primavera, inverno, ancora primavera
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questo racconto è come il mare.TRANSCRIPT
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Primavera
Seduto ad aspettare, sentiva il vento fresco passare nei
pantaloni. Questo è quello che si dice
primavera,
a Milano perlomeno. Un sole inaspettato, in un
pomeriggio in cui il vento sembra fresco, non gelido. La
primavera non arriva a Milano.
Succede.
Come molte altre cose.
C'erano delle volte in cui gli piaceva sedersi, a guardare la
gente vivere, correre, ridere, parlare, litigare. Sentirsi, per
una manciata di minuti, spettatore.
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Quando le aveva detto "ti amo", l'aveva guardata negli
occhi.
Che sono verdi, piccoli, immobili.
Come uno scoglio in mezzo al mare, poco lontano dalla
riva. Un punto fermo. E si era reso conto di quanto fosse
provvisorio, quel senso di stabilità che un uomo può
sentire, aggrappandosi agli occhi di una donna.
Quando le aveva detto "ti amo" era inverno, era buio, era
freddo. Erano nudi, profili disegnati dalle ombre di una
abat jour, in piedi.
Quando le aveva detto "ti amo" si era sentito libero.
Finalmente. Erano state tre le donne, in tutta la sua vita,
alle quali aveva detto "ti amo". Conosceva il peso di quella
parola, e il senso di vuoto che ti sovrasta appena la dici
per la prima volta. E la liberazione nel dirlo. Ma non lo
aveva mai detto credendoci così tanto. Credendoci così
tanto in questi due occhi, in questa pelle, in questo
profumo.
Avendo quella certezza che lo possedeva da qualche tempo,
della reale possibilità che una donna potesse
cambiare la sua vita,
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calmare il suo dolore, domare la sua libertà, accarezzare le
sue debolezze, accompagnare i suoi pensieri, attraversare
le sue paure.
Lei era rimasta lì, ferma come i suoi occhi, come se fosse
stata solo una piccola onda, un rimasuglio di una corrente,
più schiuma che acqua.
Impassibile, come gli scogli appena fuori dalla baia.
Quando le aveva detto "ti amo" si era reso conto di averlo
già detto, qualche sera prima.
Le cose così, rifletteva, succedevano prevalentemente di
giovedì nella sua vita. I grandi momenti,
quelli in cui tutto succede in un secondo,
erano sempre successi di giovedì. Che è il giorno che
assomiglia di più alla resa dei conti. E' l'ultimo prima
dell'ultimo. Quel giovedì erano nudi, a lasciare che la
stanchezza scivolasse via, in un perfetto incrocio tra
desiderio, vino bianco e troppe sigarette.
E, finito il vino, finite le sigarette, non rimaneva che finire
il desiderio.
Questo, credeva, era un grande punto di unione. Questo, il
desiderio, era stato fin da subito la loro lingua sicura. Un
modo per capirsi al volo, per trovarsi, per sapere quando
aspettarsi e quando lasciarsi andare.
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Ma quella sera, quel giovedì sera, era successo
semplicemente quello che avrebbe dovuto succedere nella
vita di tutti gli uomini. Per un solo istante.
Per questo istante solo, dicono, vale la pena vivere una
vita intera.
Ricorda i piedi, piccoli, fragili, inarcati. Ricorda le gambe,
lisce, perfette. Ricorda il respiro. Ricorda gli occhi, verdi,
piccoli, immobili. Ricorda le mani, che si cercavano.
Nuotare insieme in questa corrente, dicono, è l'unico
modo per salvarsi. Ricorda di aver sentito, forte, tutta la
liberazione di averle detto "ti amo", senza averlo detto.
Avendolo fatto.
Una cosa di una semplicità enorme. A ben guardare.
Una cosa che aveva imparato, nella vita, era che quando
inizia, ci si attacca a un'immagine. A un dettaglio,
qualcosa di insignificante che diventa terribilmente
importante. Un difetto, un particolare, un'istante. E, aveva
imparato, questo piccolo particolare diventa un segreto, la
memoria segreta di quando tutto è iniziato. Te lo porti
dentro fino a quando tutto finisce. Tutto inizia, tutto
finisce, con lo stesso, piccolo, insignificante, dettaglio. In
mezzo ci sono giorni, mesi, anni. Iniziati da un piccolo
particolare.
Era stato il suo sorriso,
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che era comparso nel mezzo di una discussione, sorgendo
come un sole inaspettato, a rimanere come quel piccolo
particolare. Talmente spiazzante, quel sorriso, da essere
diventato davvero un sole capace di illuminare tutto il
buio che c'era intorno.
Aspettava che la sigaretta si spegnesse da sola, mentre
osservava la gente camminare, quasi correre, sul marmo
lucido sotto i portici. Da dove era seduto si poteva
osservare una buona parte del Corso. Quasi sentirsi
schiacciati dal Duomo, dal suo bianco rovinato, dalle sue
vetrate.
Un pomeriggio di qualche tempo prima, era uscito da casa
sua camminando veloce verso la macchina, per non
prendere tutto il freddo di questo fottuto inverno,
per non sentire il freddo che sentiva ogni volta che si
lasciavano.
Un freddo atroce, dentro le ossa. Da troppi mesi. Un
inverno lunghissimo. Camminando aveva pensato a quale
sarebbe stato il regalo più bello da farle. Le brillava al dito
un diamante che, ogni volta, lo riportava al suo passato,
graffiandolo appena nel cuore e sulla schiena.
Il tempo.
Avrebbe voluto regalarle il tempo. Tutto il tempo. Avrebbe
voluto regalarle un'infinità di mattine insieme, odore di
caffè, luce dalle persiane, l'incertezza del freddo delle
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piastrelle. Avrebbe voluto regalarle tutte le sere in cui la
loro fame si saziava, vicendevolmente. Di parole, di silenzi,
di ombre, di respiri sempre più affannati. Avrebbe voluto
regalarle tutte le notti, quando la città si ferma, quando si
sentiva appena il suo respiro, leggero, piccolo, come lei,
come i suoi piedi, come le sue mani. Il tempo.
Tutto il tempo che occorre a un'amore. Tutto il tempo che
fosse servito per
guarirsi,
per arrivare,
per amare fino in fondo.
Quando le aveva detto "ti amo", avrebbe dovuto dirle:
voglio essere tutto il tempo che servirà ai tuoi occhi per
essere sazi.
Invecchieranno, i nostri corpi. E anche la tua perfezione,
lentamente, si piegherà docile al tempo che passa. Ma i
tuoi occhi sapranno, sempre, dove guardare. Per essere
sazi.
Il tempo che occorrerà, tutto il tempo che servirà, ecco
sono io.
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Suo padre era un uomo buono, di quegli uomini buoni che
la vita ha piegato come i vecchi pini marittimi. E una volta,
gli aveva regalato un orologio. Dio, tutti quegli ingranaggi.
Tutta quella perfezione meccanica, lucida, minima.
L'incastro perfetto di piccoli ingranaggi. La follia di voler
misurare il tempo. Per sentirsi puntuali, per sentirsi in
ritardo.
Non ti sto regalando il tempo, aveva detto. Ti sto
regalando il modo in cui puoi misurarlo.
Nessuno può regalarti il tempo, se non chi ti ama davvero.
Così era andata, più o meno. Per questo, più o meno,
aspettava docilmente che la vecchia gioielleria sotto ai
portici aprisse. Per comprare un orologio. Piccolo, come i
suoi polsi. Senza numeri, perchè lei potesse solo
immaginare lo scorrere del tempo. Bianco, come la sua
pelle.
Quando le aveva detto "ti amo", avrebbe dovuto dirle,
senza paura: tu sei uno splendido inizio in cui
io voglio la mia fine.
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Lei camminava veloce, odiando il marmo del Centro e i
suoi riflessi scivolosi. Aveva imparato a camminare sui
tacchi molto prima di imparare molte altre cose. Sentiva
quello strano richiamo. Lui era così.
Uno strano richiamo.
La follia di un mare in tempesta, questo si vedeva nei suoi
occhi e nei suoi capelli. La rabbia
domata ma non spenta,
questo si sentiva nelle sue mani.
Quando era sopra di lei, ecco in quei momenti, poteva
sentire il mare calmarsi, la rabbia sedersi, e lui respirare
sempre più forte.
Era un uomo. Come gli altri. Come tutti gli altri uomini
che si erano fermati prima di lui, davanti a quei tacchi, di
fronte ai suoi capelli. Toccando la sua pelle. Come tutti gli
altri, anche lui bruciava lentamente nel sentirla respirare,
sempre più forte. Lui era diverso, però. Era un mare
davvero in tempesta. Nessuno lo avrebbe navigato.
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Arrivava, come il mare in tempesta, rompendosi forte su
di lei, schiacciandola con i suoi pensieri, assordante in
tutta la sua forza, infinito nella sua rabbia bollente di
schiuma e correnti.
Era quel suo calmarsi,
completamente,
solo con lei.
Era quel suo capirlo, saperlo fin dal primo giorno.
Questo l'aveva fermata, per quell'attimo in più, nel quale
lui era diventato tutto. Come nessun altro.
Gli aveva detto: "ti amo". Perché amava quel mare, amava
tutto di quel mare così imperfetto, così infinito. C'erano
dei particolari, nel suo modo di sbagliare tutto. Nel suo
spogliarla di corsa, senza nessuna ragione se non di dover
fermare la tempesta. Nel suo parlarle di tutto, come onde
ruggenti che spaccano la terra. Come le sue spalle, grandi,
forti. Come i suoi pensieri, sempre troppi, sempre
turbolenti. Correnti pericolose in cui lei, lo aveva capito
subito, era l'unica a non perdersi. Gli aveva detto "ti amo"
per tutto questo. Lui era semplicemente diverso. Unico,
probabilmente.
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Camminava veloce anche se non c'era nessuna fretta.
Strano pomeriggio in cui la primavera sembrava
affacciarsi timidamente sulla schiena della città, piegata
da un inverno davvero troppo lungo. La sua schiena. Che
ci si poteva appoggiare, aggrappare, allacciare.
La sua schiena, dove si poteva sentire, appoggiando
l'orecchio, tutta la tempesta del suo respirare.
Lei non avrebbe mai lasciato aperto tutto per un uomo.
Per nessuno.
Lo aveva fatto per troppo tempo.
Per uno solo. E rimaneva solo un diamante, a un dito.
Tutto quel tempo, per un diamante solamente.
Nessuno avrebbe pagato quel prezzo, per un diamante.
Lei lo aveva fatto. E adesso aspettava, senza lasciare che
nessuno potesse davvero avvicinarla, che molti passassero,
fermandosi appena, confusi dalla sua bellezza, impigliati
nei suoi capelli, graffiati dalle sue mani. Tutti tranne lui.
Che era un mare in tempesta che nessuno avrebbe potuto
calmare. Se non lei. Per questo, forse, sentiva la fretta di
arrivare, l'urgenza di vederlo, la fame straziante quando lo
aspettava, e quella malinconia che hanno
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le spiagge
appena
il mare se ne va con le maree,
quando lui se ne andava, quasi correndo. Ogni volta.
Non è difficile, quando sai cosa cercare, trovare quello che
cerchi. Sembra sciocco. Ma non sono in molti ad arrivarci.
Molti cercano, per troppo tempo,
senza aver capito cosa dover cercare.
Ecco, tra le mani, un orologio piccolo, bianco, lucido,
perfetto.
Misura il tempo da quando è stato costruito. E' stato
costruito per farlo: non per ridarlo, non per toglierlo.
Per misurarlo. Poi sono gli uomini, a sentirsi in ritardo, in
anticipo o semplicemente in tempo.
Quando le aveva detto "ti amo" avrebbe dovuto dirle:
ma non ti sei accorta che siamo in tempo, perfetti, per
guarirci?
Non in ritardo,
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non in anticipo.
Perfetti, nel mezzo di questo inverno, per essere giusto in
tempo. Ce ne vorrà molto, avrebbe dovuto dirle. Per
guarire queste ferite.
Ma forse è solo per questo che vale davvero la pena vivere.
Uscendo dalla vecchia gioielleria, sentiva tutto il peso dii
un piccolo orologio bianco, lucido e perfetto.
Il peso del tempo che questo orologio avrebbe dovuto
misurare. Mesi, anni, stagioni di una vita.
Di due vite.
Che appena in tempo si erano salvate vicendevolmente.
Camminava piano, quasi galleggiando in quel vento fresco,
in quel sole immaturo, in quella primavera che era
successa proprio in quel pomeriggio.
Si fermò ancora. Per pensare. Forse avrebbe dovuto dirle
che è così
che due persone
si amano.
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Partendo dalla loro fame, saziandola. Placando la loro sete.
Anime segnate da anime.
Corpi che hanno cercato corpi. Per far finta di non capire.
Che quel momento, in cui ti senti per la prima volta
perfettamente in tempo, e del quale vorresti ricordare
tutto, è il momento per cui vale la pena vivere.
Ricordava, in effetti, tutto. Alla perfezione.
Il sapore, ancora forte, del pesce crudo. L'odore del fumo,
mischiato al suo profumo.
La pelle,
tesa,
della sua pancia perfetta,
da bambina.
Il sapore, dolce, delle sue gambe.
Il rumore, che la loro fame, stridendo, faceva.
Due corpi che si incontrano, quando due anime si
fondono, fanno sempre un gran rumore.
Di perfezione. Ma rumore.
Lei non lo interrompeva mai.
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Quasi avesse rispetto, del suo parlare, del suo toccarla, del
suo andarsene.
Mai. Non lo fermava mai.
Per questo lui sentiva, sempre più forte,
il bisogno di tornare.
Di fermarsi.
Per tutto il tempo che sarebbe servito.
Per la prima volta, da troppo tempo, non lo spaventava la
sensazione di fermarsi. Anzi, adorava fermarsi su di lei.
Appoggiarsi sulla sua vita, ovale perfetto. Sembrava che
lei non sentisse il suo peso, che lui fosse liquido, quasi che
le scorresse addosso,
come l'acqua che passa su una roccia.
Il verde dei suoi occhi.
Lei aveva rallentato il passo, ascoltando il rumore dei suoi
tacchi nell'eco esagerato dei portici vuoti. Guardando una
vetrina, si osservava riflessa insieme a un bagno di luce.
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Il bianco e il nero.
Gli unici colori che non sono colori.
Tutti i colori insieme, e nessun colore.
Bianco e nero, i suoi colori preferiti.
Lui era un disastro.
Con i colori.
Avesse dovuto fermarsi a quello, era davvero impossibile
pensare a qualcuno di più disordinato.
Nell'anima e nella vita.
Nei capelli e nei colori.
Nei pensieri e in quel suo parlare lento, ridendo di tutto
per non piangere di niente.
Uno splendido mare. Di cui non aveva paura. Non ci si
può fidare di una tempesta. A meno che non ci sia la
sicurezza,
che solo il mare sa dare,
che prima o poi tutto passerà.
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Sembrava che lui avesse sempre fretta di scappare da lei,
da loro. Dal loro respirare insieme. Si era fermato,
impercettibile, solo una volta, per qualche istante di più.
Quando lei aveva sorriso. Per una sua battuta.
Un sorriso. Ecco, lì si era fermato, dando quasi
l'impressione di voler restare.
Non per la sua pelle, non per i suoi capelli, ma per il suo
sorriso. Questo amava di lui.
Il suo disordine nell'amarla.
Dove tutti avevano amato, lui passava veloce, come
un'onda in ritirata.
Dove nessuno si era fermato, lui amava fino alle viscere,
rompendosi
in mille gocce
ed entrando
docilmente
ovunque.
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Inverno
Quando si erano incontrati sembrava l'inverno si fosse
dimenticato di Milano, lasciando passare un sole quasi
caldo sugli alberi senza foglie e sul viale. Sembrava non
finire da nessuna parte, quel viale. Lo perdevi di vista,
mentre dritto e solenne attraversava lentamente tutta la
periferia. Sembrava non finire da nessuna parte, quel
pomeriggio in cui l'inverno si era dimenticato della città.
Il rumore dei tacchi l'aveva preceduta di qualche istante,
attraversando tutto l'imbarazzo di un saluto tra due anime
così difficili.
Era vestita di nero, e bianco. Adorava vestirsi di nero, e di
bianco. Lasciare che i non colori, il nero e il bianco, le si
sistemassero addosso.
Aveva scelto con cura tutto, lo faceva sempre.
Non lo faceva certo per lui.
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Cosa stava facendo, in effetti, non era molto chiaro
nemmeno a lei. Perdere il controllo, per qualche ora,
sarebbe stato lecito.
Aveva lasciato che lui decidesse tutto.
Aveva smesso, in un pomeriggio di due anni prima, di
fidarsi degli uomini e del loro modo di scrivere il suo
destino.
Così prevedibile, così noioso.
Aveva imparato a usare la sua bellezza, solo quello che si
vedeva da fuori. Aveva imparato ad accompagnarli per
qualche momento.
Niente di più.
Sarebbe stato così anche oggi.
Era da tanto che non si imbarazzava per qualcun altro.
Ma il disordine assoluto dei vestiti di lui, il suo modo di
camminare, parlare e osservare, la imbarazzava.
Niente di cui preoccuparsi.
Solo
qualche
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momento.
Era arrivato prima del previsto. Aveva cercato un caffè. E
aveva pensato a quello strano viale, che sembrava non
finire da nessuna parte.
Come la sua vita, ultimamente.
Era arrivato a pensare di sedersi, per un attimo, su una
panchina di questo viale, e aspettare che qualcuno,
qualcosa, passasse.
Per capire dove andava.
Per capire come si faceva ad andare.
Sentiva tutta la stanchezza di questa indecisione.
Prenderlo nella schiena, nella testa.
Non era stato facile digerire quel suo camminare perfetto,
su quei tacchi assurdi. Doveva avere una straordinaria
passione per il nero. O forse un lutto da rispettare. Odiava
le donne che coprivano gli occhi. Odiava gli occhiali da
sole.
Gli occhi dicono molto di una persona, e in pochissimo
tempo per di più.
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Aveva quello straordinario senso di consapevolezza della
sua bellezza.
Sembrava quasi ci fosse abituata.
Forse è così. Quando hai una cosa così straordinaria, nelle
tue mani, sempre, alla fine ti ci abitui.
Sembrava impossibile, visto da fuori, abituarsi a tutta
quella bellezza.
Il bianco e il nero. Non colori. Tutta la luce possibile, tutta
l'assenza possibile.
Non avrebbe mai pensato potessero esistere persone così.
Alla domanda che colore ti piace, rispondere nero o
bianco non dovrebbe essere consentito.
Come portare grossi occhiali da sole, solo perchè l'inverno
si è dimenticato di spalmare il grigio sul cielo, lasciando
un sole tiepido, provvisorio, a penzoloni sopra tutte
queste vite.
Gli sembrava di avere un programma, fino a pochi istanti
prima che lei arrivasse.
Ma poi, si era reso conto di non avere
assolutamente
niente
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in mente.
Il tempo ha due dimensioni.
Talmente vicine, da essere spesso confuse.
Esiste Cronos, il tempo di chi ha fretta, il tempo della
precisione, il tempo da rispettare. Cronos è cattivo, ma
prevedibile, nel suo scorrere sempre uguale.
E' il tempo che non si rimpiange mai.
Ma è quello che si accusa.
Poi esiste Kairos, il tempo del cuore. Che sfugge alle
logiche dei conti, che non ha orologi, che è invisibile agli
occhi.
Kairos scorre molto lentamente, quando si soffre.
Dicono che le lacrime rallentino Kairos fino a fermarlo,
sospeso per sempre.
Kairos corre, furioso, senza che il cuore se ne accorga,
quando vorreste misurarlo come Cronos.
Kairos sfugge, veloce,
agli amanti
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e agli innamorati.
Chi vive, maledice Cronos.
Chi ama, rispetta Kairos.
Due dimensioni, spesso, dimenticate.
Sono gli anni, le abitudini, le piccole noie, i fallimenti, a
lasciare che Kairos affondi sotto il peso di Cronos.
E le ore tornano ad essere ore, i minuti sono impeccabili, i
giorni sicuri. Un ritmo straziante. Una marcia definitiva.
E' solo quando Kairos si sveglia, accarezzato da
piccolissime sensazioni, che le persone si ricordano della
sua esistenza e del suo imprevedibile scorrere.
Questo spiegherebbe, in fondo, la fretta con cui il
pomeriggio aveva lasciato entrare la sera, il sole aveva
lasciato la notte sulla città.
Parole, erano passate
spigolose
dentro l'imbarazzo, lacerandone le pareti.
Ma c'era qualcosa, in fondo a quelle parole, in fondo a
quelle due sicurezze, talmente finte e improbabili da
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sembrare vere, che lasciava intendere un'incredibile fame.
Insaziabile. Pensavano.
Aveva scoperto in lei la serena capacità di fermare il
tempo in mezzo alle sue mani,
sulla punta delle labbra,
dietro ai capelli.
Aveva scoperto un diamante, piccolo, su un dito, ancora
più piccolo.
Aveva intuito un passato, lasciando che fosse lei a non
parlarne.
L'aveva lasciata, lentamente, entrare nel suo disordine.
Per lui era normale, osservare la curiosità famelica con cui
tutte volevano buttarsi a capofitto in quel disordine eterno.
Qualcosa a che fare con il senso materno che ogni donna
ha.
Tutte, sempre, tutte.
Entravano affascinate, quasi incuriosite, in quella
dannazione di anima e corpo, che si intuiva dai capelli e
dagli occhi. Poi, tutte, sempre, tutte, scappavano.
Qualcosa a che fare con il senso di sopravvivenza.
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Il sesto senso di ogni donna. Fuggire da un disordine più
grande di qualsiasi anima.
Non si era lasciata andare per due semplici ragioni.
Intuiva un grandissimo casino,
dietro quegli occhi.
E voleva scappare. O forse restarci dentro per sempre.
E poi, la spaventava da morire.
Con la sicurezza della sua voce, con la certezza metodica
delle sue mani, con il suo profumo.
Sapeva di trovarsi di fronte a un uomo che avrebbe fatto
di lei quello che voleva.
Strano.
Sembrava così debole,
così fragile,
così provvisorio.
Poi muoveva le mani.
Sapendo cosa dire.
Leggendo cosa fare.
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Lasciava che lei intravedesse tutto questo casino. Mentre
l'accompagnava, con la voce, con il respiro, con le mani.
Era da tanto, troppo tempo, che nessuno sapeva farlo così.
Con quella sicurezza.
Senza avere nessuna paura.
E poi il tempo, stranamente, era volato via.
Un'altra sera.
D'inverno.
Senza dirsi troppo, perchè chi vuole raccontare, spesso
non parla affatto, avevano lasciato cadere i saluti, senza
che facessero molto rumore, su quel viale strano, che
sembra non andare da nessuna parte.
Un'altra sera, d'inverno.
Sembrava giusto che fosse lui a ricercare lei.
E così era stato.
Senza parlare troppo, si erano raccontati ancora una
storia che fosse plausibile per tutti e due.
E che non toccasse il disordine dei capelli di lui, con il
diamante al dito di lei.
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Avere cura che questo non succedesse sembrava interesse
di entrambi.
Così, riscoprendo il tempo docile di Kairos, avevano
inziato a scambiare
i giorni con le notti,
le ore con i minuti.
Senza che nessuno dei due potesse, o forse volesse,
avvisare l'altro di quanto fosse pericolosamente definitivo.
Fermarsi davanti a quei capelli, appoggiarsi a quel
disordine, respirare quel profumo, guardare la pancia del
mondo dal basso di un vortice in cui,
bugiardi,
fingevano di essere già stati.
Lui era diverso.
Non rispettava il tempo, non aspettava mai che fosse
giusto parlare, e lasciava libere le mani, senza nessun
filtro.
Sembrava non avesse paura di nulla. Perchè quel
disordine assoluto doveva essere, in fondo, la migliore
delle garanzie.
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Forse aveva ragione lui. In mezzo a tutte quelle correnti,
rischi di rimanere immobile.
Lei era imprevedibile.
Sembrava difficile credere che tutta quella forza uscisse da
un corpo, in fondo, così piccolo. Poteva tranquillamente
schiacciarla, con il peso delle sue spalle e dei suoi pensieri.
Per questo, ecco, non si sarebbe mai permesso di farlo.
Era di una bellezza
incontrollabile,
assoluta,
sfuggente.
Quando era troppo difficile parlare, si limitavano a
lasciare cadere il discorso, appoggiando i
bicchieri,aspettando che tutto tornasse normale.
Quando era troppo difficile fermarsi, appoggiavano i
pensieri, aspettando che tutto sembrasse perfetto.
Quando era troppo difficile restare, lui scivolava via,
veloce.
Quasi volesse scappare.
Ma poi tornava, sempre. Lui, le sue mani, il suo parlare.
Lei, le sue mani e il suo ascoltare.
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Un pomeriggio lei gli aveva detto:
fermati, resta.
Avrebbe voluto dirgli:
ti amo.
Avrebbe dovuto dirgli, è perfetto il modo in cui la tua
tempesta si calma solo sui miei occhi, solo tra le mie mani,
solo sopra di me.
Lui aveva fermato lo sguardo, per qualche istante in più.
Kairos che lascia tornare Cronos.
E lui che scappa, su quel viale che sembra non finire da
nessuna parte.
Una sera lui non era riuscito a dire nulla.
Aveva osservato, da spettatore, la perfezione di due
solitudini che diventano
un corpo solo.
Molto di più di questo.
Era rimasto, per qualche momento perfetto, appoggiato
sulla sua felicità.
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Rompendo il respiro, aveva voluto parlare.
Senza che niente, a parte le stupide parole di circostanza,
facesse pensare veramente a quello che voleva dire.
Avrebbe voluto dirle:
ti amo, sai.
Amo questo, esattamente di te. L'essere noi,
perfettamente. L'essere te,
perfettamente.
L'accettare tutto il mio disordine,
perfettamente.
Ma era abituato a vedere donne che scappavano dal suo
disordine e sentire parole che rimanevano dentro il suo
disordine, senza uscire nemmeno sottovoce.
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Ancora Primavera
C'era profumo di limoni, un profumo strano per una città
come Milano.
La piazza era illuminata a metà.
Metà al sole, metà in ombra, il bianco e il nero.
E' una piazza strana di Milano. Tre banche, una per lato,
una chiesa sull'ultimo. Granito, marrone, marmo lavorato,
mattoni rossi. Quattro stili architettonici, un disastro
apparente, per chi non sa trovare il filo conduttore.
Qualche sindaco ci ha messo delle piante, che fanno una
fatica pazzesca a sembrare felici di essere state piantate
dentro a tutto quel cemento. Un altro sindaco ci ha messo
delle panchine, dimenticando che sono sempre meno i
milanesi che si siedono, a guardare la vita degli altri.
Sono belle panchine, di pietra. Larghe. Ci si sta seduti che
è una meraviglia, pensava lui. E tra l'altro, ci sta il giornale,
il caffè preso al bar davanti alla chiesa. Conosceva quella
piazza solo di domenica mattina. Quando bisogna fuggire
dalla città, per il troppo caldo, o per la troppa malinconia,
e tutti corrono verso il mare. E lui si faceva trovare li in
mezzo, insieme ai piccioni e a qualche disperato turista.
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Profumo di limoni. Un profumo davvero strano per una
città come Milano.
Aveva appoggiato l'orologio, con la sua piccola scatola
azzurra, sulla panchina, di fronte a lui. Ci sarebbe stato da
studiare cosa dire, da preparare un discorso per
accompagnare il suo stupore mentre apriva la scatola.
Quando l'aveva stupita, per la prima volta, era già buio da
un pezzo, in una sera davvero fredda.
E le aveva portato un regalo.
L'unico.
Fino ad oggi.
Lei aveva aperto la scatola, e le si era illuminato prima il
sorriso, poi gli occhi. Che lo avevano guardato.
Disperati.
Di felicità.
Ti prego, avrebbe dovuto dire lei,
non farmi questo.
Non lasciare che io mi stupisca. Non lasciare che io senta
tutto il bisogno che ho di stupirmi. Non farlo.
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Ti giuro, avrebbe dovuto dire lui, che per questa luce che ti
ha bagnato gli occhi
adesso,
qualcuno potrebbe credere che si possa anche vivere una
vita intera.
Ma non le disse nulla. Sorridendo, pensava di non aver
mai vissuto di
luce riflessa.
Forse, un giorno, sarebbe arrivato il momento.
Quello era stato l'unico regalo. Una scatola di cartone, un
paio di pantaloncini, e l'essere stati in silenzio a godersi i
propri pensieri.
Qualche turista anche oggi, a cercare il sole, osservando le
banche che accerchiano la chiesa e San Michele, armato,
che sembra rimasto l'unico a volerla difendere. Un
silenzio assordante, perchè questi muri alti hanno, da
anni, tenuto le macchine e le persone rumorose lontano.
Questa piazza, per chi non sa cercare, non ha niente da
dare. Come la vita.
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Lei camminava verso la piazza, distratta dalle vetrine. Era
in anticipo.
Non avrebbe avuto senso, stare ad aspettarlo. Lo faceva
sempre. Lui non era mai in ritardo.
Era perennemente in un tempo suo.
Disordinato anche nel misurare il tempo.
Sembrava impossibile.
Sembrava strano, quell'appuntamento, in quella piazza,
per un regalo. Si era abituata a non avere regole con lui.
Perchè qualsiasi regola si imponeva, era lui ad infrangersi
maestoso,
distruggendola, inconsapevole.
Nessuno può costruire sul pezzo di mare che diventa
spiaggia.
Perchè non è terra, è ancora mare. Solo l'uomo troppo
sicuro di se, crede di poterlo fare.
Prima che il mare, inconsapevolmente, distrugga tutta
quella sicurezza.
Inutile credere di sapere dove finisce il mare. Se è il mare
a decidere, talvolta, dove finire e dove iniziare.
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Era assurdamente straordinario, in effetti, osservare come
fosse stata lei, alla fine, quella a
doversi
misurare con lui.
Per la prima volta nella sua vita, aveva un uomo che
badava a se stesso.
Da solo.
E che non era assolutamente capace di farlo, come tutti gli
altri. Ma non si poneva assolutamente il problema.
Che la calmava, con le sue parole, la dissetava, con le sue
spalle, la riportava in un tempo in cui, tutte, dovrebbero
essere dondolate perennemente.
Si era spaventata, qualche tempo fa, poco dopo una delle
sue fughe.
Lo osservava dalla finestra, correre leggero verso il viale.
Sospettando, solo per un instante, che non sarebbe
tornato più,
si era sentita di nuovo
sola.
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Di quella solitudine che le faceva male, bruciando sulle
ferite che quell'anello le ricordava.
E si era spaventata, nel sentirsi sola. Nel non poterlo
raggiungere, adesso, in quella sua fuga, per fermarlo.
Resta,
ti prego,
fermati.
Ho bisogno di te.
Non lo aveva mai detto a nessuno. Se non ha se stessa. Si
era davvero spaventata. E da quel momento aveva capito,
senza accettarlo,
che l'amore ha una metrica davvero strana, una lingua
davvero ostica, un percorso davvero insensato. L'amore.
Che poi è uno solo, come il mare.
Guardava due piccioni rincorrersi. Forse un maschio e
una femmina. Odiava i piccioni, senza forse averci mai
pensato davvero prima.
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Aspettava lei, fumando seduto sulla panchina. L'avrebbe
vista entrare nella piazza. Bianca e nera, nella luce e
nell'ombra.
Adoravano stare al buio.
Perchè certe parole arrivano solo al buio.
Tutti volevano vederla, nella luce.
Tutti avevano voluto vederla, illuminata dalla luce e dal
desiderio.
Lui no.
Voleva sentirla,
sussurrarle parole lunghissime,
in un buio avvolgente e leggero, come un signorile
abbraccio.
Tutte volevano essere viste, nella luce. Lei sapeva di loro.
Del loro desiderio di vederla desiderare. Un gioco di
sguardi in cui la luce è indispensabile.
Quando lui scelse il buio, aveva capito di quel suo avere
bisogno di lei. Ma non di lei. Della sua anima.
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Questa piazza era bella, perchè era luce ed era ombra.
Questa piazza era bella, in fondo, perchè stava arrivando
lei.
A questo si era abituato. La sua bellezza era come una
mano, che accarezzava le cose intorno.
L'amore per una donna, che poi è uno solo,
perchè una sola è la mano che
sfiorando il mondo,
può rendere tutto questo bello come gli occhi che lo
guardano.
Entrando nella piazza si chiese se fosse normale sentire
quel desiderio, bruciante, folle, immaturo, egoista. Nel
vederlo, si era sentita subito riparata, da tutta quella,
troppa, luce.
Sorrideva, lui sorrideva raramente. E solo per lei. Restava
seduto su quella panchina, con l'espressione sospesa di
chi deve dire molte cose, ma vuole dirne solo una.
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Osservandola entrare nella piazza, si era sentito calmato.
Nel respiro, nel pensiero, nel cuore.
Camminava talmente bene, da rendere perfetto il gesto di
camminare. Nonostante quella sua abitudine ai tacchi,
infiniti. Come se volesse stare lontano da terra.
Non sorrideva, guardandolo. Rendeva belle anche le
piante, impaurite dall'inverno e dalla città.
Si era seduta vicino a lui, li divideva una strana scatola
azzurra.
Sembrava un vasetto. Senza nessuna pianta.
Lui sentiva, adesso,
forte,
il suo profumo.
Dolce, avvolgente.
I limoni, strani profumi per una città come Milano, erano
scomparsi.
Adesso era il suo profumo. Era il suo profumo, che lui
trovava, qualche volta, nei posti più inaspettati.
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In un supermercato, in una farmacia, su un tram. Ed era
bellissimo constatare come si possa stare bene, di colpo,
in un supermercato, in una farmacia, su un tram.
Lei guardava la scatola.
Lui guardava lei.
Le disse:
aprila.
Sottovoce.
Lei appoggiò, lentamente, un bacio sulle sue labbra.
Quella cosa per cui, in fondo, bisognerebbe lottare fino
alla morte.
Le sue mani piccole, cercavano l'inizio della carta azzurra.
L'anello con il diamante scivolava, seguendo le mani.
Sembrava, a stare ai rumori, che la città si fosse fermata.
Nel mezzo di un pomeriggio in cui la primavera stava
succedendo a Milano.
Prima di guardare dentro, lei lo prese per mano.
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C'erano momenti in cui si parlavano il meno possibile,
consapevoli di quanto una sola parola potesse essere
ospite
non gradito,
al banchetto della perfezione.
Si guardarono.
Un'altro bacio, appoggiato ancora sulle labbra.
Aveva una dolcezza infinita, a volte, nel baciarlo.
Spiazzante, se dato dalla stessa persona che lo mordeva
con una forza incredibile nel buio delle notti.
Lui sentì chiaramente il cuore rallentare, il senso
liberatorio di averle detto "ti amo".
L'immagine del suo sorriso, che in pieno inverno aveva
illuminato il viale.
Facendogli capire che, qualsiasi strada avesse preso,
avrebbe dovuto tornare da lei. Da quel sorriso. Si sentiva
respirare calmo.
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Era l'effetto che lei faceva.
Alla sua vita.
Al suo disordine.
Non lo cambiava, non lo assecondava, non lo tollerava, lo
abbracciava, semplicemente.
Tutto intorno, oggettivamente, la città sembrava ferma.
Aprendo la scatola si accorse di quanto bisogno aveva, di
quei regali disordinati, portati dalla corrente. Come
conchiglie.
Di quel suo respirare calmo, adesso di fronte a lei. Lei
aveva bisogno. Spiazzante.
Ma vero.
Mente lei apriva la scatola si accorse di quanto lui avesse
bisogno di quegli occhi,
in cui tornare.
Da cui allontanarsi solo per poterci tornare, ogni volta,
come le maree.
Aveva creduto di aver bisogno della sua bellezza, per
qualche notte.
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Per poi capire di aver bisogno della sua anima.
Non ci si aggrappa a una bellezza effimera, non ci
dovrebbe mai aggrappare solo
a una bellezza.
Ci si aggrappa a un'anima, quando si capisce di averne
avuto bisogno da sempre.
Mentre lei apriva la scatola, si sentì dire:
andrò via per qualche giorno.
Quando avrebbe dovuto dirle: tornerò ancora.
Tornerò sempre.
Lei aveva solo alzato gli occhi, arretrando
impercettibilmente a quelle sue parole.
Ancora una volta.
Via.
In fondo il mare non si può fermare.
Aveva riabbassato gli occhi. Non aveva nulla da
rispondere.
Tolse il coperchio.
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Ecco cos'era quell'odore di limoni, pensava, in mezzo al
cuore della città.
Ecco cos'era quel vento, finalmente fresco e non gelido.
Tutto il mare in una
piccola
scatola,
azzurra.
Forse non era, esattamente, un regalo.
Era più una promessa.
Forse non era un orologio.
Era un modo, tra i più semplici, di misurare qualcosa.
Che, altrimenti, non sarebbe mai entrato in una
piccola
scatola
azzurra
che assomigliava a un vaso.
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Era una promessa.
Saranno tue tutte le mie tempeste,
saranno tue tutte le mie maree,
saranno tue tutte le mie correnti.
Saranno tue,
ma nessuno è stato mai proprietario del mare.
Sarà il mare,
in effetti,
a tornare,
sempre e comunque.
Sarà il mare,
a bagnarti,
sempre e comunque.
Sarà il mare,
a decidere, dove inizia e dove finisce,
il tuo costruire silenzioso.
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Sarà il mare,
a misurare il tempo.
Il mare non ha inizio e non ha fine.
Credono tutti.
Solo alcuni, scogli verdi come occhi,
sanno che tutto questo ha un senso
una ragione
La ragione per la quale, in fondo, varrebbe la pena vivere.