituito la strategia militare con quella discorsiva della parola che organizza e configura i nuovi scenari politici del tempo. In un’epoca nella quale ormai gli eserciti hanno ridisegnato i confini na-zionali e le geografie politiche europee, alle corti italiane non resta che realizzare sul piano della retorica il perimetro delle proprie sfere di azione e di influenza. Ecco perché la Sofonisba di Trissino punta tutto sull’effet-to provocato da un savio uso del ragionamento, della parola che è, nella forza persuasiva e negli effetti pragmatici, azione vera e propria. Le pre-ghiere di Sofonisba a Massinissa mirano a convincerlo ad agire secondo le volontà dell’amata, il Coro incalza affinché a tali parole non si possa negare l’assenso, e tutta l’azione tragica si riduce alla sola dialettica tra i personaggi. La morte stessa, che è sì parola tematica del tragico ma che nella Sofonisba sembra coincidere interamente con l’azione drammatica, neutralizzandola, coagula attorno a sé ogni possibile dinamica centrifuga accampandosi da protagonista unica.

Si può allora parlare di parola che agisce, di tragico che si risolve nella dinamica discorsiva predominante. Ce lo ricorda lo stesso Trissino quan-do nella Quinta e Sesta Divisione sottolinea la differenza tra la parola tra-gica e quella epica: «E poi la tragedia ancora si potrebbe fare senza quei moti come si fa lo eroico, perciò che solamente col leggerla farebbe mani-festo ciò ch’ella si fosse»36.

Campione di virtù e di capacità oratorie è anche Massinissa, il cui ser-mone (vv. 969-1020) rivolto a Lelio è articolato in sentenze, dimostrazio-ni, argomentazioni, mozioni di affetto, quali misericordia e pietà, e in una precisa elencazione di virtù morali:

Considerate la vostra semenza, dove a essere rilevata è la componente umana della dignità e della nobiltà come esseri pensanti e ragionevoli, contrariamente alla brutalità degli altri animali. Altro tassello del mosaico di citazioni dantesche e petrarchesche.

36. G.G. Trissino, La Sesta Divisione, in Aa.Vv., Trattati di poetica e di retorica del Cinque-cento, II: 55. La rappresentabilità scenica della tragedia si scontrava con l’equilibrio non sempre riuscito tra parti narrative, monologhi e dialoghi tra gli attori, ossia tra narrazione e azione, l’una propria dell’epico eroico l’altra del tragico. Dalla Sofonisba al Torrismondo si osserva un progressi-vo slittamento verso una mescidazione più riuscita tra le due componenti, resa ancora più organica-mente coesa dalla riduzione dei monologhi e delle parti narrative, decisamente ampie ed estese nella Sofonisba, e la diffrazione in una molteplicità di punti di vista della cronaca degli eventi. Su questi aspetti, tra gli altri, cfr. S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro…, 92-103.

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L’esequie sontuose e belle di Sofonisba

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Or l’ho riavuta, ben con vostro aiuto,e di ciò ve ne son molto obligatoe sarò sempre mai mentre ch’io viva,perché la grazia parturir dee grazia,e chi non si ricorda il beneficio,è ben di spirto e di natura vile (vv. 996-1001)37

Nella cornice virtuosa delle qualità che garantiscono al principe gloria ed eccellenza figura anche la Temperanza, naturalmente, che smorza la violenza delle passioni e si qualifica come arma più vantaggiosa di mille eserciti:

Crediate a me, ch’a l’età nostra sonole sparse voluttà, che abbian d’intorno,di più periglio che i nimici armati,e chi con temperanzia le raffrenae doma, si può dir che acquista gloriamolto maggior che non s’acquista d’arme. (vv. 1285-1290)

Il saggio invito del comandante romano, Scipione, a seguire la Tem-peranza che doma il cupido disío provoca la risposta di Massinissa che si difende, giustificando la scelta di rapire Sofonisba a Siface come legittima azione motivata non da incontinenza ma dalla pietà per la regina e forse dal non sapere di stare per commettere un errore. L’etica cristiano-cor-tese ammette, pertanto, di perdonare chi non si è macchiato di colpe ma di un errore:

Ma i benefici miei possano tanto,che l’error di costei si le perdoni,

37. Il discorso suasorio del re dei Massuli si appella al buon uso di ricambiare il beneficio ri-cevuto con un sentimento di obbligo morale che lega il beneficato al benefattore. Il catalogo delle virtù che connotano il buon cristiano e il buon uomo di corte è esemplato sul canone morale di sapore stoico e poi cristiano, e rivela l’ampia circolazione del pensiero filosofico di autori come il Seneca del De Beneficiis, inserendosi nella corrente di pensiero neoplatonica ficiniana assai diffusa lungo tutto il Cinquecento. La Sofonisba sembra attraversata da un’aspirazione fortissima al so-gno di pace universalistico che si rispecchia nelle scelte culturali del suo autore, fondatore di un classicismo che ha le radici nei classici antichi e moderni ma che si protende con lo sguardo verso prospettive di rinascita e di ricostruzione civile e morale.

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La morte tragica nel Cinquecento

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se mai fatto v’avesse alcuna offesa.Ché ben conviensi per amor d’un buonoperdonare ad un reo, ma non si devepunire un buon per il peccare altrui. (vv. 1355-1360)

Il discorso di Scipione (vv. 1272-1308) possiede tutte le parti di un sermone suasorio: dimostrazione, scioglimenti, mozione degli affetti. All’incipit gnomico, che mira a rafforzare la fiducia e la stima dell’antico amico, Siface, ora prigioniero «Signore, io penso che null’altra cosa, / che ’l conoscere in me qualche virtute, / v’inducesse da prima a pormi amore» segue la seconda massima virtuosa con la quale il comandante romano individua la Temperanza quale virtù massimamente necessaria per contenere i pensieri libidinosi e le sparse voluttà. Anche il suo elo-quio, come quello di Scipione e degli altri personaggi, è un parlare per litoti e inversioni e chiasmi che rappresentano sul piano del linguaggio un movimento centripeto, ravvolgente e spiraliforme che non scioglie progressivamente l’azione ma la riavvolge strettamente al suo necessitato epilogo, la morte dell’eroina tragica.

In questo clima di celebrazione della morale cristiana, l’Amore ha un posto di assoluto rilievo; lodato è il dio possente che vince ogni altro sentimento umano, abbassa l’arroganza degli dei e fa sentire il proprio influsso su tutto il creato38. Nelle stanze petrarchesche del Coro, l’Amore è celebrato come l’unica forza che può superare la morte (in rima con sorte, vv. 1468-1469) e il dolore:

Ahimè quanto dolor, quanti martiriarà la donna mia, se questo è vero:so che più volte chiamerà la morte.Oh dolorosa sortedi chi possiede un mal fondato impero.Ma tu, possente Amor, che hai prese e arsequell’anime gentil, non le lasciaresenza ’l tuo aiuto; (vv. 1466-1473)

38. Cfr. Aa.Vv., Le Filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli, Milano, Bruno Mondadori, 2002.

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L’esequie sontuose e belle di Sofonisba

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Al Coro è affidato l’epilogo della tragedia che riassume il senso tragico della favola, i mortali non possono nutrire speranza per l’avvenire perché essa è fallace e mutevole e perché il disegno del futuro è racchiuso nella mente di Dio e sconosciuto ai mortali: «La speranza di quel che non si deve / è spesso la ruina dei mortali» (vv. 936-937):

CoroLa fallace speranza de’ mortali,a guisa d’onda in un superbo fiume,ora si vede, or par che si consume.Spesse fïate, quando ha maggior forza,e ch’ogni cosa par tranquilla e lieta,il ciel ne manda giù qualche ruina.E talor, quando il mar più si rinforzae men si spera, il suo furor s’acqueta,e resta in tremolar l’onda marina;ché l’avenir ne la virtù divinaè posto, il cui cognito costumefa ’l nostro antiveder privo di lume. (vv. 2092-2103)

La fugacità delle cose terrene, richiamata dalla metafora dell’onda di un fiume che ora cresce ora si placa, riporta alla mente il lessico machia-velliano e il suo sistema di metafore per indicare la Fortuna, volubile, im-petuosa e incontrollabile. La rapida scansione di endecasillabi («ora si vede, or par che si consume», v. 2094), il ripetuto troncamento sillabico («par, or, talor, men, avenir, furor, antiveder, tremolar»), riproducono mimeticamente il crescere e il ritirarsi dell’onda marina, movimento alta-lenante icasticamente evocato dal dantesco tremolar della marina (Purg., I, v. 117). La metafora della Fortuna come fiume impetuoso, la cui onda quando pare che tutto sia tranquillo, all’improvviso, travolge ogni cosa e la fa ruinare, riporta la mente del lettore al XXV capitolo del Principe di Machiavelli, autore molto caro e presente nella biblioteca di Trissino insieme a Dante39.

39. Sul rapporto di Trissino con il pensiero politico e storiografico di Machiavelli si vedano le osservazioni svolte da V. Gallo, La Sofonisba di Trissino. Fondazione o riscrittura?…, 81-82 e sgg. Come si è ricordato, a Firenze nel 1513 Trissino partecipò alle discussioni degli Orti Oricel-lari dove era maturata la proposta di un classicismo in volgare che comportasse la modellizzazione dell’antico in una concezione progressista della storia. La scelta del volgare, da questo punto di

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La morte tragica nel Cinquecento

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La mutazione di fortuna è il movente che fa scattare la peripezia che nella Poetica (1452a) è definita «il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario» e, aggiunge Trissino, il capovolgimento dalla felicità all’infe-licità che provoca compassione commisurata alla grandezza delle azioni rappresentate:

Le cose delle quali si ha misericordia sono quelle delle afflitte e dolorose che sono mortifere et exiziose, e tutti quei gran mali delli quali sia causa la for-tuna. Le cose poi che sono dolorose et exiziose sono le morti, le battiture, le afflizioni del corpo, com’è la vecchiezza, le infermità, l’aver bisogno delle cose necessarie per nutrirsi. I mali poi delli quali è causa la fortuna sono il non aver nuno amico o l’averne pochissimi […] Muove ancora pietà quando all’uomo che abbia violentemente patito viene alcun bene quando egli è morto40.

Pertanto, l’insistenza sulla precarietà della condizione umana e sul ra-pido mutamento della felicità in doglia è costante e diffusa in tutta l’opera:

ché ’n questa vita il dolce alcuna voltasi face amaro, e poi ritorna dolce (vv. 965-967)

[…] tal gloria è debile, e fallace. (v. 142)

Questa vita mortalenon si può trappassar senza dolore;ché così piacque a la giustizia eterna.Né sciolta d’ogni maledel bel ventre materno usciste fuore,ché ’n stato buono o reo nessun s’eterna (vv. 150-155)

vista, era in linea con una politica culturale innovativa e attenta alle vicende contemporanee, oltre a rivelare il filodantismo di Trissino. È noto come il pensiero storiografico e politico del Machiavelli del Discorso sopra la prima deca di Tito Livio fosse determinante per gli orientamenti della cultura italiana del primo Cinquecento, e che Il Principe sta alla base del pensiero politico del Seicento (cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli, I, Il pensiero politico, Bologna, il Mulino, 1993). Ruina è parola tematica del tragico che compare nella Sofonisba già molti versi prima in riferimento a speranza, vv. 936-937: «La speranza di quel che non si deve/è spesso la ruina de’ mortali». Si veda a proposito di alcune parole chiave del tragico e dell’epico B. Alfonzetti, «Oh vani giuramenti!». Tragico ed eroico in Tasso e Trissino, in Sylva. Studi in onosre di Nino Borsellino…, 355-835.

40. G.G. Trissino, La Quinta Divisione della Poetica…, 36-37.

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L’esequie sontuose e belle di Sofonisba

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O sorte, sorte amara,che mai non si rindolce,o fallaci diletti, o mal protervi. (vv. 1956-1958)

ché tutti che viven sopra la terra,non siamo altro però che polve et ombra (vv. 1166-1167)

da gran signor, che fu sí riccodi tesoro e di gente: or in un giornosi truova esser prigion, menidoco e servo (vv. 1231-1233)

Questa amara consapevolezza tiene avvinta Sofonisba, sventurata e infelice, che lega il proprio amaro destino al «duro sogno, o visione» che le ha figurato il destino di morte:

Qual trista piangería, se non piang’io? Che ’n così brieve tempo ogni allegrezza mia s’è volta in doglia. Turbato è ’l mare, e mosso un vento rio, pur troppo, ohimè, per tempo, che la mia nave disarmata iscoglia. Deh foss’io morta in fasce, che ben morendo quasi si rinasce (vv. 302-309)

Tuttavia, anche Scipione, saggio e fedele alle regole imposte da patti e giuramenti militari, esclama: «Ben quanto è più il favor de la Fortuna,/tant’è più da temer che non si volga:/ché non fu alcun giamai sì caro a Dio,/che vivesse sicuro un giorno solo» (vv. 1171-1174).

La sentenza con cui la regina sintetizza il senso della vita mortale è il segno del capovolgimento di valore tra la vita e la morte, se è vero che una buona e glorïosa morte corrisponde quasi a una rinascita. Le esequie son-tuose e belle sono dunque un rito sì di passaggio ma alla vita eterna, dove la sposa di Massinissa potrà ricongiungersi ai suoi cari per l’eternità, e sono anche un rito funzionale alla ricomposizione della disïata pace universale, agognata da tutti i personaggi tragici della Sofonisba e finalmente ottenu-ta grazie al sacrificio della regina.

Gli esempi citati mostrano il peso di un’eloquenza a tratti declama-

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La morte tragica nel Cinquecento

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toria, razionalmente controllata, che lascia poco o nessuno spazio alla gestualità e alla manifestazione scomposta dei sentimenti41. Quando si giungerà alla fine del secolo, con il Torrismondo di Tasso, la compattezza di un modello tragico quale la Sofinisba rappresenta, risolto nel sacrificio rituale della bella e savia regina e nella condanna di una regalità proterva e dispotica, si sfalda e si scompone per accogliere le tensioni irrisolte e i conflitti drammatici non solo di un poeta ma di tutta un’epoca che si era aperta con la Controriforma e sul finire del XVI secolo preannunciava già le distonie e i giochi bizzarri del gusto barocco.

Nel conflitto delle interpretazioni, tra accuse di freddo raziocinio e di eccesso di verbosità, la Sofonisba però mostra tutti i segni dell’avan-guardismo letterario che accomuna il Vicentino a una cerchia di sodali, Bembo, Rucellai, Sadoleto, Castiglione, Bibbiena, con i quali condivide il programma di rinnovamento della cultura italiana del primo Cinquecen-to. Nonostante, infatti, la prosasticità di tante parti affidate alle lunghe sequenze monologanti dei personaggi, e l’altrettanto evidente squilibrio tra queste e i Cori, decisamente lirici e soavi, tuttavia non si può disco-noscere alla Sofonisba il merito di avere posto molte tra le principali que-stioni discusse sulla forma del tragico che, diversamente dal modo epico, doveva misurarsi con l’oggettiva teatrabilità della favola. Nell’affrontare tali sfide e nel tentare soluzioni sperimentali, l’opera di Trissino va inseri-ta nel quadro di un generale e ampio intervento di una cerchia di letterati impegnati nel sogno universalistico di pace, una pace utopica e dunque raggiungibile soltanto in una morte gloriosa e bella.

41. Molti critici, tra i quali anche L. Bottoni, Il Teatro del Rinascimento, in Storia generale della Letteratura italiana, V, a cura di W. Pedullà e N. Borsellino, Milano, Motta Editore, 1999: 27-166, (99-100), riferiscono la compostezza e il ‘calcolato raziocinio’ dell’azione teatrale a un eccesso di letterarietà della Sofonisba, come mostrano calchi virgiliano-danteschi, petrarcheschi so-prattutto nei momenti di maggiore effusività lirica dei Cori, e anche sofoclei.

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Capitolo IIIAhi lagrime, ahi dolore!

L’esperienza tragica del Torrismondo di Tasso

Dedicata a Vincenzo Gonzaga, acclamato da Torquato Tasso come suo liberatore, la tragedia Il Re Torrismondo fu stampata all’insaputa dell’autore nel 1587 e non raccolse molto entusiasmo di pubblico1. Dopo le dodici ristampe del 1587 della prima e della seconda edizione riveduta, apparse a Bergamo per Comino Ventura, ed altre tre risalenti al 1588-89, la tragedia perse consenso da parte di un pubblico ‘dal gusto isvogliato’ e sempre più attratto dai nuovi generi del XVII, il melodramma e la tra-gicommedia2. Dopo un discreto apprezzamento nel Settecento, il gradi-mento del Torrismondo tornò ad essere molto basso3. L’insensibilità della scuola storica toccò i vertici con Carducci che non apprezzò la tragedia (‘non un portento’), rimproverandole l’eccesso di verbosità e la ‘retorica degli impossibili’, imputabile alla presunta infermità del poeta4. A ecce-

1. Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova, nel 1579 visita Tasso a Sant’Anna dove era stato rinchiuso nello stesso anno e lo prende sotto la propria protezione.

2. Nel 1582 esce l’edizione dell’abbozzo, seguita nel 1587 dalla princeps bergamasca e da una seconda edizione in ottavo sotto il controllo di Tasso; tra il 1587 e il 1588 si ebbero 14 edizioni, segno di un immediato e straordinario successo dell’opera, tra le quali la Osanna di Mantova, la Cagnacini di Ferrara e la Bartoli di Genova che riportano alcune delle numerose varianti inserite da Tasso o a postillati della princeps o a interfoliati della stessa. Sebbene queste stampe provengano da centri di sicura frequentazione tassiana, scrive Martignone, non si è sicuri della loro fedeltà alla volontà del poeta che continua a dichiararsi deluso e scontento delle stampe eseguite lontano dalla sua supervisione: «l’ipotesi più plausibile resta quella che il Tasso abbia fornito esemplari corretti del testo corretti in modo parziale e frettoloso (tale è appunto la fisionomia testuale del postillato autografo di Bergamo), senza seguire e tantomeno approvare le ristampe che li utilizzarono di-sinvoltamente» V. Martignone, Nota al Testo, in T. Tasso, Il Re Torrismondo, a cura di V. Martignone, Fondazione Pietro Bembo, Parma, Guanda editore, 1993: XXXVI.

3. Le ristampe nel primo Seicento furono ben dodici e al 1636 è datata una traduzione in francese, Le Torrismon du Tasse. Tragedie du sieur Dalibray, Paris, Denis Houssaye. Pure ai primi del secolo, al 1618, risale la rappresentazione al Teatro Olimpico di Vicenza e un’altra al Teatro San Luca di Venezia. Il gusto settecentesco premiò l’opera con l’apprezzamento di Crescimbeni nella Istoria della volgar poesia, tomo II, Venezia, Basegio, 1730 e dello stesso Tiraboschi, («ha luogo a ragione tra le migliori tragedie» del Cinquecento) in Storia della letteratura italiana, tomo VII, Modena, Società tipografica, 1792: 1292-1293.

4. G. Carducci, Il Torrismondo, in Id., Opere, XIV, Bologna, Zanichelli, 1942. Per la

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La morte tragica nel Cinquecento

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zione di Umberto Renda che ai primi del nuovo secolo non solo ritenne il Torrismondo un’opera di eccezionale valore ma per primo escluse l’ince-sto dalle cause del suicidio dei due protagonisti, la scuola storica giudicò la tragedia di Tasso indigesta5. In generale, il confronto con il successo dell’Aminta non dovette favorire un’obiettiva valutazione critica dell’o-pera che per tutto il Novecento subì fortune alterne. L’interesse riprese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando alle prime ana-lisi filologiche fecero seguito il giudizio svalutativo di Donadoni (1967), quello di Ramat (1957), che apprezzava la tragedia solo nelle parti più decisamente liriche e misteriose, con stati d’animo sospirosi e crepusco-lari ovvero in quelle più vicine al sentimento dell’Aminta e, infine, anche quello di Getto (1966) che, cogliendo nella tragedia le atmosfere soffuse, patetiche, decadenti già presenti nel poema eroico, di fatto negava ogni elemento di rottura e di novità al tragico tassiano riconducendolo nell’al-veo del già noto6. Nuova linfa allo studio critico del Torrismondo giunse nel 1970 da Caretti che rilevava un processo «di dissoluzione […] del discorso poetico» come «il punto più acuto della crisi tassiana»7. Nella lettura data dallo studioso dell’ultima fase poetica di Tasso emerge una chiara biforcazione nelle strade seguite dal poeta dopo l’esperienza di re-clusione a Sant’Anna, da un lato la riscrittura del poema sacro, che nella Conquistata assume la rigidità censoria della Controriforma, come dimo-strano peraltro i Discorsi del poema eroico risalenti appunto all’ultima fase poetica, dall’altro l’impegno a riprendere la poesia tragica, avviata nel primo Galealto risalente agli anni dell’Aminta, per dare forma definitiva

fortuna critica cfr: M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 231-232; Id., Il Teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecento, t. II: 427-429; S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro...; C. Gigante, Tasso... 268-308.

5. U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, Rivista Abruzzese, 1906, citato da M. Guglielminetti nella Introduzione a T. Tasso, Teatro…, XXXIII. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 19622: 695: «Tentò il Tasso anche la tragedia classica, ed a imitazione di Edipo re scrisse il suo Torrismondo. Ma l’Italia non avea più la forza di produrre né l’eroico, né il tragico, e lí non ci è di vivo, se non quello solo di vivo che era nel poeta e nel tempo, l’elemento elegiaco, massime ne’ cori» F. D’Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, 1878.

6. B.T. Sozzi, Studi sul Tasso, Pisa, Nistri-Lischi, 1954 e Id., Nuovi studi sul Tasso, Ber-gamo, Centro di Studi tassiani, 1963; E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1967; R. Ramat, Il Re Torrismondo, in Aa.Vv., Torquato Tasso, Milano, Marzorati, 1957; G. Getto, Interpretazione del Tasso, Napoli, Esi, 1966.

7. L. Caretti, Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1977: 94 e 117.

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Ahi lagrime, ahi dolore!

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a una visione ormai del tutto disincantata e cupa del rapporto tra destino e personaggio. La fine, dunque, di un orizzonte rinascimentale o umani-stico e l’avanzare irreversibile di un sentimento prebarocco, sempre più contrastato e intimamente richiuso in se stesso.

Gli studiosi degli ultimi quattro decenni hanno ampiamente dissoda-to il terreno di analisi e tracciato percorsi interpretativi tuttora insuperati sul versante filologico della restituzione del testo, su quello della lingua e dello stile, e sul piano critico ermeneutico, contribuendo definitivamente (Gigante, Chiodo, Russo) a superare il pregiudizio della bipartizione tra una stagione poetica giovanile precedente a Sant’Anna, felice e produt-tiva e una, successiva alla scarcerazione, declinante e stanca8. Acquisita inoltre è anche l’eliminazione del motivo incestuoso dal tragico tassiano (Renda, Guglielminetti) che comporta un diverso posizionamento del-la teoria tassiana sulla tragedia rispetto al modello sofocleo sul quale è condotta la Poetica di Aristotele. Se, infatti, gli studi più recenti hanno messo in luce il modus operandi di Tasso di un continuo ritorno a nuclei di pensiero giovanili e a prime stesure sottoforma di interventi correttori e di evoluzione speculativa ininterrotta, bisogna ricordare anche che una

8. L’attenzione alla tragedia è confermata anche dall’allestimento di una seconda edizio-ne critica, dopo quella di Sozzi (nel II volume della sua edizione delle Opere, I-II, Torino, Utet, 1974

2), a cura di V. Martignone, Il Re Torrismondo, Fondazione Pietro Bembo, Parma, Guan-

da, 1993. Si ricordano gli studi di A. Di Benedetto, Tasso, minori e minimi a Ferrara, Pisa, Ni-stri-Lischi, 1970, A. Daniele, Sul linguaggio tragico del Cinquecento e il “Torrismondo” del Tasso, in «Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXXXII, 1973-1974; M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento..., in particolare 231-288, Id., Il discorso perplesso: ‘parlar disgiunto’ e ‘ars oratoria’ nel «Torrismondo» di Torquato Tasso, in «Paradigma», 3, (1980): 51-89. In occasione delle celebrazioni per gli anniversari del poeta sono seguiti, alla fine degli anni Novanta, i Convegni di studi: Aa.Vv., T. Tasso. Cultura e poesia, a cura di M. Masoero, Torino, Scriptorium, 1997; Aa.Vv., T.Tasso e l’Università, a cura di W. Moretti e L. Pepe, Firenze, Olschki, 1997; Aa.Vv., Torquato Tasso e la cultura estense, 2 voll., a cura di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999. Gli ultimi decenni hanno registrato un costante interesse scientifico sul Torrismon-do come mostrano gli studi di D. Chiodo, Il Re Torrismondo e la riflessione tassiana sul tragico, in «Studi Tassiani», XXXVII, (1989): 37-63, di C. Scarpati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995, di G. Scianatico, Il Re Torrismondo. Una Tragedia politica, in Torquato Tasso e la cultura estense... III: 1067-1083, di S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro..., che ritorna su studi di anni precedenti, la monografia di C. Gigante, Tasso..., in partic. 268-289, che si aggiunge ai numerosi studi pubblicati in rivista e in volume, e E. Russo, L’ordine, la fantasia e l’arte. Ricerche per un quinquennio tassiano (1588-1592)... in particolare per lo studio sui Dialoghi e sui Postillati tasseschi, le cui ricadute ermeneutiche sul Torrismondo sono di primaria importanza. Imprescindi-bile strumento di aggiornamento bibliografico sono gli spogli delle riviste «Studi tassiani», «Espe-rienze letterarie», «La cultura».

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La morte tragica nel Cinquecento

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parte rilevante nella formazione culturale di Tasso ebbero le letture filo-sofiche e la partecipazione alle discussioni scientifiche che si andavano svolgendo nella città di Ferrara9. A tale proposito, Raimondi, Gagliardi, Prandi insistono sulla componente filosofica e sul taglio argomentativo dei Dialoghi, dove Tasso affronta delicate questioni teologico-filosofiche sulla scorta degli auctores che formano la sua biblioteca10.

9. Ferrara non fu solo la culla della poesia cavalleresca ma anche la sede di una corte dagli interessi culturali, artistici e filosofici molto vivaci. Oltre ad avere ospitato Renata di Francia, amica di calvinisti e intellettuali in odore di eresia, la corte ferrarese fu crocevia di scienziati (Copernico), eretici (Calvino e calvinisti) e di matematici. Tasso vi tenne le lezioni di matematica, come riferi-sce il suo primo biografo G.B. Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di B. Basile, Roma, Salerno editrice, 1995 e ora C. Gigante, Tasso... 20-24, che ricuce i vari momenti del passaggio del poeta a Ferrara prima, poi a Roma, e la significativa partecipazione alla intensa vita culturale della corte estense. Sulla vitalità della corte ferrarese e più in generale sulla civiltà delle corti rinascimentali si rimanda a G.M. Anselmi - L. Avellini - E. Raimondi, Il Rinascimento padano, in Letteratu-ra italiana, Storia e Geografia II. L’età Moderna I, Torino, Einaudi, 1988: 685-729; M. Pieri, La scena pastorale, in La corte e lo spazio. Ferrara estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982, 3 voll., II: 489-525; C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, (1967), Torino, Einaudi, 1999; G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni (1985), Bologna, il Mulino, 2006; S. Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali (1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996. Quanto alle conoscenze filosofiche di Tasso, sebbene stenti ad essere accettata, soprattutto da parte degli storici della filosofia, l’idea di un Tasso filosofo (assente infatti nel ponderoso volume sulle Filosofie del Rinascimento di Cesare Vasoli, a cura di Paolo Costantino Pissavino, Milano, Bruno Mondadori, 2002), non v’è dubbio che la sua conoscenza dei massimi filosofi dell’antichità e dei neoplatonici, anche attraverso la mediazione di Marsilio Ficino, doveva essere estesa al punto da risultare determinante per la definizione di molte idee e convinzioni teologico-filosofiche che il poeta riversò sulle sue opere poetiche, dai Dialoghi alla tragedia, al poema sacro, all’ampio carteggio. Si veda tra gli altri S. Toussaint, Il Tasso neoplatonico e l’«arsenale» dei poeti, in Neoplatonismo, Musica, Letteratura nel Rinascimento. I Bardi di Vernio e l’Accademia della Crusca. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze-Vernio, 25/26 settembre 1998, a cura di P. Gargiulo - A. Magini - S. Toussaint, Prato, Cahiers Accademia, 2000.

10. Cfr. E. Raimondi, Rinascimento inquieto, (1965), Torino, Einaudi, 1994; Id., Introdu-zione a T. Tasso, Dialoghi, a cura di G. Baffetti, Milano, Rizzoli, 1998: 9-56; A. Gagliardi, Tor-quato Tasso: Averrosimo e miscredenza, in Id., Scritture e storia, Averroismo e Cristianesimo. Lorenzo de’ Medici, Sperone Speroni, Torquato Tasso, Giordano Bruno, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998: 125-172; S. Prandi, Scritture al crocevia. Il dialogo letterario nei secoli XV e XVI, Vercelli, Edizioni Mercurio, 1999. Si legga, per esempio, Il Forno overo della nobiltà. Il Forno secondo overo della no-biltà, a cura di S. Prandi, Firenze, Le Lettere, 1999, dove emerge il portato delle letture filosofiche di Tasso. Sulla diffusione delle opere di Marsilio Ficino tra Quattro e Cinquecento, oltre al classico P.O. Kristeller, Medieval aspects of Renaissance learning: three essays (1974), New York, Colum-bia University Press, 1992, cfr. i più recenti studi di L. Olini d’Ascola, Le postille inedite del Tas-so alla ‘Repubblica’ di Platone, in «Studi tassiani», XXXIV, (1986): 51-82, mentre sulla biblioteca tassiana si rimanda a B. Basile, Poëta melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini, 1984 e Id., La biblioteca del Tasso. Rilievi ed elenchi di libri dalle “Lettere” del poeta, in «Filologia e critica», XXV, (2000): 9-58.

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La definizione della natura del tragico e delle sue forme poetiche è oggetto di riflessione da parte del poeta già nei primi Discorsi dell’Arte Poetica e poi nei successivi Discorsi del Poema eroico e corre parallela alla ripresa negli stessi anni del Messaggiero della prima stesura della trage-dia, che uscirà nel 158711. Liberato da Sant’Anna finalmente, dopo sette lunghi e tormentati anni, Tasso riprende alacremente progetti iniziati in anni lontani per portarli a compimento e, contemporaneamente, perfe-zionarli e correggerli. L’ultimo decennio di vita del poeta è dunque un periodo caratterizzato da fortissima speculazione teorica e da intensa attività poetica, segno di una vitalità creativa non certo minore rispetto ai primi anni giovanili. Anzi, proprio la vicenda tragica del Torrismondo rivela la coscienza filosofica e teologica acquisita da Tasso a quell’altezza di anni, l’interesse per questioni di natura filosofica, etica e civile, e il pro-gressivo incupimento di un orizzonte storico che non lascia speranza alle utopie rinascimentali12.

La personalità che emerge dagli scritti poetici e teorici di questi anni riflette gli interessi di un letterato, costretto a misurarsi con le logiche e i vincoli del sistema cortigiano ma confortato dal dialogo assiduo con gli Antichi e con i Moderni ai quali si rivolge alla ricerca di ordine e saggez-za13. In ogni scritto, poetico o teorico, si rintraccia la volontà di affidarsi

11. Per la datazione dei Discorsi cfr. la Nota filologica a firma di Luigi Poma in Appendice alla ristampa del testo, Bari, Laterza, 1964, dove si argomenta la proposta di retrodatare i Discorsi dell’Arte Poetica agli anni 1561-1562, durante il primo soggiorno padovano di Tasso, a un periodo al quale risale il Rinaldo e Tasso si ripromette di rimettere mano alla Liberata interrotta. La stampa dei Discorsi uscì a Venezia nel 1587, insieme alle Lettere poetiche, per sollecitazione dell’abate ber-gamasco G. Licino ma non lasciò soddisfatto il poeta che più volte chiese, ma invano, che gli venisse restituito il manoscritto per potere apporvi modifiche e correzioni. I Discorsi del poema eroico usci-rono in un volume a sé solo nel 1594 a Napoli. La prima edizione del Torrismondo è datata 1587, per Comino Ventura & Compagni.

12. Cfr. B. Basile, La biblioteca del Tasso. Rilievi ed elenchi di libri dalle “Lettere” del poeta, in «Filologia e critica», XXV, (2000): 9-58. Lo studioso, insieme a Guido Baldassarri e Claudia Fanti ha promosso l’indagine sui postillati tassiani che sta portando all’Edizione Nazionale delle postille del poeta. Sui postillati, dopo l’inventario stilato da A.M. Carini, I postillati ‘barberiniani’ del Tasso, in «Studi tassiani», XII, (1962): 97-110, si rimanda a G. Baldassarri, La prosa del Tasso e l’universo del sapere, in Aa.Vv., T. Tasso e la cultura estense, a cura di G. Venturi, Firenze, Olschki, vol. II: 361-409; E. Russo, L’ordine, la fantasia e l’arte. Ricerche per un quinquennio tassiano (1588-1592)...; E. Ardissino, Tasso, Plotino, Ficino: in margine a un postillato, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003.

13. Cfr. C. Scarpati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995 e Id., 1585-1587: Tasso, Patrizi e Mazzoni, in «Aevum», LXXVI, (2002): 761-773.

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allo strumento del dialogo e del ragionamento, rinunciando a posizioni fideistiche o provvidenzialistiche. Anche durante gli anni più bui, tra-scorsi nel carcere di Sant’Anna al ritmo della scrittura poetica e di quel-la encomiastica e oratoria rivolta ai potenti dai quali sperava di ottenere la scarcerazione, Tasso non dismise mai l’abito del Forestiero socratico dei Dialoghi ossia di un sapiente che ragiona e si interroga sui più diversi aspetti del vivere civile, dal gioco alle imprese, dall’etica del comporta-mento al valore della Cortesia, dell’Amicizia, dell’Amore, fino a inol-trarsi nel territorio metafisico delle influenze celesti sulla sfera umana. La cosiddetta seconda stagione degli scritti tassiani, dunque, nella quale si fa rientrare il Torrismondo, è caratterizzata da una fortissima tensione intellettuale del poeta, immerso nella lettura di testi filosofici, teologici e poetici nelle vesti di un sapiente che ha a cuore la comprensione delle traiettorie umane e delle interferenze con la sfera superiore del divino, e che dunque come un filosofo cerca la via e la va disegnando iuxta principi-is rationis14. Come scrive Ardissino, «La religiosità del Tasso, “inquieta, non-perfetta, continuamente da riattingere: non mistica, non ascetica” è priva, come dice Scrivano, “della serenità, della completezza e fiducia, che solo spiriti sostanzialmente a-religiosi ritengono indispensabili alla religione»15. Religiosa può considerarsi la vocazione alla ricerca di un ol-tre che assicuri giustizia e ordine etico e civile, l’ansia insoddisfatta per una composizione del presente imperfetta e transeunte, e la sua natura inquieta che lo resero caro alla sensibilità moderna16.

Il tragico tassiano si configura dunque come coscienza della precarietà

14. Nelle Lettere Tasso spesso si riconosce filosofo e tale fu considerato da molti dei suoi primi lettori, tuttavia bisogna ammettere che lo svolgimento del suo pensiero manca della sistematicità propria del ragionamento filosofico. Ciò non toglie, però, che la vastità delle sue letture filosofiche e teologiche gli permise di prendere posizione su molte delicate questioni all’ordine del giorno nei dibattiti del tempo, come del resto testimoniano, tra gli altri, i Dialoghi, le Lettere, il Mondo creato.

15. Cfr. E. Ardissino, Il pensiero e la cultura religiosa di Torquato Tasso, in «Lettere italia-ne», a. LV, n. 4, ottobre-dicembre (2003): 591-614, a: 613, dove si trova la citazione di R. Scriva-no, Il Mondo Creato, Napoli, L’Orientale Editrice, 2000: 179. Per le letture filosofiche si rimanda a S. Toussaint, Il Tasso neoplatonico e l’«arsenale» dei poeti... e agli altri riferimenti indicati alle nn. 9-10 di questo capitolo.

16. Il successo delle traduzioni americane e francesi del poema e del Torrismondo (King Torri-smondo, tr. di M. Passaro Pastore, New York, Fordham UP, 1997) confermano l’attualità del mo-dello di eroe consapevole della propria colpa e destinato al dolore e alla solitudine. Sul tema si veda M. Di Capua, Torrismondo e Hamlet, due “eroi” del dramma moderno, in «Esperienze letterarie», XXIII, (1998): 49-62.

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della condizione umana, del turbamento e della scissione come connota-zioni proprie dell’uomo che sperimenta l’instabilità di se stesso e dell’u-niverso nel quale è compreso. La coscienza tragica di Tasso, lontanissi-ma dalle prospettive utopiche trissiniane, apre alla crisi dell’armonia e al superamento del classicismo come misura e equilibrio, estetici e etici, specchio del pieno Rinascimento17. Come si mostrerà, infatti, l’orizzonte tragico tassiano rigetta la responsabilità della catastrofe dal Fato avverso, pur costantemente accusato di tormentare la ‘gente desta’, ai due fratelli-amanti, Alvida e Torrismondo, questi perché, ignorando la verità, si la-scia sedurre dalla bellezza di Alvida e travolgere dalla passione, finendo col tradire il patto sacro di amicizia con Germondo, l’altra perché non credendo alla verità che Torrismondo le rivela, si uccide come gesto di orgoglioso risentimento di donna respinta. La prospettiva sembra cioè stringersi attorno ai mortali, unici responsabili del proprio agire e del proprio destino ultimo, restituendo una visione della condizione umana più instabile e afflitta, in linea con la nuova sensibilità manierista.

Il Torrismondo è dunque l’esito maturo della riscrittura, ripensata fortemente, di una Tragedia non finita, titolo non di autore per indicare i 1197 versi che costituiscono i primi due atti dell’opera iniziati, secondo le più probabili proposte di datazione, intorno alla prima metà degli anni Settanta (1573), quando Tasso era impegnato nella stesura dell’Aminta, e ripresi all’arrivo a Sant’Anna nel 157918. Al Cataneo che nella lettera

17. In questa direzione si muovono concordemente molti studiosi del tragico tassiano, sia co-loro che privilegiano la prospettiva politica e storica (Scianatico) sia coloro che invece enfatizzano gli aspetti teorici (Mastrocola) o linguistici e compositivi (Ferroni), nell’assegnare al poeta il merito di aver inaugurato una nuova moderna sintassi tragica, manierista e anti-classicista.

18. Questa è l’ipotesi avanzata da Gigante, Tasso…, 268-270, sulla base di una più attenta lettura di due lettere, quella inviata a Maurizio Cataneo da Sant’Anna l’11 giugno 1581 e l’altra precedente datata 23 maggio 1581, nella quale il poeta, rivolgendosi al cardinale Albani, paragona il proprio caso a quello del più grande tragediografo dell’antichità, Sofocle, che nel tentativo di sal-varsi dall’accusa di pazzia compose l’Edipo re dimostrando così di essere sapiente e nel pieno delle facoltà creative: «Nuova ed inaudita sorte d’infelicità è la mia, ch’io debba persuadere a Vostra Signoria reverendissima di non esser forsennato, e di non dover come tale esser custodito dal signor duca di Ferrara, nè tenuto prigione: nuova ed inaudita certo a i nostri tempi, ed anco a quelli de gli avoli e de gli avoli de gli avoli nostri, perciochè alcuno esempio non se ne racconta: ma in Grecia avvenne anticamente caso non dissimile a questo; che Sofocle, famoso tragico, era da’ figliuoli im-pedito, come folle, di governar le facoltà ch’egli s’aveva per avventura acquistate; onde per liberarsi dal sospetto de l’imputata pazzia, lesse a’ giudici l’Edippo Coloneo, tragedia ch’egli aveva fatta ultimamente; per la quale fu sapientissimo giudicato. E s’io, che ne l’infelicità gli sono simile, potrò ne l’istesso modo a Vostra Signoria reverendissima (che non confido che debba esser men sincero

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dell’11 giugno 1581 lo esortava a riprendere il progetto della tragedia e dedicarlo al signore di Mantova, Vincenzo Gonzaga, Tasso risponde di essere pronto a farlo per ricambiare i benefici ricevuti dal principe:

La mia tragedia né ricuso di fornire, né desidero; perché i componimenti mesti sogliono perturbar l’anima: ed io, che son malenconico per natura e per accidente, debbo, quanto posso più, viver lieto, come Vostra Signoria m’esorta, senza far nondimeno cosa che sia contra l’onor de l’età e de la pro-fession mia19.

Come spiega Gigante, questa lettera deve ragionevolmente seguire a un’altra, a noi non pervenuta, che spiega l’accenno in questa citata al progetto di ripresa della tragedia. Nella risposta, che possediamo, Tasso aggiunge di sperare che questa volta non finisca come in passato, quando nel febbraio 1579 l’Albani gli aveva suggerito di recarsi a Ferrara per le terze nozze del duca Alfonso II per ottenerne il perdono e invece era stato fatto prigioniero a Sant’Anna20.

Questa lettera, fa notare correttamente Gigante, è preceduta da un’al-tra, datata 24 maggio 1581 scritta dallo stesso Cataneo al poeta, nella

giudice) persuadere di non esser folle, quando che sia, mi gioverà di raccontare le mie passate infeli-cità. La prego, dunque, che voglia leggere due dialoghi c’ultimamente ho fatti, l’uno de la Nobiltà, l’altro de la Dignità; i quali assai manifestamente possono dimostrare quale sia il mio senno». Si vedano le Lettere 164 e 162 dell’edizione delle Lettere di T.Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da C. Guasti, 5 voll., Firenze, Le Monnier, 1852-1855. L’edizione aldina del 1582 recava la Tragedia nella Seconda Parte delle Rime, come sostiene Martignone che ha fondato il lavoro cri-tico sulla Aldina dell’anno dopo. Cfr. V. Martignone, Per l’edizione critica del ‘Torrismondo’ di T. Tasso, in «Studi di filologia italiana», XLV, (1987): 151-196. Col titolo Galealto Re di Nor-vegia invece Solerti indicava il testo nell’edizione da lui curata del Teatro di Tasso, Bologna, Zani-chelli, 1895.

19. Lettere di T. Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da C. Guasti… II: 128-129.20. Come si apprende dalla Vita del Manso e dalle Lettere, Tasso ebbe rapporti tempestosi con

duchi e principi che lo ebbero sotto protezione. Sempre alla ricerca di sostegno economico Tasso si divise tra il duca d’Este, Alfonso II, che lo prese a servizio nel 1571, i Gonzaga di Mantova e i Medici dai quali sperava protezione. Tale comportamento, unito alle intemperanze e agli atteg-giamenti sempre più incontrollati del poeta sul finire degli anni Settanta, indussero Alfonso II ad assumere cautela e un distacco crescente che culminò con la decisione della carcerazione disposta nel 1579. Bisogna anche precisare che tale decisione era motivata dalla necessità per il duca di Ferrara di prendere le distanze dal clima in odore di eresia che ruotava intorno alla figura di Renata di Francia protagonista del fervore intellettuale e culturale della corte ferrarese. Ecco perché dopo l’ennesimo episodio di rabbia incontrollata ai danni di un servo, il duca lo attira a Ferrara in occasione delle sue nozze con Margherita Gonzaga e lo fa imprigionare all’Ospedale per sette lunghi anni.

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quale lo esorta a finire la tragedia e farne omaggio al signore di Mantova nella speranza di ottenerne aiuto per la scarcerazione21. Pertanto, è ve-rosimile che Tasso riprendesse il progetto della tragedia non finita e lo portasse a termine pubblicandolo nel 1587 in due edizioni bergamasche per Comino Ventura e dedicate entrambe al signore di Mantova Vincen-zo Gonzaga22.

Il nucleo drammatico dell’opera non variò dall’abbozzo alla tragedia finita. Si racconta della fine luttuosa di due giovani amanti, Torrismondo (Galealto, re di Norvegia nell’abbozzo) e Alvida, che rapiti da un amore travolgente, consumato in una notte tempestosa, a seguito della confes-sione di Rosmonda, creduta sorella di Torrismondo, e del racconto del servo Frontone che svela come alla nascita della regina Alvida il padre Araldo, temendo la rovina del regno a causa della neonata, vaticinata da accorte Ninfe, decidesse di allontanarla dal regno e affidarla alle cure di una nutrice. Il suo posto fu preso da Rosmonda che crebbe come una re-gina a corte insieme a Torrismondo. Appreso dell’incesto, Torrismondo è consumato dai rimorsi e dal senso di colpa per avere tradito la fiducia dell’amato Germondo, re di Svezia, (Torindo, re dei Goti nell’abbozzo) amico di infanzia al quale aveva promesso di portare Alvida in sposa ma proprio durante il viaggio per mare egli era stato sedotto dalla bellezza

21. Ariani propone invece di datare il primo abbozzo ancora prima tra il 1573 e il principio del 1574.

22. La tragedia non giunse a una terza edizione che ricomponesse i numerosi interventi cor-rettori di Tasso. Per la ricostruzione del testo critico cfr. V. Martignone, Per l’edizione critica del ‘Torrismondo’ di Torquato Tasso, in «Studi di Filologia italiana», vol. XLV, (1987): 151-196 e Id., Nota al Testo, in T. Tasso, Il Re Torrismondo…, XXIX-XLI. Cfr. inoltre B.T. Sozzi, Per l’edizione critica del ‘Torrismondo’, in Id., Studi sul Tasso, Pisa, Nistri-Lischi, 1954, dove lo studioso restituisce una versione ‘contaminata’ della tragedia ovvero risultante dalla ricezione di varianti tarde delle stampe e del postillato senza però una ricostruzione puntuale della genesi testuale. Il testo dell’edizione Martignone invece è allestito secondo l’ultima stampa sicuramente seguita e approvata da Tasso ossia la ristampa (in ottavo) edita a Bergamo per Comino Ventura, risalente a poche settimane dopo la princeps in quarto dello stesso stampatore, eseguita utilizzando l’autografo oggi conservato a Londra (British Museum Addit. 23778). La tormentata composizione del Torri-smondo, iniziata negli anni ferraresi, ripresa tra agosto e dicembre 1586 e data alle stampe l’anno se-guente, rivela interventi variantistici e correttivi continui da parte del poeta, che non sempre riuscì a seguire personalmente la stampa dell’opera. Le Lettere aiutano a seguire passo passo le richieste di testi necessari a colmare e rifinire alcuni passaggi dell’opera, in particolare l’Historia di Olao Magno e i tragici greci, Sofocle e Euripide. La Medea di quest’ultimo, richiesta insistentemente dal poeta a Annibale Ippoliti (Lettera n. 696 ed. Guasti) pare sia stata utilizzata per la prima scena dell’ultimo Atto, inclusa tardivamente nel ms autografo.

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della giovane e se ne era innamorato. La morte rappresenta per Alvida la soluzione al dolore incontenibile per essere stata raggirata e ripudiata da colui che ama non come fratello ma come amante.

Sullo sfondo della tragedia di amore e di amicizia, si consuma la fine della Fede, della Giustizia e della Cortesia e il trionfo dell’inganno, della frode e di un potere violento:

O morì la giustizia il giorno istessoco ’l giustissimo vecchio, o seco sparve,e fe’ seco volando al ciel ritorno.E la forza e la fraude e’l tradimentopreseo ogni alma ed ingombrâr la terra.Non ardisce la fede erger la destra,e l’onor più non osa alzar la fronte.E la ragione è muta, anzi lusingala possente fortuna. (vv. 2822-2830)23

Non restano che i lacrimosi lamenti del Coro finale che restituiscono il senso di smarrimento di un’umanità che non riconosce più i sacri ide-ali di Amore e Amicizia che avevano sorretto e innervato il sistema della civiltà cortese medievale.

Ahi lacrime, ahi dolore […]Dopo trionfo e palma,sol qui restano a l’almalutto e lamento e lagrimosi lai.Che più giova amicizia, o giova amore?Ahi lagrime, ahi dolore!24

Il Torrismondo, come in tanti hanno evidenziato a partire da Umber-to Renda, non è una tragedia di incesto come il modello a cui esplicita-

23. T. Tasso, Il Re Torrismondo, in Aa.Vv., Il Teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecen-to..., t. II, V, vv. 45-51. Il testo è quello critico allestito da B.T. Sozzi, in T. Tasso, Opere, a cura di B.T. Sozzi, vol. II, Torino, Utet, 1956, 3

a accresciuta 1974. Il lamento di Alvida è esemplato sul

modello della Medea di Euripide, v. Note al testo di Martignone.24. Sono i celebri versi dei due Cori finali del Torrismondo, definito da Getto, il Coro del-

le spente illusioni, cfr. G. Getto, Dal Galealto al Torrismondo, in Id., Interpretazione del Tasso, Napoli, ESI, 1951: 205-249.

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mente Tasso ricollega la sua opera, l’Edipo Re di Sofocle; è la tragedia del crollo di quegli ideali a cui intere generazioni di poeti, a partire da Trissino, avevano guardato nell’illusione di potere rifondare una civiltà che ad essi si ispirasse. In questo senso si può sostenere che il Torrismondo apra a una nuova e diversa stagione del teatro tragico italiano, quella che ha ormai introiettato le inquietudini e le scissioni di fine secolo. Con la proposta tassiana il tragico chiude nel segno della rottura e della disar-monia un’età apertasi nel segno della armonia e della bellezza. Assente nel tragico tassiano è la ricomposizione di un universo franto e dilaniato, grondante sangue e orrore. Gli interrogativi angosciosi di Alvida, che si affollano nella giustapposizione asindetica dei versi, esprimono i dub-bi e le incertezze senza risposta del poeta e di un’epoca intera sospesa nell’attesa di senso. Degradato in un universo fosco e irrazionale è il mito dell’Amore ancora celebrato nell’Aminta e adesso degradato a fonte di orrore e empietà:

Alla ragion che “sedea […] al governo” si contrappongono tutte le forze irra-zionali del cosmo malignamente animato. Tutti i demoni metafisici del ma-gismo panpsichistico, ermetico e neoplatonico, sono riuniti dal Tasso a co-stringere i due esseri, desolati nella tempesta, a stracciare le leggi biologiche, con Amor: il supremo ideale platonico, il dio del petrarchismo angelicante, è coinvolto, degradato fra le forze astrali della corruzione; in quell’amore, che dal Ficino al Diacceto a Leone Ebreo era stato esaltato come la forza motrice dell’universo, Tasso scorge l’elemento fangoso, la brutale realtà di un mito corrotto e riportato alle dimensioni dell’orrore e dell’offesa. L’estremismo tassiano non potrebbe rivelarsi qui più violento: gli alti ideali del Rinasci-mento sono gettati in basso da una contemplazione distaccata e lucida, cru-delmente demistificante25.

A differenza di quanto sostenuto da molti critici (Getto, Ramat) il finale della tragedia non sancisce la vittoria della dura necessità, del Fato avverso, sulla volontà individuale ma l’estremo, paradossale e nichilistico, atto di volontà dell’uomo che si risolve nella scelta della morte, del non essere, se vivere significa accettare la sconfitta di qualunque soluzione ra-zionale del conflitto irrisolvibile. La morte, il sempiterno sonno che i due amanti-fratelli si danno, corrisponde alla disperata risposta alla ostilità di

25. M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento…, 280; in par-ticolare: 250-278 dedicate ad Alvida, e 278-287 dedicate a Torrismondo.

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forze avverse che travolgono l’uomo rinascimentale nella tempesta irra-zionale di sentimenti inconciliabili. Di fronte alla pressione controrifor-mistica e alla negazione di ogni residua dignità umana, c’è spazio solo per la mote, onore estremo concesso ai cari figli, Alvida e Torrismondo, la cui dolente esperienza di vita provoca nello spettatore pietà e compassione. Di fronte all’irrompere dell’irrazionale, Tasso non oppone se non la di-sperata coscienza del vero.

Dal Galealto al Torrismondo il poeta procede alla ripresa di tre nuclei tematici già presenti nel primo abbozzo – l’innamoramento di Galeal-to per Alvida, il suo tormento per avere tradito la fiducia della doma e dell’amico Torisno, re dei Goti (Germondo, re di Svezia) e infine il mo-tivo dell’elogio della vita claustrale di Rosmonda – e sul piano linguisti-co-stilistico a un generale innalzamento del registro, a una graduale sua nobilitazione; nella stessa direzione va letta la cassazione dell’acccenno esplicito ai ‘sozzi amori’ nel primo monologo di Alvida e, in generale, una maggiore insistenza sul tema onirico, già presente nell’abbozzo ma ar-ricchito adesso di una nutrita serie di riferimenti lessicali all’orrido, alle tombe antiche, al rimbombo e alla sferza che amplificano evidentemente il linguaggio intimo di un inespresso latente senso di colpa.

L’edizione critica allestita da Martignone segnala puntualmente le fonti e i modelli di cui Tasso si servì durante la riscrittura dell’abbozzo, da Virgilio alla Fedra di Seneca, dall’Edipo re di Sofocle alla Medea di Eu-ripide e, tra i moderni, da Dante alla Historia de gentibus septentrionali-bus di Olao Magno e gli inserti nuovi introdotti a complicare il quadro già fitto dell’intreccio26.

Rifacendosi all’Edipo re sofocleo, Tasso si propone di eguagliare il mo-dello e di superarlo prendendo posizione all’interno dell’acceso dibattito seguito alla stampa dell’Orbecche di Giraldi Cinzio e della Canace di Spe-rone Speroni:

26. Le lettere inviate da Tasso durante la prigionia sono utili per ricostruire le intricate fasi di rielaborazione della tragedia le ultime variazioni apportate, per le quali si rinvia alla Nota al testo di Martignone nell’edizione critica citata, e gli auctores consultati. Si vedano per esempio la Lett. n. 523 inviata a Licino nella quale chiede di inserire correzioni prima che l’opera vada in stampa, la n. 696 a Annibale Ippoliti per avergli trovato l’Euripide, e così via. Durante la stesura della tragedia le richieste di testi erano continue, dai Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, all’Historia de gentibus septentrionalibus, dalle tragedie di Seneca a quelle di Sofocle e di Euripide (n. 632, 643, 668: «Avrei bisogno di Seneca, e di Euripide; e renderei l’uno e l’altro assai presto: ma gli vorrei latini»).

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In quanto a l’opposizione fatta a la tragedia dal Clarissimo, rispondo: pri-ma, che le tragedie prendono il titolo spesse volte da le persone scelerate che sian principali, come Tieste, Medea, Macareo, de la quale ancora fra’ greci si fece tragedia: poi, che Torrismondo non è persona scelerata nè malvagia, ma colpevole di qualch’errore, per lo quale è caduto in infelicità; laonde per que-sta cagione è più atto a muover misericordia, che non sono i buoni in tutto, come insegna Aristotele medesimo27.

La tragedia per opinione di alcuni è gravissimo componimento; come ad altri pare, affettuosissimo e convenevole a’ giovenetti: i quali, oltre tutti gli altri, par che ricerchi per uditori. […] Oltre a ciò, la tragedia per giudizio d’Aristotele ne l’esser perfetto supera ciascun altro. E voi sete principe do-tato d’altissimo ingegno e d’ogne perfezione […]; e V. Altezza, leggendo o ascoltando questa favola, troverà alcune cose da imitare, altre da schivare, altre da lodare, altre da riprendere, altre da rallegrarsi, altre da contristarsi. E potrà col suo gravissimo giudizio purgar in guisa l’animo, ed in guisa tem-prar le passioni, che l’altrui dolore sia cagione del suo diletto28.

Nel primo dei due brani citati, la lettera indirizzata a G.B. Licino nel 1587, Tasso rivendica la natura intermedia del suo Torrismondo, né scellerato né empio ma colpevole di qualche errore, a sua insaputa. Rifa-cendosi infatti al tredicesimo capitolo della Poetica di Aristotele, laddove prescrive l’adozione di caratteri medi che possono per errore e non per scelleratezza, cadere nella infelicità e nella sfortuna, Tasso prende le di-stanze dal tragico speroniano al centro delle polemiche in quegli anni:

Poiché la composizione più bella della tragedia deve essere complessa e non semplice ed inoltre la tragedia deve essee imitazione di casi che destano ter-rore e pietà […] in primo luogo è chiaro che non si debbono mostrare né uo-mini dabbene che passino dalla fortuna alla sfortuna, perché questa è cosa che non desta né terrore né pietà ma ripugnanza; né uomini malvagi che passino dalla sfortuna alla fortuna, perché questo è il caso meno tragico di tutti […]. Non resta dunque che colui che si trova nel mezzo rispetto a questi estremi, e tale è chi né si distingue per virtù e per giustizia, né cade nella disgrazia per causa del vizio e della malvagità, ma per un qualche errore29.

27. Lettere a cura di Guasti, n. 904, scritta nel 1587.28. Argomento del Torrismondo, dedicato a Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Mon-

ferrato, Bergamo 1587.29. Aristotele, La Poetica...13, 1452b 34-1453a

16. Del resto, già nei primi Discorsi

dell’Arte Poetica Tasso fissava i princìpi regolativi della composizione del poema eroico e della tra-

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Come Edipo, infatti, anche Torrismondo si macchia di una colpa per ignoranza e non per malvagità, condizione che lo rende un perfetto eroe tragico secondo il modello aristotelico a cui Tasso aderisce, rivendicando in questo modo una duplice funzione sul piano teorico: da un lato quella di dichiarare l’ambizione al primato tragico, dall’altro prendere posizio-ne nel dibattito intorno al comporre dei poemi epici e delle tragedie, assai diffuso in tutto il Cinquecento e, in particolare dopo la pubblicazione nel 1543 del Giudicio sopra la tragedia di Canace e Macareo di Giraldi Cinzio30.

L’eccellenza dell’Edipo, ribadita nelle lettere poetiche e nel Discorso del poema eroico, è poi confermata dalla coincidenza della peripezia con l’agnizione:

Bellissima è l’agnizione s’è congiunta con la mutazione della fortuna, com’è nell’Edipo tiranno. […] Ma ottima agnizione e bellissima oltre tutte l’altre è quella che nasce dalla composizione della favola stessa ed è congiunta col mutamento della fortuna, com’è quella d’Edipo, e quella d’Alvida nel Tor-rismondo31.

Agnizione, peripezia e catastrofe sono i tratti specifici del tragico ma il diletto che consiste nella compassione e il dolore per i casi sventurati di principi e regine può essere provocato più efficacemente dislocando lon-tano nel tempo e nello spazio la favola stessa. Ecco perché Tasso sceglie le lande desolate, le erme arene di terre ignote, fantasiose e deserte, descrit-te con dovizia di particolari dal vescovo di Upssala, Olao Magno, nella

gedia che in comune hanno l’oggetto, le azioni illustri e nobili e il carattere imitativo della poesia che, però, deve anche concedere qualcosa alla facoltà del fingere altrimenti non si guadagna il gusto dei lettori. A differenza delle azioni epiche, quelle tragiche destano pietà e terrore «e ove manchi questo orribile e questo compassionevole, tragiche più non sono» e, infine, l’illustre epico è diverso da quello tragico: «l’illustre del tragico consiste nell’inespettata e sùbita mutazion di fortuna, e nella grandeza de gli avvenimenti che portino seco orrore e misericordia. […] Richiede la tragedia persone né buone né cattive, ma d’una condizione di mezzo: tale è Oreste, Elettra, Iocasta», Di-scorsi dell’Arte Poetica, in Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico... 12.

30. G. Giraldi Cinzio, Giudicio sopra la tragedia di Canace e Macareo (1545) e S. Speroni, ‘Canace’ e scritti in sua difesa – G. Giraldi Cinzio, Scritti contro la ‘Canace’, a cura di C. Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982. Vanno naturalmente ricordati i commenti alla Poetica di Trissino e i Discorsi dell’Ate poetica e del poema eroico di Tasso.

31. Lettera a Scipione Gonzaga, n. 34, in T. Tasso, Lettere Poetiche… 311. Id., Discorso del poema eroico... 142-144.

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sua Historia de gentibus septentrionalibus, un testo oggi conservato alla Biblioteca Pubblica di Leningrado, testo postillato da cui derivò notizie anche sui costumi e gli usi degli abitanti delle terre scandinave e danesi:

Però di Gotia e di Norveggia e di Suevia e d’Islanda o dell’Indie Orientali o di paesi di nuovo ritrovati nel vastissimo Oceano oltre le Colonne d’Ercole si dee prender la materia dei sì fatti poemi32.

Il Torrismondo è una tragedia complessa e densa di significati politici e ideologici ma è anche espressione di una visione poetica che, dopo l’espe-rienza di Sant’Anna, si va determinando sempre più in direzione morale e filosofica.

Nel rispetto del dettato aristotelico, dunque, Tasso sceglie due perso-naggi ‘tragediabili’, la cui condizione morale cioè non sia né interamente buona né interamente cattiva. Alvida e Torrismondo si macchiano di col-pe per errore e per ignoranza della verità. Cadono nella rete della passione ignorando di essere fratelli di sangue e sia l’una sia l’altro commettono il peccato del tradimento, la prima nei confronti delle promesse fatte al padre Araldo, che mai avrebbe sposato chi non avesse giurato di vendi-care la morte del fratello, il secondo nei confronti dell’amico fraterno, il re di Svezia, al quale aveva promesso di porate Alvida in sposa. Si con-figurano dunque due temi massimamente tragediabili, scrive nei Discor-si Tasso, l’Amore e l’Amicizia «convenevolissimo soggetto del poema eroico»33. Tuttavia, la difesa di questi due sentimenti onorevolissimi non

32. Cfr. T. Tasso, Discorsi del poema eroico… 109. Si deve a B.T. Sozzi nel capitolo dedicato alla tragedia del suo Nuovi studi sul Tasso, Bergamo, Centro Tassiano, 1963, sulla scia di sugge-rimenti carducciani l’identificazione del testo di Olao Magno tra le fonti del Torrismondo. Sul- l’esotismo come un requisito particolarmente efficace alla compassione Tasso si sofferma nei Di-scorsi dell’Arte poetica, laddove spiega che la lontananza dei tempi e dei luoghi è utile al poeta per-ché gli permette la licenza del fingere che, insieme al vero su cui la poesia deve fondarsi, procura il massimo diletto, cfr.: 9-10.

33. Cfr. T. Tasso, Discorsi del poema eroico… 107. A ulteriore conferma della convenienza dell’amore sia al tragico sia all’epico, Tasso ricorre all’autorità del Dante del De vulgari eloquientia citato in riferimento ai temi proprii della somma poesia: «la salute e l’amore e la virtù; la salute come utile, l’amore come piacevole, la virtù come onesta». Osservazioni preziose in merito al tema dell’amicizia svolge Guglielminetti ricordando tra i Dialoghi tassiani Il Manso, concluso nel 1592 e alcuni luoghi dei dialoghi platonici il Liside, il Fedro, il Simposio per riscontri filosofici presenti in Tasso. Platone, oltre che Aristotele, si conferma autore di fondamentale importanza e presenza nell’universo filosofico e culturale del poeta.

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concede nulla a un amore concupiscibile o soggetto all’appetito sensitivo, com’è infatti quello di Torrismondo nei confronti di Alvida. L’amore che Tasso ammette nell’eroico e nel tragico dev’essere abito della volon-tà, come disse san Tommaso, dunque amore come quello dei cavalieri o come quello nei confronti di Cristo che poerta al sacrificio di sé. Dunque si profilano i contorni di uno spazio tragediabile che separa nettamente ciò che è ammissibile, secondo i canoni aristotelici e quelli della morale cristiana riformata, e ciò che non lo è, per esempio, il disonore della virtù violata, l’empietà dei giuramenti spezzati, il tradimento della fiducia di amicizia e amore, l’onta del rifiuto, la menzogna. Il Torrismondo inscena la catastrofe di un sistema di valori, di un orizzonte di civiltà al tramonto, travolta dalla violenza, dalla rovina e dal sovvertimento traumatico di co-ordinate morali ritenute eterne.

Non tragedia di incesto, dunque, ma di amore e amicizia, come aveva ben intuito agli inizi del Novecento Umberto Renda riferendo il tema della favola tragica a un’opera di Giovanni Magno, fratello di Olao, e au-tore di una Gothorum Sueborumque historia (Basilea 1558), fonte ado-perata da Tasso, stando a Goudet, per la vicenda dei due amanti, Alvida principessa norvegese e Erico danese34. L’incesto non occupa una funzio-ne centrale nella complicazione della favola tragica. Tasso infatti fa deri-vare l’angoscia della regina non dalla notizia di essere sorella della persona che ama e con cui ha consumato furtivi amori ma dall’incomprensibile comportamento di Torrismondo che la tiene a distanza e ritarda le tanto desiate nozze. D’altra parte, pure Torrismondo impazzisce di dolore non perché abbia conosciuto la verità ma per aver tradito la fiducia dell’amico amatissimo, Germondo35.

Il primo Atto è bipartito nei due lunghi monologhi/confessione di Alvida prima e di Torrismondo poi e dei loro dialoghi rispettivamente con la Nutrice e con il Consigliero. Divisa in cinque atti alla maniera la-

34. U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento..., citato da Guglielminetti nella Introduzione a T. Tasso, Teatro… XXXIII. J. Goudet, La nature du tragique dans “Il Re Torrismondo” du Tasse, in «Revue des études italiennes» VII, 1961; Id., Johannes et Olaus Magnus et l’intrigue de “Il Re Torrismondo”, in «Revue des études italiennes» XII, I, (1966): 61-67.

35. Come osserva Guglielminetti nell’Introduzione al Teatro di Tasso, basta ripercorrere la successione delle scene e degli atti per accertare la correttezza di tale interpretazione: l’agnizione occupa tutto il IV Atto ma è già nel primo che i due protagonisti gridano il dolore per l’angoscia che li dilania e ne spiegano le cause.

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tina, la tragedia tassiana rispetta in tutto il resto il modello trissiniano, d’ispirazione greca, nella rinuncia al Prologo separato e alle rime36.

Si può dire che è già tutto anticipato e condensato in questo primo attacco scenico: Alvida, sollecitata dalla fida Nutrice, sfoga con trepida-zione il proprio dolore, il dilaniante conflitto tra desiderio e paura, il ter-rore per gli incubi notturni e la preconizzazione delle future sventure. In un eloquio ambiguo e allusivo, la nobile regina fa trasparire il terrore per gli ambigui segni: antichi prodigi (la profezia di accorte ninfe al duro Araldo), promesse antiche e nuove (la promessa antica al padre Araldo, quella nuova di Torrismondo a Germondo), minacce di fortuna e di stel-le congiurate, l’incubo notturno che la scuote di gelido terrore la notte e la concede di giorno alle vampe del desiderio. L’incubo ripete nel suo svolgimento topico tutti i simboli infausti già conosciuti nel sogno di So-fonisba: l’orrida ascosa spelonca, il gigante urlante, la pietra (tombale) che si richiude alle spalle di entrambe le regine, la violenta sottrazione dello sposo dal fianco della giovane, insomma, tutti gli elementi simbolici della profezia di morte che, nel Torrismondo, saranno disseminati lungo i restanti quattro atti della tragedia, intrecciando e intessendo i nodi della favola in modo sapiente e efficace (la testura della favola riferita nei Di-scorsi).

La bipartizione del primo Atto nella specularità dei due racconti, al femminile e poi al maschile, si riflette in modo calcolato sul piano della costruzione retorica e linguistica del discorso, attraverso una serie davvero cospicua di coppie antinomiche – luce/buio, gelo/fiamma, sogno/veglia – attraverso le quali Alvida esprime la scissione che la dilania, la spaccat-tura tra parti del proprio animo che non trovano ricomposizione alcuna. La chiave di accesso al significato di questa tragedia sta proprio nella spac-catura, nel conflitto, nella indissolubilità dei nodi che hanno complicato così tanto il destino dei due amanti che l’unico modo per scioglierli è troncarli, risolversi alla morte. Una morte, però, che al contrario di quella apparecchiata con sontuoso rito dalla dolce e soave Sofonisba, non pos-siede alcuna funzione ricompositiva né catartica in senso specificamente purgativo e assolutorio. Nel Torrismondo la morte dei due amanti getta l’animo nello sconforto per avere assistito a un sacrificio non necessario

36. Nel postillato tassiano alla Sofonisba, in corrispondenza del racconto di Alvida Tasso an-nota: «q.sto racconto tien luogo di prologo», La “Sofonisba” di Giangiorgio Trissino con note di Torquato Tasso… 4.

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né sul piano morale personale né su quello storico. Germondo pietosa-mente promette, ancora una volta, fedeltà all’estrema volontà dell’amico che gli ha lasciato una madre a cui pensare e un regno da governare ma non l’amata, risucchiata dalla tempesta dell’empia Fortuna.

Il bipolarismo costruttivo, si diceva, che innerva semanticamente e lessicalmente il tessuto linguistico della tragedia finisce con l’assumere una valenza metaforica più ampia e generale poiché si riferisce alla con-trapposizione tra due sfere dell’esistenza, la verità e la menzogna, il vero e il falso, la fede e il tradimento, entro cui si può scegliere di vivere. Il presentimento di verità nascoste, infatti, si rivela attraverso l’ossessivo ricorso a serie contrapposte di aggettivi e di corrispettive forme verbali: ‘occulto/secreto/ascoso’, ‘ascondere/adombrare/rinchiudere’ e, all’op-posto la serie del disvelamento: ‘rivelare/non negare/ben sapere’. Al pia-no dell’occulto, ambiguo, celato e ascoso, corrisponde il regno onirico del sogno; al piano diurno invece appartiene la brama ardente del desiderio, il calore della passione incontenibile dell’Amore.

Lassa me, simil sono a quella infermache d’algente rigor la notte è scossa,poi su ’l mattin d’ardente febre avampa;perché non prima cessa il freddo gelodel notturno timor, ch’in me s’accendel’amoroso desio, che m’arde e strugge (I. 1. vv. 55-60)

[…] ed io fratanto(deggio ’l dire o tacer?) lassa mi struggo,come tenera neve in colle aprico (I, 1. vv. 122-124)

Lo scontro tra i due piani – desiderio/contegno, ragione/inconscio – è poi risaltato dall’impiego di uno stile fortemente articolato su litoti e chiasmi, spesso in enjambement che enfatizzano la spezzatura, la rottura, la disarmonia:

[…] Bramo e pavento,no ’ l nego, ma so ben quel ch’i’ desio;quel che tema, io non so. Temo ombre e sogni,ed antichi prodigi, e novi mostri,

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promesse antiche e nove, anzi minaccedi fortuna, del ciel, del fato averso,di stelle congiurate; e temo, ahi lassa,un non so che d’infausto o pur d’orrendo (vv. 23-30)

In questa sequenza celebre della prima scena primo atto, le coppie di sentimenti opposti ma congiunti – bramo e pavento/ so ben-io non so – sorreggono una sintassi franta, interrotta da bruschi arresti a metà del verso endecasillabo; una sintassi che scorre affollando per polisinde-to – ombre e sogni/ed antichi prodigi, e novi mostri/promesse antiche e nove – i fattori scatenanti la paura di Alvida. Il tutto in un’imprecisa indistinta sensazione di orrore che dal piano onirico passa a quello della veglia imponendosi sulla visione diurna e chiara della realtà. Non solo le ombre e i sogni affiancano le visioni diurne di Alvida ma il profondo bagaglio di immagini risalite a galla dagli abissi della coscienza – antichi prodigi e novi mostri / promesse antiche e nove / furtive occulte nozze / ombre e notte – finiscono coll’invadere e perturbare la coscienza della re-gina. Il linguaggio e lo stile, come si è osservato, risentono certamente del sofferto lirismo di Petrarca, al quale Tasso guarda per movenze ritmiche e stilemi semantici (Bramo e pavento / stelle congiurate), ma assumono sempre più un registro sostenuto, declamatorio e ambivalente che riflette la scissione dei due amanti, dilaniati dal conflitto tra Onore e Amore e tra Amore e Amicizia37.

La serie orrorifica di immagini che in sogno assalgono Alvida – «for-me d’orrore e di spavento / le mura stillar, sudare i marmi / miro, o credo mirar di negro sangue / da le tombe antiche […] gran simolacro e gran rimbombo / una orrida spelunca / orribil guerra / de’ notturni fantasmi» – affonda le proprie radici nella coscienza più oscura della donna dove albergano inquietudini, paure imprecisate, oscuri presagi di catastrofe e simboli macabri che convergono nel segno di una rete di allusioni incon-sce alla sfera passionale e sessuale come suggerisce Morace confrontando

37. Dal Galealto al Torrismondo Tasso innalza il registro stilistico, così la filiale confidenza espressa dal pronome di seconda persona singolare si trasforma in una devota ma più formale allo-cuzione (G: Figlia, e Signora mia; T: alta regina) e il più ordinario Temo e desio del Galealto diventa nel Torrismondo un petrarchesco Bramo e pavento. Si rimanda all’edizione critica curata da Vercin-getorige Martignone e alle osservazioni di M. Ariani in Il discorso perplesso: ‘parlar disgiunto’ e ‘ars oratoria’ nel «Torrismondo» di Torquato Tasso...

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l’abbozzo del Galealto con il Torrismondo nei passi citati38. Nel passaggio dal Galealto al Torrismondo, infatti, viene meno il diretto riferimento all’incesto, i ‘sozzi amori’, evocato nell’abbozzo dai nomi delle tre eroine tragiche colpevoli di incesto, Fedra, Giocasta e Canace, e prevale uno sfu-mata rete di simboli premonitori della futura catastrofe. L’orrida spelon-ca che torna sottoforma di incubo, infatti, oltre a caricarsi del riferimen-to simbolico alla sfera sessuale39 allude all’antro dove da piccola Alvida fu reclusa dal padre al quale accorte ninfe avevano profetizzato sciagure proprio a causa della figlia. Immagini simboliche e profezie antiche com-pongono il quadro angoscioso di un incipit tragico che offre fin da subito le chiavi di senso per rivelare l’ordito complesso di una favola articolata, come Tasso scrive nei Discorsi, in agnizione, peripezia e catastrofe40.

In questa prima scena un posto di sicuro rilievo occupa, come sopra accennato, la descrizione del sogno, topos tragico assai comune nella tra-gedia del Cinquecento41. Assente nell’abbozzo, il linguaggio onirico fa la sua comparsa nell’incipit della tragedia rifatta connotandosi come linguaggio dell’ambiguità, del rimosso, dell’inconscio che riaffiora alla

38. Cfr. A.M. Morace, Sulla riscrittura della Tragedia non finita, in Torquato Tasso e la cultura estense..., III, 1029-1055; C. Gigante, Tasso… 268-308.

39. Sulle trasformazioni subite dal personaggio di Alvida nel passaggio al Torrismondo Mo-race (Sulla riscrittura della Tragedia non finita… 1039 e segg.) sottolinea l’ossessione del sangue e il progressivo ‘congelamento’ emozionale, ossia la riduzione, se non la radicale soppressione, di tutte le spie di un coinvolgimento più conturbante e passionale ancora presenti nel Galealto, dove, tra l’altro comparivano anche i ‘sozzi amori’ delle eroine tragiche Fedra, Giocasta e Canace. La natura referenziale di tale accenno cede nel Torrismondo a una più sfumata elocuzione: “or da le tombe antiche, ove sepolte / l’alte regine fur di questo regno, / uscir gran simolacro e gran rimbom-bo” che, tuttavia, non diminuisce gli effetti perturbanti che il sogno produce sulla veglia, rafforzati ulteriormente dal riferimento al sangue, negro sangue, che, nota correttamente Morace, se espri-me un’allusione alla vergogna di Alvida per non essersi conservata vergine prima del matrimonio, convalida dall’altro la presenza di dati storici e dunque verisimili nella tragedia. Morace infatti, a tal proposito, ricorda che in Olao Magno, fonte tassiana per la tragedia, è detto dell’usanza delle spose nordiche di interporre una spada nel letto coniugale per non cedere all’amplesso amoroso. Il riferimento al sangue, per Morace, è da connettersi inoltre alla vendetta richiesta da Alvida allo sposo, elemento assente nel Galealto, per la morte del fratello ucciso da Torindo (Germondo): “e pur vendetta io chiesi; / chiesi vendetta, ed ebbi fede in pegno / di vendetta e d’amor (T, vv. 88-90). Su tutti questi elementi testuali si rimanda a S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro…, 15 e 51-54.

40. T.Tasso, Discorsi dell’Arte poetica e del Poema eroico… 38-39, 141. 41. F. Ruggirello, Strutture immaginative nella tragedia del Cinquecento: il topos del sogno

premonitore, in «Forum Italicum», 39, 2, (2005): 378-397.

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coscienza con effetti perturbanti e traumatici42. Riallacciandosi alla tra-dizione platonica e medievale della veridicità dei sogni fatti all’alba, pro-prio nella soglia che separa la notte dal giorno, i sogni sia di Sofonisba sia di Alvida si configurano come sistemi linguistici semantici autonomi fondati sul significato simbolico delle immagini in esse racchiuse. L’or-rida spelonca, il gigante, le mura stillanti negro sangue affondano radici nell’immaginario classico e rilanciano l’idea di una gravissima ed empia colpa, commessa in un passato oscuro e senza coscienza, che causerà la ca-tastrofe, come nell’Edipo re, considerato non a caso il perfetto modello del tragico nel Cinquecento. Al di là del simbolismo figurativo che si affolla in modo particolare nella narrazione del sogno, è significativa l’intensità comunicativa del codice usato. Le immagini oniriche, riaffiorate in modo oscuro e ambiguo, colpiscono l’immaginario degli spettatori, proprio per effetto della capacità di penetrazione del linguaggio simbolico dei sogni, garantendo così la loro adesione emotiva (orrore e misericordia); così, se la spelonca orrida e oscura può alludere alle viscere ctonie dove la regi-na è risospinta, configurandosi quindi come presagio di morte, le mura grondanti negro sangue, richiamando alla memoria l’analoga immagine virgiliana usata nelle Georgiche per la morte di Cesare, allude a un crimi-ne altissimo; infine, il riferimento al colore rosso del sangue («sanguigna sferza»), che ritornerà più avanti in occasione dei doni offerti da Ger-mondo («alta corona / come riluce di vermiglio smalto! / Sono stille di sangue. Il don conosco» III, 3, vv. 14-16), introduce un simbolismo cro-matico che sarà disseminato coerentemente lungo tutta la favola tragica, dal primo all’ultimo Atto43.

42. Nel Galealto compare piuttosto il sonno: G: «Ohimè, giamai non chiudo/queste luci me-schine in breve sonno, / ch’ a me forme d’ orrore e di spavento / non appresenti il sonno» che diventa in T.: «Ohimè, giamai non chiudo / queste luci già stanche in breve sonno, / ch’ a me forme d’ orrore e di spavento / il sogno non presenti». Il sogno assume una funzione determinante nella nuova tragedia perché introduce immagini altamente simboliche in una psiche perturbata e instabile, ossessionata dal ritorno di un immaginario spaventoso che riaffiora nelle zone meno con-trollate dalla coscienza. La posizione retoricamente forte, nel monologo-antefatto della tragedia, di tali elementi che si ripercuoteranno sulle traiettorie successive dei destini dei personaggi, è un segno ulteriore della coesione serrata tra gli Atti e le Scene del Torrismondo e cioè della profonda coscienza tassiana dei modi del comporre poesia tragica.

43. Il sangue è elemento simbolico di altissima pregnanza e funzionalità nell’intreccio della favola, sia perché è sanguigno il vincolo che lega in un fatale nodo il destino di Alvida a quello del fratello consorte e amante, sia perché ‘di sanguigno’ anche loro, come gli illustri antenati letterari, Francesca e Paolo, tinsero il mondo di sangue ovvero morirono di morte violenta. Pertanto, il ri-

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Il linguaggio del tragico tassiano dunque si articola su due piani o livel-li di significazione, uno visionario e onirico l’altro vincolato al controllo razionale, piani che intrecciandosi rendono complessa e ambivalente la parola tragica. Rispetto infatti alla chiarezza pur allusiva del tragico tris-siniano, la lingua del Torrismondo introduce spie di contraddizione in-terna, di doppiezza, di negazione come forzata repressione delle pulsioni autentiche del desiderio, e diviene pertanto ambivalente, falsa e vera allo stesso tempo, introspettiva e intransitiva perché sembra costantemente tornare su se stessa, scagliarsi contro una parte della stessa coscienza che l’ha generata, lasciando l’altra silente, neutralizzando le possibilità riso-lutive del dialogo. I personaggi tragici nel Torrismondo, per la verità, si risolvono nel pronunciamento di estenuanti monologhi, di confessioni ad alta voce, di sfoghi di una coscienza inquieta e turbata, interpretando la forma dialogica piuttosto come dilemmatica voce interiore. Gettati nel vortice tempestoso dei rovesci della Fortuna, non resta loro che trovar conforto alle intime inquietudini e profonde paure sul piano discorsivo e retorico di una parola che possa in parte smorzare la violenza di forze av-verse. In questo senso, il linguaggio tragico del Torrismondo, come osser-va Ariani, si fa carico delle inquietudini di un’età non ancora pienamente barocca ma intensamente manierista nella quale si subisce il fascino e la paura dello straniamento e della scissione.

Nel monologo confessione al Consigliero, anche Torrismondo rime-mora la vicenda d’amore con la regina, intarsiando il proprio discorso con tutte le immagini simbolo già evocate nel sogno di Alvida, l’orrida spe-lonca, l’erme arene, gli alti lamenti e il fiero latrare di mostri orrendi che nel caso di Torrismondo sono figurazioni terribili dei suoi sensi di colpa:

Ahi, quando mai la Tana, o ’l Reno, o l’Istro,o l’inospite mare, o ’l mar vermiglio,o l’onde caspe, o l’ocean profondo,potrian lavar occulta e ’ndegna colpache mi tinse e macchiò le membra e l’alma?[… ]

ferimento al segnale simbolico del sangue/sanguigno/sanguigna percorre la favola tragica, legando strettamente le sue diverse parti: prologo, evento, peripezia, agnizione, catastrofe. Si veda a titolo esemplificativo il monologo di Germondo nel IV Atto, 1, vv. 139-144 e le parole testamentarie lasciate da Torrismondo per iscritto all’amico, in V, 5, vv. 19-26, nelle quali è ribadita la causa della colpa, grave pondo nell’animo di Torrismondo, l’aver tradito la sacra amicizia.

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Ma che mi può giovar, s’io non m’ascondoa me medesmo? Oimè, son io, son io,quel che fuggito or sono e quel che fuggo:di me stesso ho vergogna e scorno ed onta,odïoso a me fatto e grave pondo. (I, 3, vv. 1-5, 32-36)44

Attraverso sintagmi cari al Petrarca lirico, Torrismondo esprime la causa dei propri mali, se stesso e la propria immonda coscienza, ma ancor più determinante è la forza propulsiva derivante dall’archetipo dantesco dei due amanti lussuriosi del V dell’Inferno, ricordati nell’espressione del dolore acerbo fatto ancor più grave dal rimemorare un dolce errore «Ma troppo accresce / questa dolce memoria il duolo acerbo» (I, 3, vv. 80-81 e Inf., V, 121-23) e ancora: «benché paventa / e ’norridisce a ricordarsi il core,/e per dolor rifugge, onde sgednosa / s’induce a ragionar tarda lin-gua» (vv. 93-96). Nei due paralleli racconti di Alvida e di Torrismondo, alla Nutrice e al Consigliero, tornano intrecciati i medesimi riferimenti ai segnali della passione e alla colpa che per vie ancora in parte oscure la adombra. Di fronte a tale immonda colpa, non valgono più i segni regali, il titolo di re, la pompa e l’ostro, il diadema gemmato e lucente d’oro o la fama di cavaliere.

Vivo ancor dunque, e spiro, e veggio il sole?Ne la luce del mondo ancor dimoro?E re don detto, e cavalier m’appello?La spada al fianco io porto, in man lo scettroancor sostegno, e la corona in fronte? (I, 3, vv. 6-10)

Schiacciato dalla vergogna, Torrismondo preferirebbe errare come fuggiasco, lontano dagli obblighi della corte:

Lasso, io ben me n’andrei per l’erme arenesolingo, errante; e ne l’Ercinia foltae ne la negra selva, o’n rupe o’n antroriposto e fosco d’iperborei monti,

44. «cagione antica occulta» (I, 2, v. 26) è detta dalla Nutrice la sospetta causa del timore di Alvida, segreta e remota perché risalente a un tempo lontano che riemerge sottoforma di larve e sogni.

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o di ladroni in orrida spelunca,m’asconderei dagli altri, il dí fuggendo,e da le stelle, e dal seren notturno (I, 3, vv, 25-31)

Tutti e tre i protagonisti del dramma, Alvida, Germondo e Torri-smondo, sono tormentati dal medesimo nodo d’amore, dalla violenza di un sentimento che più è respinto più travolge con l’impeto della sua po-tenza, metaforicamente evocata per metafora dalle forze scatenate della natura, il fuoco, l’acqua, le nubi:

E ben è ver che negli umani ingegni,e più ne’ più magnanimi e più alteri,per la difficoltà cresce il desio,in guisa d’acqua che rinchiusa ingorga,o pur di fiamma in cavernoso monte,ch’aperto non ritrova uscendo il varcoe di ruine il ciel tonando ingombra. (I, 3, vv. 199-202)

La medesima forza travolgente di Amore, invano respinto, assale con fiero impeto Alvida e Torrismondo, nella notte, complici gli sguardi fur-tivi e le parole spezzate, l’ozio lungo e lento e il tempo largo, siglando così nel ricordo dantesco l’episodio d’amore:

Ahi ben è ver che risospinto Amorepiù fiero e per repulsa e per incontroad assalir sen torna, e legge anticaè che nessuno amato amar perdoni (I, 3, vv. 261-264)

La descrizione della tempesta occupa una cinquantina di endecasillabi che traducono l’incessante e spaventosa violenza delle raffiche di vento, il mostruoso ergersi di onde altissime, l’improvviso rovescio di acque, in una rapida sequenza, per paratassi e polisindeto, di brevi e brevissimi sin-tagmi e in enumerazioni verbali per asindeto che restituiscono per mime-si fonico-simbolica la tremenda apocalittica sciagura:

e la crudel fortuna e ’l cielo averso,con Amor congiurati, e l’empie stelle

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mosser gran cerchio e procelloso a cerchio,perturbator del cielo e de la terra,e del mar vïolento empio tiranno,che quanto a caso incontra intorno avolge,gira, contorce, svelle, inalca, e porta,e poi sommerge; e ci turbâro il corsotutti gli altri fremendo, e Borea ed Austro (I, 3, vv. 269-277)

La Natura è sconvolta, squassata da forze profonde, i venti soffiano fortissimi, le onde altissime si abbattono sui fianchi della montagna, svellono, strappano e squarciano la terra aprendo voragini profondis-sime e tenebrosi abissi. Oscure potenze, come nell’antecedente virgi-liano di Enea e Didone, congiurano ai danni dei due amanti. Scagliati in una solitaria spiaggia, scesa la notte, i due consumano ‘furtivi amori’ (v. 328):

Ahi lasso, allor per impensata colparuppi la fede, e vïolai d’onoree d’amicizia le severe leggi.Contaminato di novello oltraggio,traditor fatto di fedele amico,anzi nemico divenuto amando,da indi in qua sono agitato, ahi lasso,da mille miei pensieri, anzi da millevermi di penitenza io son trafitto (vv. 335-343)

L’Amore dunque si colora di colpa e di vergogna, divenuto nemico della Fede e dei sacri giuramenti di Amicizia, e capovolge i termini del rapporto instaurato qualche anno prima nell’Aminta, dove invece esso trionfava sull’Onore. Nella tragedia Tasso istituisce una conflittualità rigida tra ciò che è giusto e onesto, la Fede e l’Onore e la Ragione, e ciò che porta a errore, la Passione travolgente, l’Amore incontinente. Non c’è spazio per la libera e incolpevole effusione di sentimenti nell’universo tragico tassiano ma solo per un mondo ordinato all’insegna di una ra-zionale vita di valori virtuosi e onesti. Sembra cioè che dopo Sant’Anna maturi in Tasso la ricerca di sicuri e saldi appigli teologici e filosofici che orientano il suo sguardo lontano dal giovanile orizzonte poetico e mora-le: le letture che costellano l’ultimo decennio di vita del poeta orientano

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la sua ricerca nella direzione di un esercizio poetico volto al giovamento morale, al perfezionamento dello spirito attraverso la ricerca di ciò che è bello e buono in senso anche filosofico45.

La stessa vergogna per le ‘furtive occulte nozze’ tormenta Alvida, che seppellisce l’episodio nel profondo della coscienza come un intollerabile rimosso:

[…] in riva al marein erma riva e ’n solitaria arena,come sposo non già, ma come amante,ei fece le furtive occulte nozze,che sotto l’ombre ricoprì la notte,e ne l’alto silenzio; (I, 1, vv. 105-110)

La guerra interna che scoppia nell’animo di Alvida è proiettata all’e-sterno sul piano retorico del linguaggio nella forma di un chiasmo vio-lentemente disarticolato dall’enjambement. Il forte e risaltato chiasmo, «riva al mare/in erma riva», spezzato dall’enjambement, di membri qua-si palindromi (mare/erma), è figura icastica della frattura radicale tra due piani della coscienza non più armoniosamente coesistenti; è segnale re-torico del mancato rispecchiamento di Alvida con se stessa, dell’infranta integrità tra il piano cosciente e l’oscuro rimosso che torna a riprendere forza sotto forma di incubo. Sembra che sul finire del secolo non sia più possibile ricomporre i conflitti e che ogni microcosmo umano sia un si-stema impazzito di spinte e controspinte in reciproca opposizione.

Nel passaggio dal Galealto al Torrismondo l’intervento correttorio di Tasso si è mosso nella direzione di smorzare, attenuare, la esasperazione dei sentimenti più passionali, così i ‘sozzi amori’ diventano ‘furtivi amo-

45. Si veda il Libro I dei Discorsi del poema eroico… 68, dove è dichiarato esplicitamente che il fine della poesia è il giovamento e dove tra gli auctores sono presenti Tommaso d’Aquino, sant’A-gostino, le Orazioni di Gregorio di Nazianzo, i commenti biblici di Girolamo, e ancora Plutarco, Platone, Elio Aristide, etc: «il poeta […] in quanto è uomo civile e parte della città, […] si propone il giovamento, il quale è onesto più tosto che utile. […] Laonde non meritano lode alcuna coloro c’hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa che l’Ariosto descrisse quel di Rug-giero con Alcina, o di Ricciardetto con Fiordispina». Sebbene qui Tasso si riferisca alla poesia eroica, non c’è motivo di non credere che fosse compresa anche la poesia tragica che con la eroica condivide il soggetto e il cui fine è muovere terrore e compassione ai fini della purgazione morale. C. Gigante, Tasso… 334 e, in generale, i capp. I e III di S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro...

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ri’ e più insistito è il richiamo alla ‘santa onestà e onesta vergogna’ con cui temperare la fiamma d’amore. La Nutrice che nel Galealto invitava la regina a ‘frenare il desio’, adesso consiglia l’onestà che deve temprare ‘il soverchio ardore’, come si conviene a giovinetta virtuosa che adoperi prudenza e saggezza, virtù richieste peraltro alla perfetta donna di corte46:

Ma la santa onestà temprar dovrebbe,e l’onesta vergogna, ardor soverchio,perch’ei s’asconda a’ desiosi amanti (vv. 133-135)

In conformità con il protocollo controriformistico qui Tasso fa pre-valere una ponderata oculatezza di comportamento, una calcolata stra-tegia di azione che subentra alla sfrenata espressività delle passioni, che nel contesto nuovo delle corti post-tridentine non sono più riconosciute e ammesse. È anche questo uno dei segnali più espliciti che rivelano il cambiamento di Tasso dopo Sant’Anna, il suo disincanto, il suo ritirarsi discreto al riparo di una precettistica rigorosa e severa in linea con i tem-pi, la sua ricerca di poesia come verità47.

Fin dall’ingresso in scena di Alvida l’immaginario dello spettatore è letteralmente invaso dall’inquietudine di tutti i personaggi che riflet-te, amplificandolo, il senso di instabilità e di precarietà della condizione

46. S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro… 15-16 e note. Il confronto tra l’abbozzo e il Tor-rismondo e tra questo e alcuni Dialoghi quale, per esempio, il Padre di Famiglia, autorizza a parlare di una diffusa e omogenea riduzione dei caratteri espliciti e troppo scoperti della passione amorosa e del ricorso alle virtù proprie delle oneste donne alle corti cinquecentesche, rilievo che rafforza una lettura del Tasso tragico come di un poeta il cui immaginario poetico e la cui ideologia civile e politica erano influenzati dall’etica cortigiana ma di una corte post-tridentina irrigidita ormai in un formalismo di maniera.

47. Nel Discorso del poema eroico… 89, il poeta è detto simile al teologo come facitor di im-magini: «Laonde, quantunque il poeta sia facitor degli idoli, ciò non si dee intendere ne l’istesso significato nel qual si dice ch’il sofista è fabro degli idoli, ma debbiam dire più tosto che sia facitore de l’immagini a guisa d’un parlante pittore, e in ciò simile al divino teologo, che forma l’imagini e co-manda che si facciano». Gli anni successivi alla scarcerazione furono per il poeta costellati di intense letture e alacre lavoro creativo e teorico. Emerge un’energia intellettiva molto forte che contrasta con l’immagine del poeta sfibrato dalla reclusione e spento nella vivacità creativa, per giustificare il giudizio svalutativo nei confronti dell’ultima produzione in versi e in prosa, che sarebbe stata forte-mente condizionata dal suo instabile stato di salute mentale. Cfr. Gigante, Tasso… 36-42 che cita, tra gli altri testi, le Lettere n. 123, 124, 133, che sono veri e propri discorsi di autodifesa dalle accuse di eresia, lettere spesso assai lunghe nelle quali il poeta dà prova di capacità logico-argomentative e di vasta e solida sapienza letteraria da ritenere poco credibili i pregiudizi sulla sua follia.

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umana. La peripezia, oltre che essere necessaria alla favola tragica, infatti, è il sintomo ben riconoscibile del mutamento, del rovesciamento degli equilibri, della fine dell’armonia come legge e regola dell’universo. Ades-so il cielo e le stelle congiurano ai danni dei miseri mortali schiacciati da sentimenti di instabilità e incertezza48.

La lunga confessione di Torrismondo al Consigliero (I, 3, vv. 68-376) si articola in sei parti: il racconto dell’infanzia (gli errori miei) e poi della giovinezza errante in paesi e genti lontane, il patto d’amicizia con il caro e valoroso Germondo, «disgiunti/di loco, e più che mai di core uniti» (vv. 135-136); l’innamoramento di Germondo per Alvida e il rifiuto del superbo e altero padre perché il re di Svezia è l’uccisore del fratello di Alvida (vv. 141-210); la promessa strappata a Torrismondo di ottenere la mano di Alvida con l’inganno (vv. 211-243); il viaggio di ritorno in nave di Torrismondo e Alvida, la tempesta (vv. 244-311); il naufragio nel porto dove si consuma il ‘cieco furto’ e il tradimento delle leggi sa-cre dell’amicizia (vv. 312-334); il lamento di Torrismondo («ruppi la fede, e vïolai d’onore/e d’amicizia le severe leggi», vv. 335-376) e il de-siderio di morte49. La sequenza è intessuta di espliciti echi letterari, che vanno dagli «amorosi martiri» di Torrismondo, che richiamano la serie dantesca in rima martìri-sospiri-disiri di Inf., V, all’avverbio orribilmente (Inf., V, 4) che torna ossessivamente anche nelle parole dei due eroi tra-gici – orribilmente-orribil notte – a stringere ancora di più il nesso tra i due amori tragici, fino alla colpa del sangue che, come sopra anticipato, macchia e contamina come onda travolgente le sequenze della favola e sigla definitivamente il tragico tassiano in chiave letteraria, della più alta e nobile espressione poetica50. Nel Torrismondo rivive l’esperienza del

48. Cfr. A. Hauser, Il Manierismo: la crisi del Rinascimento e l’origine dell’arte moderna, Torino, Einaudi, 1965. Le volute elicoidali delle più famose composizioni scultoree e architettoni-che di Bernini e, in generale, dell’arte barocca, sono quasi la traduzione perfetta dei vortici rapinosi della tempesta raffigurata nella tragedia.

49. A proposito dell’incolpevole incontinenza di amore, Verdino richiama il Discorso della virtù femminile e donnesa, a cura di M.L. Doglio, Palermo, Sellerio, 1997: 66-67, dove Tasso distin-gue tra l’intemperanza viziosa e l’incontinenza che, invece, soggiace vinta alla potenza irresistibile di Amore. Secondo lo studioso della seconda sarebbe soggetto Torrismondo più che Alvida mentre a me pare che lo sia anche la regina di Norvegia.

50. Cfr. I, 6 e V, 1, vv. 131-144: «Per lui ricovro / ne la pace e nel porto, e lascio il campo / e l’orrida tempesta e i venti aversi. / Vera amicizia dunque il mar sonante / mi faccia, o quieto, il ciel sereno, o fosco; / e di ferro m’avolga e mi circondi, / e mi tinga in sanguigno i monti e l’onde, / se

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tramonto della civiltà cortese, vagheggiata come impossibile revenant in un’età come quella in cui vive Tasso, dilaniata da tradimenti e inganni, da battaglie intestine e da lotte di potere. Nel tradimento del sacro vincolo amicale e fraterno tra Germondo e Torrismondo, dunque, si celebra an-che la fine della civiltà che in quel valore per secoli si era riconosciuta. Il tradimento dei sacri patti non produce la catastrofe solo dei due amanti ma anche la rovina politica perché, rotto il vincolo nuziale tra Alvida e Torrismondo Germondo, re di Svezia, eredita in un sol colpa il regno di Gozia e quello di Norvegia, morto il duro re Araldo.

Al Consigliero, che conosce l’onesto valore del proprio re e lo invita a allontanare da sé il pensiero della morte, Torrismondo risponde che solo la propria morte potrà liberare Alvida e Germondo dall’onta di un so-spetto immondo, salvando l’onore di Alvida, che sposerebbe Germondo come onesta sposa e che, al contempo, solleverebbe quest’ultimo dall’on-ta di una progenie bastarda frutto ‘d’impudichi amori’ (vv. 480-509). «Dura sorte!» conclude Torrismondo, dura sorte conferma il Consi-gliero che lamenta sconsolato la severa legge della necessità, a cui gli ‘egri mortali’ sono sottoposti come le stelle erranti e ogni altra creatura vivente («gli ordini suoi fatali e l’alte leggi», v. 538).

«L’onore / seguita il bene oprar, come ombra il corpo» declama sen-tenziosamente Torrismondo e il Consigliero gli fa eco suggerendo di so-stituire Alvida con Rosmonda, ancora ritenuta sorella di Torrismondo, affinché «viva con l’onor l’onesto / e con l’amico l’amicizia e ’l regno» (vv. 567-568). Tale soluzione salverebbe l’Onestà, l’Onore, l’Amicizia e il Regno in perfetta armonia con le regole del comportamento richieste ai più prestanti, agli eccellenti e virtuosi principi e regnanti, sui quali na-turalmente potevano rispecchiarsi i contemporanei di Tasso. Al termine del I Atto, Torrismondo è convinto: chiederà alla sorella Rosmonda di sostituirsi a Alvida e accettare le nozze con il re di Svezia e solo se il piano fallirà si darà la morte, «porto de le miserie e fin del pianto» (v. 590).

Il II e il III Atto introducono rispettivamente Rosmonda e Germon-do i cui doni scatenano il perturbamento di Alvida, sospesa nell’incono-scibilità dei segni. Sarà infatti lungo il IV e V Atto che avverrà la lenta e

così vuole, o ’l sangue asciughi e terga, / e mi scinda la spada al fianco inerme». In nome della sacra amicizia Germondo lascia a Torrismondo l’amata Alvida, rinunciando a scatenare odii e guerre sostituendo l’antico patto con uno nuovo. Si notano qui i riferimenti alla stessa trama semantica simbolica (orrida tempesta-ferro-sangue) avviata da Alvida e proseguita da Torrismondo.

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progressiva agnizione, il disvelamento dell’orribile verità che precipiterà i due fratelli-amanti verso la catastrofe. All’arrivo dei doni di Germon-do, Alvida trema di terrore perché nel profondo della coscienza sospetta che siano i segni infausti di una imminente rovina, e qui la scissione e lo straniamento raggiungono il punto più alto della tensione tragica nella moltiplicazione di interrogative per asindeto in un ritmo sincopato e sus-sultorio dovuto alla brusca cesura collocata proprio a metà del verso:

Quai doni io veggio? E quai parole ascolto?Quale imagine è questa? A chi somiglia?A me. Son io, mi raffiguro al viso,a l’abito non già (III, 6, vv. 1-4)

Nelle parole della Nutrice torna l’amara consapevolezza di essere sot-toposti alla volubilità della possente Fortuna che muta e rivolge incessan-temente il destino dei mortali:

N.Non so, ma varie cose asconde il tempo,altre rivela, e muta in parte e cangia;muta il cor, il pensier, l’usanze e l’opre

A.Di mutato voler conosci i segni?Son d’amante o d’amico i cari doni?Chi mi tenta, Germondo o ’l suo fedele?Tenta moglie od amica, amante o sposa?[…]Forse deggio io fallir perch’ei non erri?O deggio forse amar perch’ei non ami?O più tosto odiar perch’ei non odi? (III, 6, vv. 125-138)

La volubile sorte che volge e rivolge i destini dei ‘faticosi abitator del mondo’ perturba il corso delle loro vite e investe anche il piano espressi-vo del linguaggio: chiasmi, ossimori, litoti traducono in forma di figura retorica il conturbante dissidio del cuore, la sospensione dubbiosa, l’in-conoscibilità del giusto operare, la certezza della sventura. Il Coro che chiude il terzo Atto invoca il possente signore, Amore, affinché non scac-

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Ahi lagrime, ahi dolore!

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ci Amicizia, «S’offendi lei, pur te medesmo offendi», ritorcendo contro se stesso il male e la guerra:

Amor, fa teco pace,perch’è vera amicizia amor verace (Coro, III, vv. 58-59)

Il quarto Atto che culmina col grido del Coro «Quale arte occulta, o qual saper adempie / da le celesti sfere / d’orror gli egri mortali e di spavento?» (IV, vv. 1-3) prepara la catastrofe con l’agnizione della verità svelata da Rosmonda e anticipata dalle spie lessicali contenute nelle paro-le di Germondo, che accetta il consiglio prudente del Consigliero per la pace e la onesta amicizia che lo lega a Torrismondo:

Per lui ricovrone la pace e nel porto, e lascio il campoe l’orrida tempesta e i venti aversi.Vera amicizia dunque il mar sonantemi faccia, o queto, il ciel sereno, o fosco;e di ferro m’avolga e i circondi,e mi tinga di sanguigno i monti e l’onde,se così vuole, o ’l sangue asciughi e terga,e mi scinga la spada al fianco inerme. (IV, 1, vv. 136-144)

Nella pacata risposta di Germondo compaiono tutte le parole chiave della ‘ascosa colpa’ che fin dall’inizio ha intrecciato, in una fitta trama ambiguamente allusiva, i destini dei tre protagonisti: l’orrida tempesta-il ferro-sanguigno-sangue. Cresce il terrore, si ispessisce la coltre di nebbia che ancora avvolge il vero ma che sta per dissiparsi per effetto dell’agni-zione:

È semplice parlar quel che discoprela verità. Però, narrado il vero,con lungo giro di parole adorneor non m’avolgo (IV, 2, vv. 1-4)

Rosmonda va rapidamente al cuore del racconto verace e lo fa adot-tando un parlare semplice e diretto privo di quei giri di parole propri del

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ver c’ha faccia di menzogna51.Tutto il quarto Atto, e in particolare la sequenza di cui è protagonista

Rosmonda, è intessuto di giochi chiaroscurali in cui attraverso graduali svelamenti, convulse domande («Chi fece il grande inganno, o ’l tenne ascosto/tanti e tanti anni?») e litoti con effetto ritardante («T: Non sei sorella mia? R: Né d’esser nego») Rosmonda rivela l’inganno, la frode ordita ai danni di Alvida. L’atto quarto è ossessivamente intessuto di spie lessicali riferite alla verità e al falso, all’inganno e alla frode, che hanno la funzione di preparare semanticamente il terreno alla agnizione:

S’è ciò pur vero, è con modestia il vero[…] È picciol dannoperder l’opinion, ch’è quasi un’ombra,e di finta sorella un falso inganno (IV, 3, vv. 40-45)

L’ombra e l’oscurità che avvolgono il vero sono le stesse che regnano nell’antro dove la vera figlia del re, Alvida, fu occultata alla madre e allevata da accorte ninfe. La ‘mirabil fraude’ ordita ai danni della vera figlia è corri-sposta dalla finzione e dall’inganno cui alludono anche i luoghi che si pre-stano alla frode: l’antro oscuro come bel teatro e tempio, ombroso, venera-bile, secreto, la selva e i verdi chiostri che, con facile richiamo, alludono alle due giovani, Alvida e Rosmonda, la vera e la falsa sorella di Torrismondo.

51. Il richiamo alla poesia allegorica dantesca confermerebbe l’insistenza nei Discorsi del po-ema eroico per una poesia verità che sia di utile giovamento, anche attraverso il diletto. La poesia eroica e tragica, in particolare, narrando le azioni illustri di eccellenti e mezzane persone non può che essere fondata sul vero e cantare il verisimile. Falsità e inganno sono proprie dell’incanto di Ar-mida nei confronti dei cavalieri erranti e soprattutto di Ruggiero, intrappolato dalle sue magie nel giardino incantato (Liberata, XVI). Il canto di Armida è pervaso da languida bellezza e da giochi retorici quali palindromi, rispecchiamenti semantici quasi identici che traducono sul piano espres-sivo l’ingannevole specularità del vero e della sua proiezione immaginaria. Tutto il XVI canto è poi pervaso da una diffusa sensazione di vaghezza amplificata dal raddoppiamento progressivo, in giri e giri, delle forme circolari e labirintiche del giardino della maga, riprodotte nei primi versi del canto: «Tondo è il ricco edificio, e nel più chiuso / grembo di lui, ch’è quasi centro al giro, / un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso / di quanti più famosi unqua fioriro. / D’intono inosservabile e confuso / ordin di loggie i demon fabri ordiro, / e tra le oblique vie di quel fallace / ravolgimento impenetrabil giace». Colpisce l’insistenza di aggettivi, avverbi e verbi che rimandano all’immagine della cir-colarità, della obliquità e della apparenza fallace. La sua opulente varietà è qui segnale di errore e disviamento dalla retta via che dovrebbe speditamente riunire i cavalieri sotto le sacre insegne del loro capitano, Goffredo di Buglione. L’analogia con il parlare adorno di Rosmonda come simbolo di discorso fallace risalta chiaramente.

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Ahi lagrime, ahi dolore!

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Appresso un antroche molte sedi ha di polito sassoe di pumice rara oscure celledentro non sol, ma bel teatro e tempioe tra pendenti rui alte colonne,ombroso, venerabile, secretoMa lieto il fanno l’erbe e lieto i fonti,e l’edere seguaci e i pini e i faggi,tessendo i rami e le perpetue frondesí ch’entrar non vi possa il caldo raggio. (IV, 3, vv. 126-134)

Nella sequenza citata tutto esprime bellezza e vaghezza e seduzione. L’analogia con il teatro e il tempio e la lussureggiante vegetazione sugge-risce dell’antro una lettura in chiave ancora una volta letteraria. La sua descrizione ricorda infatti illustri precedenti dell’Antro delle Ninfe di Porfirio, ricordato esplicitamente da Tasso nei Discorsi del poema eroi-co, e il suo archetipo per eccellenza, i versi dell’Odissea in cui è descritto l’antro dove Ulisse custodirà i doni ricevuti dal re dei Feaci. Una tra-ma letteraria per indicare una catena di significati riferibili all’immagine simbolica dell’antro oscuro, controfigura tragica dell’orrida spelonca ma come questa luogo secreto dove possono celarsi le verità, essere per sem-pre nascoste al mondo; una sorta di locus amoenus nel quale nascondere inganni e tradimenti in eterno52. È nell’antro oscuro che venne escogita-

52. Ancora nel IV Atto l’inconoscibilità del vero a cui sono destinati i mortali è confermata dalla figura dell’Indovino che il Coro chiama «il Saggio / a cui sol fra’ mortali è noto il vero / da caligini occulto e da tenèbre» (IV, 4, vv. 51-53). La figura dell’Indovino richiama quella degli angeli messaggeri tra Dio e gli uomini, già sperimentati nel primo poema, la Liberata, e sul piano teorico, ampiamente trattata nel Dialogo Il Messaggiero, risalente agli anni dell’incarcerazione a Sant’Anna, 1579. Mentre l’uomo è vittima dell’inganno ed è estraneo alla verità, i messaggeri, come l’Indovino possono rivelarla attraversi ambigui segni. Si rintraccia in questa concezione l’eredità di un patri-monio filosofico di ascendenza platonica impiantato nella salda impalcatura formale aristotelica. Di ascendenza neoplatonica è, dunque, la morfologia e il significato di luoghi quali l’antro secreto e ombroso dove resterà nascosta la piccola figlia del re Araldo ovvero la sua vera identità. Sulla re-ligiosità di Tasso Ardissino scrive: «Ne emerge la figura di un grande intellettuale che ha voluto abbinare alla poesia l’ermeneutica e la filosofia, nella ricerca di una parola veritativa, che ponesse la poesia all’altezza della filosofia e della teologia, che le desse dignità conoscitiva e sottraesse la creazio-ne di poesia al compiacimento edonistico o al riuso intellettualistico, per riflettere sulla condizione umana e proporre, tramite l’immaginazione, una prospettiva anche sulle realtà “non parventi”», in Il pensiero e la cultura religiosa di Torquato Tasso. Rassegna e discusione su un quinquennio di studi (1998-2002), in «Lettere italiane», LV, 4, ottobre-dicembre (2003): 590-614, 592.

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to l’empio inganno che innescò la rovina di Alvida. Qui l’accorto parlare delle maghe, le loro arti ingannevoli, il vano incanto convinsero il fiero re a ordire una trama infinita di menzogne ai danni della bella regina e anche di Rosmonda, vittime entrambe del volere tirannico di Araldo, «i cui secreti al folle volgo / ben commessi non sono» (IV, 3, vv. 184-185). Terribilmente schiacciata dal volere dispotico del re, infatti, è anche Ro-smonda le cui aspirazioni erano di vivere libera da obblighi maritali e di corte e di conservarsi casta devota di Diana, come aveva promesso alla madre, libera «da questa real superba vita / fuggirei, come augel libero e sciolto, / a l’umil povertà di verde chiostro»53. Anche lei perciò si è dovu-ta piegare al dispotismo di un re protervo e avaro, rinunciando ai propri sogni di vergine amazzone:

Ed a me gioveria lanciare i dardi tal volta in caccia e saettar con l’arco, e premer co’ miei gridi i passi e `l corso di spumante cinghiale, […] poiché non posso il crin d’elmo lucente coprirmi in guerra, e sostener lo scudo che luna somigliò di puro argento, con una man frenando alto destriero, e con l’altra vibrar la spada e l’asta, come un tempo solean feroci donne […] Ma se tanto sperare a me non lece, almen somiglierò, sciolta vivendo, libera cerva in solitaria chiostra, non bue disgiunto in male arato campo. (II, 4, vv. 238-254)54

53. T. Tasso, Torrismondo, II, 3, vv. 15-17. Nell’abbozzo: «sciolta / da’ maritali lacci» vv. 1032-1033.

54. Martignone indica l’antecedente senechiano nella Fedra, 110-111, prima dei più recenti legami di parentela con la favola pastorale amintea. Come Fedra, anche Rosmonda rimpiange la libertà di una vita da amazzone e reclama la cintura di castità al posto dei segni della regalità, la corona, le collane e perle di neve alle orecchie, non profumi orientali né vesti pregiate; come Al-vida, che nel Torrismondo lamenta le conseguenze di una passione d’amore irrefrenabile benché incestuosa e illegittima, anche la Fedra senechiana lamenta la schiavitù di una passione d’amore empia che la porterà alla rovina, senza fallo. Entrambe, come vuole il codice tragico, si sfogano con la Nutrice che cerca di rasserenarle. Alla figura di Rosmonda dedica una acuta analisi D. Chiodo, Il Re Torrismondo e la riflessione tassiana sul tragico… 47-49, dove la ritrosia della presunta sorella

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Sullo sfondo esotico di lande remote Tasso ordisce sapientamente i lacci con cui stringere il nodo tragico del destino dei due amanti e piange-re la fine di ogni speranza di felicità.

La morte dei due protagonisti si consuma tra la fine del IV Atto, per Torrismondo, e la prima scena del V, riservata a Alvida. Nelle dolenti ultime parole pronunciate dal re dei Goti al Messaggiero, che gli confer-ma l’orrenda verità e poi all’amato Germondo, ritorna il motivo della dura empia Fortuna che travolge, muta, sovverte il destino umano, tenu-to all’oscuro del troppo conoscere, della verità, il cui svelamento procura male e sventura.

Oimè, ch’io tardi intendo, e troppo intendo,e di conoscer troppo ancor pavento.Ma ’l conoscer inanzi empio destinoè solazzo al male. Or tu raccontail ver, qualunque sia: ch’alta mercedesuol ritrovare il ver, non che perdono (IV, 6, vv. 71-76)

Solo un’altissima Virtù potrà contrastare una fortuna così scellerata e rea, una Virtù che dal cielo scenda giù:

a l’Inferno,passa Stige secura ed Acheronte,non che l’orrido bosco o l’erto monte.Virtude al ciel ritorna,e, dove prima nacque, al fin soggiorna (Coro, IV, 61-65)

La tragedia tassiana celebra la sconfitta della Virtù e il trionfo dell’ini-qua rea Fortuna in accordo con un sentimento tragico dell’esistere privo di riscatto nell’oltre sovraterreno e privo di fiducia nella possibilità di tro-vare in terra felice serenità:

O morì la giustizia il giorno istessoco ’l giustissimo vecchio, o seco sparve,

di Torrismondo è ricondotta alla promessa fatta alla vera madre di votarsi a Dio e non al voto virgi-nale. Chiodo ricorda per la figura di Rosmonda antecedenti nell’Antigone sofoclea, analogamente orgogliosa del proprio rifiuto della mondanità.

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e fe’ seco volando al ciel ritorno.E la forza e la fraude e ’l tradimentopresero ogni alma ed ingombrâr la terra.Non ardisce la fede erger la destra,e l’onor più non osa alzar la fronte.E la ragione è muta, anzi lusingala possene fortuna. Al fato aversocede il senno e’l consiglio, e cede al ferromaestà di temute antiche leggi,mentre a guisa di tuono altrui spaventae d’arme e di minacce alto rimbombo (V, 1, vv. 43-55)

È nel grido di denuncia di Alvida il senso più dolente della verità tra-gica dell’esistenza, una vita priva di Onore e di Giustizia, il trionfo della violenza e della forza, uno scenario apocalittico e senza remissione al qua-le la sola regina si oppone in un gesto di illusorio titanismo, sola come recita l’icastico fortissimo pronunciamento a incipit del verso:

Io non gli piaccio, e ’l suo piacer conturboio sola (V, 1, vv. 59-60)

Verso aperto e chiuso nel segno enfaticamente protagonistico del pro-nome di prima persona, che restituisce il senso di un orgoglio e un ri-sentimento assenti nel personaggio maschile di Torrismondo. Alvida an-tepone Amore addirittura alla Fede tradita della Madre alla quale aveva promesso di restare intatta; Torrismondo, invece, si consuma al pensiero di aver tradito l’Onore e l’Amicizia, lacrima il comune disperato destino ma non senza ribadire che «Come fratello omai, non come amante, / prendo gli ultimi baci». Alvida, grandioso e turbato personaggio tragico, oppone il risentimento orgoglioso della donna tradita e venduta come merce di scambio:

[…] In questo modomi concede al suo amico, anzi al nemicodel sangue mio. […]Così l’un re mi compra e l’altro vende,ed io son pur la serva, anzi la merce,fra tanta cupidigia e tal disprezzo.

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Udisti mai tal fede? Udisti cambiotanto insolito al mondo e tanto ingiusto? (V, 1, vv. 78-86)

Di fronte al rischio di un destino di servitù, temuto amche dall’antica sorella Sofonisba, Alvida si prepara ad accogliere la morte, la morte che, sola, potrà estinguere l’amore e con esso anche l’anima perché morte non sarebbe se l’anima e l’Amore sopravvivessero.

Anima e Amore sono congiunti anche nelle parole di Torrismondo che, in punto di morte, rivela finalmente ad Alvida la verità:

E questo vostro sangue è sangue mio,o Alvida sorella, –così voglio chiamarvi. – E ’l ver le disse,e confermò giurando e lagrimandol’inganno e ’l fallo de l’ardita destra (V, vv. 485-489)

Quindi, tratto il ferro dal fianco, si trafigge il petto e muore, conse-gnando all’amato Consigliero il compito di narrare la loro morte sua e della sorella-amante e consegnare la lettera a Germondo con le sue estre-me volontà.

Amor crudele,tu sei cagion del mio spietato affanno,tu mi togli l’amico e tu l’amata,e tu gli uccidi, e mi trafiggi il pettocon duo colpi mortali. Io tutto perdopoiché lui perdo. Oimè dolente acquisto,dannoso acquisto, in cui perde se stessala nova sposa, e ’l re se stesso e gli altri,e ’l suo figliuol la madre, e ’l vero amicol’amico suo, né ritrovò l’amante; (V, 5, vv. 68-76)

Amore, possente e crudele, ha sottratto il bene più prezioso a ognu-no degli attori del dramma, ha inferto ferite immedicabili che risuonano nelle alte dolenti note di Germondo e che si estendono però all’universo intero, a tutto il Creato in un crescendo di dolore disperato: «Perdere ancora il cielo il sol devrebbe, / e ’l sole i raggi, e la sua luce il giorno, / e

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per pietà celar l’oscura notte / il fallo altrui co ’l tenebroso manto» e la terra, ingrata, essere sovrastata dai flutti, gli alberi sradicati e travolti, ogni cosa crollare, la reggia e le alte sue superbe torri, e valli e selve e spelonche essere trascinate in un eterno perpetuo affanno. La Natura tutta, il cielo, le stelle ogni cosa, comprese le opere umane, tutto sembra essere scon-volto e travolto da una violenza catastrofica; il Cosmo intero è chiamato a partecipare al lutto dei tre tragici re, in un’onda contagiosa di dolore e affanno perpetuo al quale niente può sottrarsi. Il dolore che ha trafitto il cuore di Germondo è come un sisma che sradica e distrugge tutto ciò che esiste sulla terra, travolto in una catastrofe cosmica.

Con rapidissime enumerazioni e agglutinazioni, Germondo passa in rassegna le specie vegetali – faggi, orni, pini e alte querce – che nell’essere sradicate lanciano grida simili a foschi lamenti al rimbombo alto e pro-fondo che ricorda quell’altro del vecchio mondo dopo la creazione divina che sarà il compianto nei versi finali del Mondo Creato. Qui mondo già veglio e stanco, si rivolge in preghiera al Creatore e Signore e lo invoca di non abbandonarlo, perché senza di Lui, è nulla:

Dove sei? Dove sei? chi mi ti asconde?Chi mi t’invola, o mio Signore e Padre?Misero, senza te son nulla. Ahi lasso!E nulla spero: ahi lasso! E nulla bramo.E che posso bramar se’l tutto è nulla.[…]Già mi struggo d’amor, languisco amando.E s’altro incendio mi consuma e strugge,l’amor tuo più lucente, e ’n altra formapoi mi rifaccia, e le fatighe e ’l mototolga a la mia natura egra e languente. (Mondo Creato, VII, vv. 1111-1123)

Un analogo sentimento luttuoso chiude, dunque, il poema sacro e la tragedia che si congeda dai suoi lettori e spettatori con il noto madrigale del Coro, intonando alti lacrimosi lamenti. Nella consapevolezza che tut-to è nulla, come ricorderà il Leopardi dello Zibaldone, e che senza Amore come energia e forza che lega e unisce ogni cosa tutto si perde e svapora come ombra e sogno («O mia vita non vita, o fumo, od ombra / di vera vita, o simolacro, o morte!», V, 6, vv. 136-137), Tasso sigilla le ultime sue opere, accomunate da uno sguardo in cui si raccoglie tutta la stanchezza

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e la sapienza di chi sta per concludere il grave cammino intrapreso. Una sapienza pensosa e disillusa come quella del feroce Solimano che dall’alto della torre di David, nell’ultimo bellicoso canto della Liberata «mirò, quasi in teatro od in agone, / l’aspra tragedia de lo stato umano: / i vari assalti e ’l fero orror di morte, / e i gran giochi del caso e de la sorte»55.

Al Coro è affidato il dolente epilogo sulla vanità e volubilità delle cose terrene, sulle speranze cieche e false, sulla vita perigliosa e vana, nel segno della continuità con uno degli autori più cari al poeta56. La morte, asso-luta e definitiva, non riscatta alcun dolore o affanno, si accampa nella sua tragica risolutezza al centro della poesia tragica tassiana come in quella sacra e epica imponendo su ogni cosa una desolata coscienza del vero57.

Se si ammette la radicalità di tale esito, il Torrismondo acquista un ruo-lo decisivo nella storia del tragico cinquecentesco. Non solo la tragedia manifesta nella veste stilistica e nell’impianto diegetico della favola la pie-na rielaborazione da parte del poeta delle questioni più dibattute in sede teorica ma rivela la piena coscienza della funzione assegnata a tale genere di poesia. Ideologicamente ancorato al vero della storia, il tragico radica-lizza la sfiducia proprio nell’avvenire della storia, sancisce l’irrisolvibilità del conflitto tra Virtù e Fortuna, celebra il compianto di una civiltà ancora fiduciosamente proiettata verso valori, quali l’Amore, la Virtù, la Fede, l’Onore, l’Amicizia, pur effimeri ma pieni di senso e di funzione storica58.

Nell’ultimo decennio di vita, libero di riprendere antichi progetti poetici, Tasso manifesta una vitalità artistica e un incremento teorico e

55. T. Tasso, La Gerusalemme Liberata, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1993 (1971), XX, 73: 5-8.

56. In tutta la poesia e la cultura quattro-cinquecentesca è indiscusso il primato lirico di Pe-trarca, sia dei RVF sia, come nel caso del Tasso tragico, anche del modello dei Trionfi. Tra i topoi petrarcheschi più abusati e ricorrenti nella lirica tassiana e in quella tragica specialmente, ricordia-mo quello della vanità della vita mortale, la metafora della vita perigliosa come una nave sbattuta dalla tempesta e il topos di Amore come possente e spietato Signore che arreca affanno e dolore alle anime innamorate.

57. Il commento più definitivo in tal senso è quello fornito da G. Bàrberi Squarotti, Il tragico tassiano, in Aa.Vv., Torquato Tasso e l’Università… 3-31, 19: «è la dichiarazione della morte definitiva di ogni Stato, di ogni potere, e guerra e pace sono ugualmente e indifferentemente causa e condizione del crollo e della rovina. La storia finisce qui, non diviene».

58. La critica è concorde nell’assegnare il Torrismondo a una stagione di intensa vitalità artisti-ca di Tasso, anche alla luce dell’incremento retorico, oltre che poetologico, che si riscontra in tutte le opere composte dopo Sant’Anna, dai nuovi Discorsi del poema eroico ai Dialoghi, al Mondo creato alla tragedia. Cfr. S. Verdino, Il Re Torrismondo e altro… 32.

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retorico che si riscontra in tutte le opere risalenti a questi anni. Anche la tragedia, dunque, mostra i segni di una riflessione a lungo esercitata nel confronto con il compendio teorico per eccellenza, la Poetica aristotelica, e con i modelli tragici sia classici sia moderni e contemporanei. L’origi-nalità che in molti riconoscono al tragico tassiano consiste nella chiara coscienza con la quale il poeta della Liberata prende posizione all’inter-no delle due fondamentali linee evolutive del tragico nel Cinquecento, quella rappresentata dall’Orbecche di Giraldi Cinzio, sentenziosa e coesa nell’impianto solido dell’orditura sintattica, e l’altra più soffusamente lirica esemplata dalla Canace di Sperone Speroni. Tasso sperimenta una maniera nuova che gli consente di assumere e fare proprio l’impianto re-golistico aristotelico ma di rivificarlo dall’interno attraverso un uso asso-lutamente moderno della lingua e dello stile che rivela una nuova e muta-ta sensibilità storica e poetica59. Marco Ariani ha parlato di una funzione disgregatrice esercitata dalle tensioni manieriste ai danni della compatta linearità dell’impianto logico-sentenzioso, funzione che produce un ef-fetto di «corrosiva ambiguità di partiture stilistiche, di una instabilità dissolutiva che mal si campisce nel ferreo controllo della razionale archi-tettura aristotelica»60. Non un classicismo ripetitivo e prevedibile ma una nuova maniera che sperimenta le inquietudini e i turbamenti irrisolvibili dello spirito manierista e la fine dell’utopia, dell’idillio, di ogni speranza pur effimera di senso che possa risarcire i ‘lacrimosi lai’ dei mortali.

59. Assertori particolarmente convinti dell’originalità del tragico tassiano sono D. Chiodo, Il Re Torrismondo e la riflessione tassiana sul tragico…, M. Ariani, Il discorso perplesso: ‘parlar di-sgiunto’ e ‘ars oratoria’ nel «Torrismondo» di Torquato Tasso... e G. Bàrberi Squarotti, Il tra-gico tassiano...

60. M. Ariani, Il discorso perplesso: ‘parlar discgiunto’ e ‘ars oratoria’ nel «Torrismondo» di Torquato Tasso…, 54.

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Conclusioni

Nel riconoscere al Torrismondo una funzione di snodo delle forme tragiche del Cinquecento, Ariani assegna al 1587 il ruolo di: «data-spar-tiacque che segna l’apice di un processo dissolutivo (un manierismo tra-gico corrosivo quanto in preda a irresistibili furori classicistici) e insieme il tentativo di una diversa configurazione formale del genere»1.

Superando definitivamente il pregiudizio di una produzione stanca, sorda e decorativa che relegava la tragedia tassiana a una fase decadente del Cinquecento, la prova del Torrismondo inaugura una nuova fase del-la elocuzione tragica, congedandosi dallo stile sublime declamatorio dei modelli contemporanei ma anche dalle movenze liricheggianti petrarche-sche, ripetute dai drammaturghi del secolo, e distorcendo moduli stilistici in direzione di una sintassi espressiva più aderente al vissuto dilemmatico dei suoi personaggi, Alvida e Torrismondo. L’accostamento alle formule tragiche della Sofonisba trissiniana evidenzia gli elementi di trasforma-zione proprii del tragico tassiano, i mutamenti del sentire e del vivere del personaggio sulla scena del teatro e del mondo nell’autunno del Rinasci-mento2. Nel passaggio dalla prima tragedia regolare moderna agli anni del Torrismondo, dunque, si compie una svolta nel corso della tradizione tra-gica del secolo XVI, il congedo dalle formule classicistiche ormai inade-guate a rappresentare lo statuto dilemmatico del personaggio tassiano, la sperimentazione di misure ritmiche, formule grammaticali e sintattiche più aderenti al procedere spezzato e sussultorio, spesso ambiguo e con-traddittorio, del parlato in scena. Rispetto alla pacata elocuzione di Sofo-nisba, la parola di Alvida risente dell’ambivalenza del segno semantico; il suo parlare interrogativo rivela una personalità sospesa nel dubbio e priva di solide certezze; quella di Torrismondo assume le pose interrogative e

1. M. Ariani, Il discorso perplesso: ‘parlar disiunto’ e ‘ars oratoria’ nel Torrismondo di Tor-quato Tasso…, 52.

2. Il riferimento è alla prospettiva critica sul pieno Rinascimento esposta da Carlo Osso-la, Autunno del Rinascimento. «Idea del Tempio» dell’arte nell’ultimo Cinquecento, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2015.

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incerte di chi è dilaniato dal non sapere cosa è giusto fare.Nella eloquenza fratta, spezzata dei personaggi tragici tassiani, dun-

que, si misura la trasformazione di un’epoca lontana ormai dalle serene traiettorie classicistiche del tragico trissiniano e l’inaugurazione di nuove e diverse ipotesi di sintassi tragica tutte fondate sulla ricerca di una più stretta aderenza tra il piano linguistico e quello psichico ed emotivo.

La pronuncia della parola tragica come gesto a cui affidare la prote-sta del soggetto travolto da forze oscure che minacciano la sua esistenza assume con Tasso il valore di una residua estrema resistenza al prevalere dell’insensato, della violenza e delle tenebre del reale. La coscienza tra-gica della storia come fosco orizzonte di ombre e menzogne, consegnata dalle parole di Alvida, Germondo e Torrismondo, capovolge di segno la funzione della parola assegnata da Trissino alla sua eroina. Se infatti la Sofonisba si inserisce a pieno nel progetto di ricostruzione di una civiltà fondata sulla funzione etico-sociale della parola, sul finire del Cinquecen-to la parola tassiana rivela la coscienza tragica della storia come ombra o simulacro di vera vita.

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Indice dei nomi*

[ 115 ]

AAgostino, 29, 30 n 24, 90 n 45Alamanni Luigi, 21 n 8Alessandro de’ Pazzi, 17, 17 n 1Alfano Giancarlo, 18 n 4Alfieri Vittorio, 38 n 4Alfonzetti Beatrice, 38 n 3, 39 n 4, 62 n 39Alighieri Dante, 13, 76, 79 n 33Anselmi Gian Mario, 68 n 9Appiano Alessandrino, 40 n 8Ardissino Erminia, 28 n 20, 69 n 12, 70,

70 n 15, 97 n 52Aretino Pietro, 21 n 8Ariani Marco, 13, 14, 21 n 9, 22, 22 n 11,

24 n 13, 25 n 15, 27 n 18, 32 n 29, 37 n 1, 39, 39 nn 4-5, 40 n 7, 43 n 13, 44 n 16, 48 n 22, 52 n 29, 54 n 31, 57 n 34, 66 n 4, 67 n 8, 73 n 21, 75 n 25, 83 n 37, 86, 104, 104 nn 59-60, 105, 105 n 1

Ariosto Ludovico, 19 n 5, 32, 90Aristide Elio, 90 n 45Aristotele, 7, 7 n 1, 12, 17 n 1, 18-21, 26,

29-30, 34 n 33, 36, 40, 42, 48, 67, 77, 79 n 33, 104

Avellini Luisa, 68 n 9

Baldassarri Guido, 18 n 2, 19 n 5, 69 n 12Barilli Renato, 14, 39 n 4, 44 n 16, 54 n 31Basile Bruno, 68 nn 9-10 e 12 Bellini Eraldo, 28 n 19Bembo Pietro, 21, 21 n 9, 39, 64Benjamin Walter, 7, 8 n 2Bibbiena (il), Dovizi Bernardo da Bibbie-

na, 21 n 9, 64

Boccaccio Giovanni, 21 n 8, 51 n 26Bottoni Luciano, 64 n 41

Calstelvetro Ludovico, 18 n 4Cammelli Antonio, 40 n 8Carducci Giosuè, 65, 65 n 4Caretti Lanfranco, 66, 66 n 7, 103 n 55Carini Anna Maria, 69 n 12Castiglione Baldassarre, 21, 21 n 9, 39, 64Chiodo Domenico, 67, 67 n 8, 98-99 n

54, 104 n 59Copernico Niccolò, 68 n 9Corsaro Antonio, 28 n 20Crescimbeni Giovanni Mario, 65 n 3

Daniele Antonio, 67 n 8Del Carretto Galeotto, 40 n 8, 51 n 26De Sanctis Francesco, 38 n 4, 66 n 5Della Volpe Gaetano, 18 n 4Di Capua Maria, 70 n 16Dionisotti Carlo, 22 n 11, 56 n 32, 68 n 9,Dolce Lodovico, 21 n 8Donadoni Eugenio, 66, 66 n 6D’Ovidio Francesco, 66 n 5

Euripide, 20, 43, 51 n 26, 73 n 22, 74 n 23, 76, 76 n 26

Ferroni Giulio, 14, 27 n 18, 37 n 2, 39 n 4, 44 n 16, 71 n 17

Ficino Marsilio, 68 nn 9-10, 69 n 12, 75Fracastoro Girolamo, 33, 33 n 32

Gagliardi Antonio, 68, 68 n 10

* Data la natura di questo studio si è preferito escludere dall’indice analitico le voci riferite a Tasso e Trissino.

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La morte tragica nel Cinquecento

[ 116 ][ 116 ]

Gallo Valentina, 25 n 15, 39 n 4, 51 n 26, 52 n 29, 56 n 33, 61 n 39

Garin Eugenio, 22 n 9Getto Giovanni, 18 n 3, 66, 66 n 6, 74 n

24, 75Gigante Claudio, 28-29 nn 19-21, 33 n

32, 41 n 8, 66 n 4, 67, 67-68 nn 8-9, 71 n 18, 72, 84 n 38, 90 n 45, 91 n 47

Giraldi Cinzio Giovan Battista, 11, 21 n 8, 34, 43, 76, 78, 78 n 30, 104

Girardi Maria Teresa, 28 n 20Girolamo, san, 29, 90 n 45Goudet Jean, 80, 80 n 34Gregorio di Nazianzio, 90 n 45Guglielminetti Marziano, 26 n 16, 66 n 5,

67, 79 n 33, 80 nn 34-35

Hathaway Baxter, 18 n 4Hauser Arnold, 92 n 48

Ingegneri Angelo, 111, 111 n 1

Jaspers Karl, 7, 7 n 2, Jossa Stefano, 68 n 9

Kristeller Paul Oskar, 68 n 10

Lascaris Andrea Giovanni, 21 n 9Livio Tito, 40 n 8, 62 n 39Lucignano Marchegiani Maria, 23 n 12,

50 n 24, 51 n 26

Maffei Scipione, 38 nn 3-4, 57 n 34Maggi Vincenzo, 18 n 4Magno Giovanni, 80Magno Olao, 73 n 22, 76, 78, 79 n 32, 84

n 39Manso Giovan Battista, 68 n 9, 72 n 20,

79 n 33Manuzio Aldo, 17 n 1, 21 n 8Martignone Vercingetorige, 65 n 2, 67 n

8, 72 n 18, 73-74 nn 22-23, 76, 76 n 26, 83 n 27, 98 n 54

Mazzacurati Giancarlo, 18 n 4, 56 n 32, 68 n 9

Mazzoni Iacopo, o Jacopo, 30 n 24, 34 n 33, 69 n 13

Minturno Antonio, 18 n 4, 33 n 32, 34Morace Aldo Maria, 83, 84 nn 38-39Muzio Girolamo, 18 n 4

Olini d’Ascola Lucia, 68 n 10Ossola Carlo, 105 n 2

Paratore Ettore, 39 n 4Patrizi da Cherso Francesco, 18 n 4, 33 n

32, 69 n 13Patrizi Giorgio, 18 n 4, 38 n 3, 39 n 4Pellegrino Camillo, 32Petrarca Francesco, 40 n 8, 51 n 26, 83, 87,

103 n 56Piccolomini Alessandro, 18 n 4, 34 n 33Pieri Marzia, 27 n 17, 28 n 19, 68 n 9Pigna Giovan Battista, 34Platone, 29, 30 n 23, 34 n 33, 57 n 34, 68

n 10, 79 n 33, 90 n 45Plutarco, 29, 90 n 45Porfirio, 30 n 23, 97Prandi Stefano, 68, 68 n 10

Raimondi Ezio, 22, 68, 68 nn 9-10Ramat Raffaele, 66, 66 n 6, 75Ranieri Simone Francesco Maria de’ Cal-

zabigi, 38 n 4Renda Umberto, 66, 66 n 5, 67, 74, 80, 80

n 34Robortello Francesco, 18 n 4, 33 n 32, 34,

34 n 33, 43 n 13Rossi Nicolò, 18 n 4Rucellai Giovanni, 21, 21 nn 8-9, 37 n 2,

39, 56 n 33, 64Ruggirello Fabio, 39, 39 n 5, 52 n 28, 84

n 41Russo Emilio, 28 n 20, 33 n 32, 41 n 8, 67,

67 n 8, 69 n 12

Sadoleto Jacopo, 21 n 9, 64Sasso Gennaro, 62Sassone Grammatico (Saxo Grammati-

cus), 76 n 26

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Indice dei nomi

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Scaligero Giulio Cesare, 18 n 4Scarpati Claudio, 28 n 19, 67 n 8, 69 n 13Scianatico Giovanna, 67 n 8, 71 n 17Scrivano Riccardo, 27 n 18, 70, 70 n 15Segni Bernardo, 43 n 13Sofocle, 20-21, 43, 51 n 26, 71 n 18, 73 n

22, 75-76, 76 n 26Sozzi Bortolo Tommaso, 66 n 6, 67 n 8,

73-74 nn 22-23, 79 n 32Speroni Sperone, 11, 21 n 8, 33 n 32, 68 n

10, 76, 78 n 30, 104Steiner George, 7, 7 n 2

Tiraboschi Girolamo, 38 n 4, 65 n 3Toffanin Giuseppe, 18 n 4Tommaso D’Aquino, 29, 30 n 24, 34 n

33, 80, 90 n 45Torelli Pomponio, 40 n 8Toussaint Stèphane, 68 n 9, 70 n 15

Valla Giorgio, 17 n 1Varchi Benedetto, 18 n 4, 33 n 32, 38 n 4Vasoli Cesare, 60 n 38, 68 n 9Verdino Stefano, 48 n 20, 58 n 36, 66 n 4,

67 n 8, 84 n 39, 90-91 nn 45-46, 92 n 49, 103 n 58

Vettori Francesco, 18 n 4

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Indice

Premessa 7Ringraziamenti 9

Introduzione La Sofonisba e Il Torrismondo nel contesto del Cinquecento poetico. Ragioni di una scelta 11

Capitolo I. Le Divisioni della Poetica di Trissino e i Discorsi di Tasso 17

Capitolo II. “L’esequie sontuose e belle” di Sofonisba 37

Capitolo III. “Ahi lagrime, ahi dolore!” l’esperienza tragica del Torrismondo 65

Conclusioni 105

Bibliografia 107

Indici (nomi e opere) 115

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Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

[email protected] - www.edizioniets.comFinito di stampare nel mese di marzo 2018