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LA PAGINA MAIEUTICALA PAGINA MAIEUTICALA PAGINA MAIEUTICALA PAGINA MAIEUTICA
Periodico online a diffusione nazionale di cultura socioPeriodico online a diffusione nazionale di cultura socioPeriodico online a diffusione nazionale di cultura socioPeriodico online a diffusione nazionale di cultura socio----psicopsicopsicopsico----pedagogicapedagogicapedagogicapedagogica
a cura dello Studio di Consulenza Familiare e Psicopedagogica - Alcamo
DIRETTORE RESPONSABILE:
Grimaudo Selene
GRAFICA: impaginato dalla redazione
REDAZIONE:
Amato Anna
Bellomo Alessandro
Castelli Alessandro
Cataldo Carlo
Di Bari Bruno
Gattamorta Raffaella
Ghirardo Federica
Lazzari Elisabetta
Linciano Andrea
Lista Gabriella
Magri Elena
Minerva Rosa
Pennolino Antonella
Persiani Giuseppe
Rago Giuseppe
Staffolani Carla
Tabolacci Roberta
Tomas Maria Rosaria
Valentina Ciccomartino
Valenziano Maria Chiara
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EDITORIALE
Inserito in
https://golfoweb.com/2016/05/03/punti-di-vista-larte-e-la-pedagogia-della-bellezza
L’essere umano è un’unità complessa, inscindibile. Mente, anima, corpo
convivono quotidianamente tra le “faccende del quotidiano”, poi ogni tanto ci
accorgiamo di avere bisogno di altro, all’interno di una giornata frenetica,
spesso uguale a tante altre in cui il lavoro assorbe la maggior parte del tempo.
Allora ci rendiamo conto di avere delle esigenze spirituali, artistiche e culturali,
poi ci sono “anime elette”, ovvero, persone che vivono solamente “d’arte e
d’amore” come Giacomo Puccini, abilmente e delicatamente, scrive disegnando
e delineando la personalità della sua Tosca nella celebre opera.
“Vissi d'arte, vissi d'amore, non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva quante miserie conobbi, aiutai. […]”
Chi si occupa di educazione, è consapevole che il piacere dell’arte e le forme
della bellezza devono essere presentate ai bambini da subito, appena nati.
Diversi studi, infatti, dimostrano come attività artistiche, abilità comunicative e
sviluppo fisico-cognitivo-emotivo siano strettamente collegati. L’arte, nel
bambino, concorre a migliorare le capacità espressive, a favorire
l’apprendimento logico – matematico e linguistico, a rafforzare la
consapevolezza di sé, a liberare le potenzialità creative. Arte e creatività
diventano, dunque, importanti nello sviluppo del bambino, anche se, purtroppo,
le istituzioni scolastiche danno poco spazio ad esse. Ritengo che appena il loro
sorriso si presenta alla vita, i bambini, dovrebbero essere circondati dalla
bellezza, non quella materiale, ma quella che l’amore di un genitore può
trasmettere ad una piccola anima che deve esplorare il mondo ed imparare a
vivere e a sopravvivere. A mostrare il peggio di sé, al brutto e agli episodi
negativi, sarà la società ad occuparsene, per questo è necessario che si sviluppi
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e si diffonda la “Pedagogia dell’arte” e la “Pedagogia della bellezza”. Ritorno
indietro nel tempo e ricordo che mio padre, quando ero bambina, mi cantava le
arie delle opere, mi faceva ascoltare la musica, narrava i miti greci e declamava
le poesie. Ecco perché, poi, i bambini crescendo sviluppano determinate
inclinazioni artistiche che fanno della propria vita una vita variegata e incline ad
apprezzare il bello. Così, allo stesso modo, la “Pedagogia della bellezza” ha il
potere di educare al bello e ad apprezzare l’arte e la cultura. L’educazione “al
bello” ha la capacità di dare una speranza all’umanità e di generare anime che
diventate adulte, possano a loro volta trasmettere il “bello”. Così scrive Marisa
Musaio nel suo libro “Pedagogia del bello. Suggestioni e percorsi educative”:
<<il bello è il modo in cui ogni persona manifesta ed esprime la propria
educabilità come quella forma estetica che, più di ogni altra, mette in luce
l'integralità dell'educazione come "sinfonia" personale>>. Pensavo, inoltre, che
nella mia vita ho avuto la fortuna di accompagnare i miei giorni con l’arte, di
avere esperienze professionali e umane pregne di contenuto artistico e
culturale. Ho sempre apprezzato la lettura di un buon libro. Ho ascoltato le
opere, la musica lirica, classica, moderna, i cantautori, i giovani musicisti. Ho
ammirato le espressioni pittoriche, la scultura, la danza. Ho incontrato cantanti,
poeti, pittori, scrittori, musicisti, artisti di vario genere, conoscendo persone
meravigliose con una grande sensibilità che hanno arricchito la mia vita. Tutti
dovrebbero avere questa possibilità, perché affinare il proprio animo con la
consapevolezza dell’arte e dell’esistenza del “bello” aiuta a sopravvivere in un
mondo che va verso il declino e può aiutare a costruire una società basata sulla
comprensione e l’incontro dell’altro. Ecco perché ammiro, apprezzo, ricerco e
promuovo l’arte e la “Pedagogia del bello”. Sulle pagine di facebook ho scritto
un pensiero, dedicandolo a tutte queste persone meravigliose che ho avuto la
fortuna di conoscere “l'arte in tutte le sue forme e la cultura nelle sue
manifestazioni sono indispensabili per nutrire lo spirito e per fare raggiungere
all'uomo una dimensione di bellezza e serenità. Non potrei immaginare un
giorno della mia vita senza il contatto con un libro, un quadro, senza l'ascolto
della musica e senza apprezzare l'arte della natura. Ecco perché é necessario,
quasi quanto respirare, vivere la dimensione dell'arte e della creatività in tutte
le sue sfaccettature. Grazie a chi si avvicina all'altro con la bellezza della propria
arte.”
Selene Grimaudo
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Il prodotto editoriale, privo di periodicità e di
testata, non è sottoposto alla registrazione
presso il Tribunale. Al prodotto editoriale si
applicano le disposizioni di cui all'articolo 2
della legge 8 febbraio 1948, n. 47”.
Pubblicazione non periodica online a
diffusione nazionale di cultura socio-psico-
pedagogica
Alcamo, 04/11/2016
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Categoria: Insegnamento e ricerca - Data
di creazione: Giu 20, 2008
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SOMMARIO
- Il valore pedagogico dei centri estivi – di Maria Rosaria Tomas
- A scuola, al passo con i tempi - di Gabriella Lista
- Parola d’ordine: gioco - di Roberta Tabolacci
- Tienimi la mano - di Giuseppe Persiani
- Educare all’uso consapevole del web. Adolescenti vittime della rete - di Giuseppe Rago
- Tutor Esperto in DSA - di Raffaella Gattamorta
- Problemi sociali ed emotivi connessi ai DSA - di Federica Ghirardo
- Esperienza di malattia tumorale in età evolutiva. I vissuti del bambino malato di cancro e la sua famiglia - di Valentina Ciccomartino
-L’ascolto (Psico) Pedagogico nell’esperienza dell’ospedalizzazione. Un percorso di esperienza vissuta, di riflessione e una proposta di Formazione – di Alessandro Castelli (terza parte)
- La famiglia e i nonni. Accorciamo le distanze - di Giuseppe Persiani
- Insieme per comunicare dolcezza. Il tocco d’amore “a tempo di valzer” - di Maria Chiara Valenziano
- La famiglia come sistema (seconda parte) - di Rosa Minerva
- LE RUBRICHE
- I nostri libri
° “Filosofare in carcere” - Autore Augusto Cavadi - Recensione di Antonella Pennolino
° “Le dodici ‘bravate’ di Ercole” di Bruno Di Bari
° Fede – Folklore e feste popolari (seconda parte) di Carlo Cataldo - Psicologia
° Mobbing a cura di Elisabetta Lazzari
- Parliamo di... “Corpo e mente” – di Carla Staffolani - Curiosità a cura di Alessandro Bellomo ° Come ci vedono i nostri animali ° IL CERVELLO si modifica con l’età... di Andrea Linciano
- Info e notizie a cura di Anna Amato - I nostri corsi a cura di Elena Magri
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EDUCAZIONE – DIDATTICA E PEDAGOGIA
Il valore pedagogico dei centri estivi
di Maria Rosaria Tomas (laureata in Scienze dell'educazione e specializzata in
Human Resources Management)
Tra poco la scuola finirà e come si sa, l’estate per i bambini è il tempo delle vacanze, il momento in cui hanno la possibilità di esprimersi liberamente, lontano dalle scadenze, dagli impegni, dai compiti, dalle lezioni; è il momento più sospirato e desiderato per tutto l’anno, perché possono finalmente ritrovarsi con gli amici; tuttavia se lasciato a se stesso, rischia di diventare tempo di noia, noia vuota facilmente trasformabile in monotonia e per alcuni bambini in tempo di solitudine. Affinché il piacere del bambino di stare con gli amici e di giocare, diventi un momento di crescita personale, un modo per scoprire e approfondire i rapporti umani, e possa essere riconosciuto come un diritto di tutti i bambini, è necessario pensare e progettare spazi e tempi che ne rendano possibile la sussistenza. Il Centro estivo può essere in tal senso una risorsa, un’occasione sociale, un luogo di incontro e di confronto, uno spazio in cui poter esprimere la propria individualità e trovare risposta alle innumerevoli forme di essere fanciulli. Lo scopo dei centri estivi è quello di offrire ai ragazzi un’occasione di svago e di divertimento e dare nel contempo risposte a molteplici bisogni quali: comunicazione, autonomia, esplorazione, socializzazione, rispetto delle regole. In particolare, il gioco si pone come strumento necessario per lo sviluppo psico-motorio del bambino, permette la realizzazione del singolo nell’ambiente, l’interazione fra coetanei, agendo come stimolo per un’equilibrata crescita dell’individuo. Una formula di divertimento arricchita di valori umani, di esperienze interpersonali e di contenuti culturali si propone di superare la tradizionale formula del soggiorno stivo inteso come mero momento ludico e di svago. Per questo è auspicabile che chi organizzi i centri estivi ponga al centro del proprio progetto il bambino nei diversi aspetti della sua personalità e del suo processo evolutivo: la funzione psicomotoria, la capacità creativa, l’ esigenza di relazioni interpersonali, ecc. Proprio per le sue caratteristiche organizzative e per i suoi contenuti culturali offre ai
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bambini che vi partecipano l’opportunità di conoscere altri coetanei e di stabilire con essi rapporti di amicizia. E’ indispensabile, a mio avviso, che le attività dei centri estivi assumano “valenza educativa” affinché l’ esperienza non sia vissuta dal bambino come un’attività puramente episodica ed occasionale, ma che al contrario, diventi, nell’ambito del suo tempo libero, un progetto di gioco, di avventura e di animazione caratterizzato da finalità, obiettivi e mete da raggiungere. Il bambino vive così l’esperienza dei centri estivi come un grande gioco, un’avventura di cui è protagonista, in cui poter dare libero sfogo alla propria fantasia e contemporaneamente imparare a finalizzare le proprie energie al raggiungimento di una meta precisa. In questo modo si conferisce valore pedagogico ad un’attività di così breve durata.
A scuola, al passo con i tempi
di Gabriella Lista (Insegnante)
Non c'è rosa senza spine, non c'è scuola senza computer! La telematica è arrivata anche nelle scuole. Evviva! Il vecchio e temuto registro di carta è andato in soffitta, in buona compagnia della lavagna di ardesia, del pennino, del calamaio, dei banchi neri inclinati, sostituito dal più efficiente ed asettico registro elettronico, chiaro nella grafia finalmente leggibile, ma impersonale, uniformato a tutti gli altri registri disciplinari per una comune impostazione. Par condicio! Ma stare al passo con gli altri Stati, tecnologicamente avanzati, è davvero dura! Poco importa se gli scarichi dei bagni non funzionano, gli infissi "fanno acqua" da tutte le parti, consentendo alle piogge di penetrare sottoforma di rigoli serpeggianti che dal davanzale scendono giù verso l'interno dell'aula e contemporaneamente lo studente, seduto nei pressi, fa notare: "Prof. entra acqua e mi ha bagnato pure lo zaino. Che dite, ragà, facciamo sciopero domani?" Poco importa se le porte non sono antipanico, ma destano panico solo il vederle per la loro precaria stabilità oppure se ragnatele di fili elettrici pendono pericolosamente e peggio ancora se nel bel mezzo della lezione ti crolla il soffitto! Per non parlare dell'ora di scienze motorie che in quanto tali, si svolgono, "giustamente" in classe, in lezione frontale, perchè il cortile, quale unico spazio ampio, serve per parcheggiarci le auto. Ma questi sono solo dettagli! Quello che importa è andare al passo con i tempi, essere trandy, seguire, in questa corsa affannosa, gli altri Paesi,
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europei e non, che brillano per strumentazioni tecnologiche, ampie e luminose aule, nuove di zecca o mantenute in modo impeccabile, dove i banchi sono spalti muniti di poltroncine e ripiani poggia-oggetti. Ma questi Stati (bisogna dirlo) hanno superato, da tempo, la fase primaria della sopravvivenza! Ad ogni modo, non mi sento di infierire facendo il confronto tra l'Italia ed il resto del mondo. Rievocherebbe confronti fantozziani tra vincenti e perdenti. E indovinate un po' chi fa la parte del perdente? Comunque, di una cosa possiamo essere orgogliosi, dell'insegnamento e dell'esercito di docenti che lavorano in prima linea su un fronte malandato da prima guerra mondiale. Solo che ci dicono di fermarci i alla competenza della disciplina, arricchendola di infiniti progetti e progettini ministeriali, trascurando le competenze pedagogiche, pur avendo avuto nella storia della Pedagogia italiana, personaggi come Maria Montessori o Agazzi, tanto per citarne qualcuno. Si è dato per scontato o come irrilevante il modo di avvicinare l'alunno alla materia, farla amare, approcciarsi allo studente empatizzare con le sue problematiche. La Pedagogia non può essere considerata la Cenerentola della scuola, perchè fa parte integrante dell'istruzione, della formazione di ogni essere umano, dalla sua nascita fino alla età matura. Questo perchè ogni età ha i suoi cambiamenti, i suoi continui adattamenti a situazioni sempre nuove e mai scontate, alle sue diverse esigenze relazionali e comportamentali, a volte difficili da affrontare o incomprensibili da individuare. La Pedagogia e con lei la figura di un pedagogista all'interno delle scuole e non solo, deve diventare indispensabile, laddove la società sta sempre più dando segnali di confusione comportamentale, cognitiva, affettiva, relazionale e gli effetti, si vedono già e diventano sempre più ingestibili. La società, preoccupata giustamente a sanare situazioni economiche anche di sopravvivenza, non avrà più tempo per potersi occupare del lato educativo- relazionale dell'individuo e prima che la cosa ci sfugga di mano, prima che sia troppo tardi , bisogna lavorare sulla prevenzione. Se esistono persone realmente competenti nel settore pedagogico , bisogna che vengano prese in considerazione e non fare i tuttologi, non possiamo essere presuntuosi ed essere contemporaneamente impiegati. insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, solo per qualche piccola quanto rudimentale e maldestra informazione. A ognuno il suo! Per una dermatite si va dal dermatologo e non dall'estetista o dall'ortopedico. Non vi pare?
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BAMBINI E ADOLESCENTI
PAROLA D’ORDINE: GIOCO
di Roberta Tabolacci (Educatrice professionale della Provincia di Roma)
“Un essere umano diventa tale
durante il gioco” (Friedrich Schiller)
Che cos’è il gioco per i più piccoli?
Il gioco è l’attività fondamentale dell’infanzia, è la maggiore espressione dello sviluppo
umano e la libera espressione dell’anima dell’uomo. Per i bambini piccoli, il gioco è il
modo con il quale essi ricevono ed assimilano informazioni dal mondo esterno. Per
dirlo con le parole di Hartley e Goldenson“ il gioco non è soltanto la risposta del
bambino alla vita: è la sua stessa vita di individuo che vive, che si sviluppa, che crea”.
Nei primi anni di vita è importantissimo affinché gli esseri umani raggiungano il loro
pieno potenziale in quanto è la lente attraverso la quale i bambini conoscono e
sperimentano il mondo esterno ed iniziano a relazionarsi con gli altri. È essenziale allo
sviluppo del piccolo e non solo, in quanto contribuisce al suo benessere fisico, sociale,
cognitivo ed emotivo. Non a caso:
- Riduce paura, ansia, stress ed iperattività
- Crea gioia ed aumenta l’autostima
- Aumenta la lealtà e la flessibilità emotiva
- Aumenta la calma e la capacità di affrontare i cambiamenti e le sorprese
- Aumenta l’empatia
- Ha modalità inclusiva e non esclusiva
- Aumenta l’attenzione e lo spirito di gruppo
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- Aumenta l’agilità, la coordinazione e l’equilibrio
- Sviluppa il cervello del bambino e ritarda la demenza senile nella vecchiaia
- Aiuta a superare i piccoli e grandi traumi della vita.
Senza il gioco, l’apprendimento e le normali funzioni sociali possono non svilupparsi
adeguatamente. I bambini che non giocano, o non ne hanno la possibilità, sono
infatti a rischio di sviluppi anomali e comportamentali devianti. Senza il gioco
l’autocontrollo non si sviluppa in maniera adeguata e il livello ottimale di
apprendimento delle normali funzioni sociali e di altre funzioni cognitive può non
essere raggiunto adeguatamente. Qualsiasi tipo di gioco da quelli inventati a quelli di
lotta hanno quindi un ruolo cruciale nello sviluppo dei bambini perché durante la
crescita il bambino impara molto da questa attività. Questo perché è un attività
impegnativa poiché devono prestare attenzione alle parole e alle azioni degli altri,
concentrandosi sul proprio linguaggio per riuscire a comunicare in modo chiaro. I
bambini imparano a far ciò ascoltando e di conseguenza giocando. Inoltre, crea dei
solidi legami di amicizia in quanto impara, sviluppa e pratica nuovi comportamenti e
competenze sociali. Il modo in cui lo metterà in pratica, rivelerà interessi, abilità,
desideri e paure. Il gioco varia durante il periodo della prima infanzia. Si passa ad
esempio dal primo che risulta essere individuale e legato prettamente a chi si prende
cura di lui, successivamente quello manipolativo, di fantasia, fino ad arrivare al vero e
proprio gioco di gruppo. Sul tema gioco esistono una molteplicità di studiosi che
sottolineano proprio l’importanza del tema gioco nello sviluppo e nella crescita del
bambino. Gli psicologi cercano di definire e chiarire il significato “gioco” in diversi
modi. Alcuni pensano che il bambino giochi per un eccesso di forza e di energia. Altri
invece ipotizzano che ripeta nel gioco tutto ciò che racchiude e che riguarda lo
sviluppo dell’uomo. Esiste poi la teoria che ipotizza che attraverso il gioco, il bambino
allenti la sua tensione emotiva. Lo psichiatra Stuart Brown scrive che giocare è “ la
base dell’arte, dei giochi, dei libri, degli sport, dei film, della moda e del divertimento;
è quindi in breve, la base di quello che viene identificato come civilizzazione.” Secondo
il terapista O.Fred, il gioco massimizza le potenzialità del bambino permettendogli di
sviluppare creatività ed immaginazione. Studi provenienti da molti paesi mostrano una
relazione fra un precoce gioco di gruppo e successive abilità comunicative. Westman a
tal proposito, lo considera come un arma per lo sviluppo del linguaggio e della
comunicazione. La Klein ha ampliato e approfondito il tema gioco identificandolo come
il luogo in cui il bambino esprime le sue fantasie, i suoi desideri e anche le esperienze
reali in maniera simbolica. È bene lasciare i bambini giocare con giocattoli fabbricati: i
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giocattoli oltre ad essere nati per far giocare i bambini, invitano al gioco e lo
prolungano. I bambini, utilizzando i giocattoli, giocheranno più a lungo fino al
momento in cui avranno a disposizione oggetti per giocare ed otterranno tutti i
benefici che il gioco ha loro da offrire. È però bene ricordare che tutti i bambini hanno
bisogno anche di trascorrere del tempo giocando all’aperto e sperimentare quello che
viene chiamato gioco libero in cui il bambino è libero di scegliere giochi ed oggetti a
suo piacimento. I bambini infatti, traggono maggior beneficio variando le attività di
gioco passando da quelle di gruppo a quelle individuali, da quelle silenziose a quelle
più rumorose. Purtroppo però, oggi giorno i bambini ricevono un supporto minore
sugli aspetti riguardanti il gioco rispetto alle precedenti generazioni. Questo è dovuto
in parte al cambiamento dello stile di vita che è divenuto molto più frenetico ed
inoltre, anche al cambiamento delle strutture familiari e dell’aumento dell’attenzione
per aspetti riguardanti l’educazione scolastica e per le attività ricreative. Soprattutto
con i più piccoli, diventa un’opportunità ideale per relazionarsi con i “grandi” che si
prendono cura di loro diventando così un momento da trascorrere insieme. La capacità
di giocare è innata nell’essere umano ma i genitori devono insegnare ai figli a farlo nel
modo corretto fornendo loro gli strumenti per poi poterlo applicare senza la presenza
di un “grande”. Il messaggio importante che comunque deve passare è quello di “si al
gioco ma non è possibile giocare sempre”. I bambini devono infatti capire che ci sono
momenti dedicati al gioco e momenti per altre attività. “Restituire ai nostri bambini il
gioco è il miglior regalo che possiamo fargli ed è anche un dono essenziale se
vogliamo che diventino degli adulti psicologicamente sani ed emotivamente
competenti”.
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Educare all’uso consapevole del web. Adolescenti vittime della rete
di Giuseppe Rago (Insegnante negli istituti tecnici, laureato in Scienze dell’educazione e della formazione. Ha perfezionato gli studi in Sviluppo delle tecnologie informatiche e applicazione alle metodologie didattiche e ha conseguito presso il Politecnico di Milano il diploma di “Esperto di didattica assistita dalle nuove tecnologie”. Svolge attività di e-tutor e progettazione e-learning. Attualmente è docente a contratto presso l’Università di Foggia)
Nell’era dei social e della connettività diffusa, merita particolare attenzione il delicato
tema della sicurezza dei minori sul web, che molto spesso con prepotenza irrompe e
coglie impreparate le famiglie, le scuole e gli operatori della realtà socio-psico-
pedagogica. Il cyberbullismo, divenuto un vero allarme sociale, è solo una delle tante
insidie di Internet. Le potenzialità della rete e degli strumenti tecnologici, complice
l’anonimato, fanno presto a diventare armi di persecuzione e tortura con conseguenze
che affondano in disturbi psichici e depressivi. Quello del bullismo sul web è un
fenomeno, anche non molto recente, che riguarda tutti e che ha assunto fama e
rilevanza, senza troppe difficoltà, investendo tutte le fasce sociali, culturali e
geografiche. Con pochi clic, il degrado sociale delle periferie è diventato il disagio della
rete. Il governo su questo è al lavoro. Alla Camera, congiunte, le commissioni Affari
sociali e Giustizia stanno portando avanti un iter che punta ad un testo di legge volto
a colmare quel vuoto normativo che si avverte sempre più. Di fronte ad adolescenti
sempre meno consapevoli dei rischi e delle opportunità dei media digitali, è necessaria
infatti una legge ad hoc, dal carattere giuridico (repressivo) ma soprattutto educativo
che punti alla prevenzione del fenomeno e alla promozione e tutela dei diritti dei
genitori e dei minori. Se è vero che tutti gli adolescenti oggi hanno libero accesso alla
rete, da PC e smartphone, è vero anche che sono sempre più soli e meno controllati.
La conferma è data dalle tante indagini sull’uso (abuso) sregolato dei media da parte
dei minori. Gli studi hanno rivelato anche come, nonostante la consapevolezza dei
genitori sui pericoli del web, non è ancora matura quella competenza digitale ed
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educativa che dovrebbe preservare e assicurare un controllo di qualità e quantità
d’uso. Analizzare il fenomeno della sicurezza sul web significa, qui, per capirci,
guardare la faccia peggiore della medaglia, quella che fa Internet troppo attraente,
irresistibile, capace, però, allo stesso tempo di umiliare, di far fare agli adolescenti un
pieno gratuito di sfottò e aggressività. Uno tsunami che, senza il giusto controllo,
investe i minori portando anche a disturbi alimentari (anoressia e obesità), fisici
(sedentarietà, postura scorretta, astenopia, pseudomiopia) e del crescere sociale
(introversione, scarsa propensione al gioco con i compagni, indisponibilità alle
relazioni negoziali) facendo sperimentare in maniera distorta anche forme di sessualità
non consone alla loro età. Di fronte ai rischi di un mondo virtuale, la chiave di lettura,
in ambito preventivo ed educativo, è quella di lavorare sulla consapevolezza di identità
dell’individuo in rete. È necessario che le agenzie educative, tutte, facciano rete,
interagiscano e promuovano sul territorio azioni concrete, di supporto alle famiglie,
per far abituare gli adolescenti a guardare l’immagine reale della loro dimensione
virtuale, lavorando con percorsi basati sull’empatia e l’introspezione per incentivare
modelli di costruzione del sé, sempre più digitale.
DISABILITA’- DIVERSITA’ - DSA
Tutor Esperto in DSA
di Raffaella Gattamorta (Educatore e Tutor Esperto nei Dsa)
Il Tutor è una nuova figura educante, un raccordo tra la famiglia del bambino con
Disturbi Specifici di Apprendimento o con Bisogni Educativi Speciali e la scuola. Il suo
scopo è quello di agevolare i rapporti tra queste due istituzioni sia da un punto di vista
didattico, sia da quello amministrativo-legislativo, attraverso un percorso strutturato
avente l’autonomia scolastica del bambino come principale obiettivo, nonché, in via
generale, la maggiore distensione dei rapporti personali tra tutti i soggetti coinvolti in
questo cammino. Tale figura, non esonera il genitore dalla responsabilità di seguire i
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figli nello studio, ma perfeziona la loro azione con percorsi mirati, e attraverso il
proprio lavoro, fornisce la motivazione all’apprendimento, la capacità organizzativa,
ma soprattutto riconosce le strategie migliori per programmare lo studio. Inoltre,
sceglie gli strumenti compensativi più idonei a compensare i disturbi, e qualora
necessario, li concorda anche attraverso la stesura del PDP (Piano Didattico
Personalizzato), durante gli incontri con i docenti e gli specilisti dei servizi dell’equipe
multidisciplinare, con cui intrattiene contatti periodici. Il suo ruolo, oggi è considerato
fondamentale e determinante, in quanto facilita, ulteriormente, alcune famiglie in
difficoltà per quello che riguarda l’aspetto relazionale-organizzativo, o per pura
incompetenza specifica.
Mappe Concettuali per tutti
Le mappe concettuali, sono lo schema cognitivo di ogni individuo, l’organizzazione e
l’elaborazione personale delle conoscenze che sia hanno, e soprattutto, rispecchiano
l’organizzazione delle idee mentali e quindi una fotografia delle nostre idee. Sono
considerate tra gli strumenti più potenti e validi nello studio, ed indicati per mettere in
relazione le nozioni in modo consapevole, e pertanto utilizzandole, favoriscono un
apprendimento rilevante. Le mappe dei ragazzi sono personali e per tale motivo, è
necessario abituare lo studente a costruire la propria attraverso due processi:
processo mentale procedurale e processo mentale relazione. Il processo mentale
procedurale, è tutto ciò che riusciamo a fare come leggere, scrivere e parlare. Il
processo mentale relazionale invece si basa su un’azione. La costruzione della mappa
concettuale, aumenta il processo mentale relazionale, fino a quando non viene scritta.
Inoltre, essendo create in modo privato e corredate di caratteristiche proprie, non
dovrebbero mai essere lette o studiate da altri. Nelle scuole, purtroppo, sono utilizzate
particolarmente dai ragazzi con DSA ma al contempo, il loro impiego, potrebbe essere
esteso al gruppo classe, per dare la possibilità a tutti di sperimentare e poi constatare,
quando siano efficaci, necessarie ed utili ai fini dell’apprendimento, nonché del
successo formativo.
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PROBLEMI SOCIALI ED EMOTIVI CONNESSI AI DSA
di Federica Ghirardo ( Pedagogista specializzata in disturbi dell'apprendimento )
Nel percorso diagnostico e scolastico di alunni con dsa è essenziale tener conto del disagio psicologico correlato alla già gravosa fatica nell’apprendimento. La delicata sfera emotiva del bambino sottoposto a tale stress può esserne danneggiata, specie per quanto riguarda l’autostima e la consapevolezza di sé, con inevitabili conseguenze sulle dinamiche relazionali. Le emozioni hanno un peso notevole nella costruzione della personalità, così come nella costruzione del concetto di sé, scolastico ed extrascolastico, e del senso di autoefficacia. Per un istante proviamo a metterci nei panni di un bambino o di un ragazzo con disturbo dell’apprendimento e immaginiamone gli stati d’animo: egli si trova a far parte di un contesto (la scuola) nel quale vengono proposte attività troppo complesse e astratte e osserva che la maggior parte dei compagni si inserisce con serenità nelle attività proposte ottenendo buoni risultati. Sente su di sé continue sollecitazioni da parte degli adulti di riferimento (“stai più attento”, “impegnati di più”, “hai bisogno di esercitarti molto”..); spesso non trova soddisfazione neanche nelle attività extrascolastiche,poiché le lacune percettivo motorie possono non farlo “brillare” nello sport e non renderlo pienamente autonomo nella quotidianità. Tutto ciò comporta la percezione di incapacità e di essere incompetente rispetto ai coetanei. Da qui in poi inizia a maturare un forte senso di colpa:si sente responsabile delle proprie difficoltà e ritiene che nessuno sia soddisfatto di lui: né gli insegnanti né i genitori. Ritiene di non essere all’altezza dei compagni e di non essere considerato membro del gruppo ( a meno che non vengano messi in atto comportamenti particolare, come ad esempio fare il buffone in classe). A volte per non percepire il proprio dissagio mette in atto meccanismi di difesa che non fanno che aumentare il senso di colpa, come il forte disimpegno o l’attacco. Talvolta in il disagio è così elevato da annientare il soggetto ponendolo in una condizione emotiva di forte inibizione e chiusura. Le possibili ricadute sull’adattamento psicosociale sono quindi:
- Vissuti di inadeguatezza - Disagio,ansia e insicurezza - Difficoltà relazionali con i compagni e isolamento
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- Demotivazione e disimpegno - Rifiuto delle attività scolastiche
Il rimando oggettivo che il ragazzo con dsa riceve quotidianamente dalla realtà scolastica è comunque sempre di inadeguatezza. E’ necessario un deciso ripensamento delle modalità di inclusione e di didattica per sopperire a queste mancanze, oltre a una maggior dose di empatia.
RELAZIONE D’AIUTO – BIOETICA
Esperienza di malattia
tumorale in età evolutiva. I vissuti del bambino malato di
cancro e la sua famiglia
di Valentina Ciccomartino (Laurea magistrale in psicologia clinica e della salute)
Essere pienamente convinti e fortemente motivati è sempre stato considerato un
fattore fondamentale per portare a termine con successo, di qualsiasi grado o forma
esso sia, le svariate scelte, sia in numero che in quantità, che la vita stessa pone
davanti all’individuo. Spada di Damocle è l’espressione con cui si può definire il
cancro. Oggi fortunatamente ci sono delle terapie che in diversi casi portano
alla cronicizzazione della malattia, promettendo quindi buone aspettative di vita ai
malati. Ma bisogna imparare a vivere con la sensazione che le cose possano cambiare:
Secondo il racconto di Cicerone, la spada è sospesa sulla testa di Damocle retta da un
solo e sottile crine di cavallo: la spada è grossa e pesante, e il crine potrebbe
spezzarsi da un momento all’altro. Dare importanza alle piccole vittorie: è così che si
riconquista la fiducia e la speranza nella vita quando si è colpiti dal cancro. Tutti i
malati di tumore dovrebbe brindare per ogni piccola conquista nella lotta contro la
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patologia. Se l’esito di una Tac è buono, si deve festeggiare. Non arrendersi mai, e
non sentirsi mai i più sfortunati, perché solo cosi si può sperare di vincere la lotta. La
patologia tumorale, per il suo carattere di gravità e di cronicità, ha un effetto
sconvolgente sulla vita del piccolo paziente e della sua famiglia. L’ottica
multidimensionale è dunque fondamentale nell’incontro col paziente oncologico: non si
può aiutare in modo adeguato il paziente senza intervenire sulla famiglia e sull’equipè
curante. La malattia oncologica comporta sicuramente un'improvvisa interruzione
della vita quotidiana a livello emozionale, cognitivo, sociale. Il piccolo paziente è
invaso da una netta prevalenza del corpo e del vissuto corporeo su ogni altra
esperienza di vita: sottoposto a una serie di indagini, interventi chirurgici, terapie,
sperimenta attraverso il dolore fisico, la nausea, il vomito, il suo nuovo modo di stare
al mondo. L'esistenza è segnata dai ritmi imposti dai protocolli che seguono tappe
precise: la definizione della diagnosi, l'impostazione terapeutica, la somministrazione
dei blocchi terapeutici, il consolidamento fino allo stop terapia. All’emergenza della
prima comunicazione diagnostica, segue come fattore di ulteriore impatto, in termini
razionali ed emotivi, il riferimento alla prognosi. L’incertezza prognostica cattura
qualsiasi risorsa del cuore e della mente. L’eventualità di perdere un bambino diventa,
per il genitore, un dolore del corpo, un insulto immotivato alla genitorialità, una
dichiarazione di incompetenza. Per il paziente quasi adulto la prognosi limita
l’orizzonte, colpevolizza il tentativo di autonomia, ravviva la dipendenza, conflittuale,
dagli adulti di riferimento. Il paziente piccolo avverte la gravità attuale in rapporto al
corpo che cambia, allo stile di vita che si contrae, alle percezioni dolorose che
sopporta. Per lui le sensazioni ed i sentimenti sono ancora i canali comunicativi più
efficaci: la sofferenza propria corrisponde a quella stampata sul viso della mamma e
del papà. “Il fare”, diluisce la tensione e stempera le attese. Perché tutta la famiglia è
sopraffatta dalla dimensione dell’attesa, secondo due estremi: la paura e la speranza.
Diventa quindi fondamentale come l’equipe imposta la propria attività di cura e
sostegno alla famiglia e al paziente, inserendo all’interno del percorso terapeutico una
progettualità di lunga durata. Il piccolo può così essere pensato come persona dentro
le proprie relazioni di accudimento che continua il proprio percorso evolutivo, anche
all’interno dell’ambiente ospedaliero. Il gioco, la scuola, la psicologia esprimono
occasioni comunicative normali che segnano il passo verso la crescita del minore e
offrono alla famiglia spazi di riflessione e spunti di contatto col mondo esterno. Risulta
evidente da quanto detto che l’intervento psicologico nelle malattie oncologiche del
bambino ha per lo più un carattere preventivo, finalizzato a favorire l’adattamento
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dell’intera famiglia alla situazione di malattia e a garantire, in questo modo, la
continuità del clima educativo e la normalità del processo evolutivo. L’aiuto al bambino
deve passare quanto più è possibile attraverso l’aiuto ai genitori, che si realizza
attraverso l’ascolto empatico e non giudicante e la condivisione che limita il
sentimento di solitudine e avvia un processo di comprensione. E’ così che genitori e
operatori apprendono, reciprocamente, i modi in cui si può stare accanto ad un
bambino che soffre.
@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@
L’ascolto (Psico) Pedagogico nell’esperienza dell’ospedalizzazione.
Un percorso di esperienza vissuta, di riflessione e una proposta di formazione per interventi pedagogici in
contesti clinici e socio sanitari (terza parte)
di Alessandro Castelli (Pedagogista e Counsellor)
Il decorso ospedaliero ha bisogno di una maggiore umanizzazione. Il Pedagogista
in ambito ospedaliero.
Il periodo della degenza, così com’è attualmente strutturato, non aiuta ad una
certa sistematicità funzionale nella quotidianità del percorso terapeutico. Ci sono
infatti diversi aspetti “forzati” all’interno della vita in ospedale, a causa dalle esigenze
strutturali e professionali, per cui il paziente si deve adeguare a loro, cercando di
organizzarsi individualmente, se è possibile, ma non è sempre possibile. A tal fine c’è
bisogno di una serie di strategie utili e opportune per il percorso terapeutico da
affrontare, a favore del Paziente adulto, che anche in questo caso vorremmo
sintetizzare nei punti fondamentali, per una successiva rielaborazione:
� La degenza:
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• I tempi
• I mezzi
• Gli strumenti
• Le tecniche dell’interazione
I quattro punti sopra evidenziati sono fondamentali al fine di un ,miglioramento
psicofisico dell’Individuo ricoverato. L’assenza dal calore delle mura familiari,
lascansione dei tempi e degli spazi interni, pur se necessari, creano un ulteriore
trauma all’individualità di ognuno e solo la vicinanza dei propri cari e una certa
preparazione e sensibilità professionale, può attutire tale scompenso emotivo.
Proprio a questo proposito, l’insieme della nostra proposta, prevede una certa
rimodulazione o comunque, riqualificazione all’interno dei servizi giornalieri
ospedalieri, attuali, per ottimizzarne le prestazioni mediche, infermieristiche, ausiliarie
e ambientali, a favore del Paziente e del Personale tutto. Ri-qualificazione e
ottimizzazione dei servizi sanitari interni, in senso strettamente pedagogico, vuol dire
che le attività giornaliere, prestazioni, spazi e tempi, dovrebbero essere gestite
diversamente, ma senza alcuna rivoluzione. In questo senso e a questo proposito,
l’apporto del Pedagogista all’interno della struttura ospedaliera, favorirebbe un
“incontro” diverso e più funzionale alle esigenze delle parti, utilizzando strumenti
adeguati di inter-azione tra gli attori coinvolti (pazienti, medici, infermieri, ausiliari e
familiari), per una organizzazione, umana, interna, più efficace. Un senso
organizzativo-pratico nuovo, rispetto alle esigenze di tutti, ma soprattutto dal punto di
vista emozionale che la figura “nuova” del Pedagogista in ambito ospedaliero,
aiuterebbe a monitorare al meglio, dall’interno, le varie istanze emotive e di
fruizione/organizzazione del servizio, a favore del Paziente e del Personale tutto.
Spesso inoltre sono carenti anche le figure dei Volontari, (nel reaparto di Ematologia
del Gemelli, c’è solo una disponibile e cara suora che cerca di dare un po’ di conforto
ai pazienti e quando può li aiuta anche per alcune richieste pratiche…Ma c’è bisogno di
un maggior sostegno.
Conoscere se stessi e gli altri: il rapporto ospedaliero e la compartecipazione
del percorso terapeutico.
Le relazioni e i rapporti in ambito ospedaliero, tra le persone, subiscono
inevitabilmente degli “influssi istintivo professionalizzanti”, come oserei
chiamare…Ovvero, essendoci quasi mai momenti di specifica e strutturata conoscenza
reciproca, tra paziente, medico e personale infermieristico, in particolare, l’unica
“relazione” tra le parti è limitata alla “conoscenza funzionale” tra le parti, in occasione
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delle quotidiane visite mediche o degli interventi infermieristici, limitari a questo. Ed è
normale… Secondo quanto afferma il Dr. Mammì, “curo gli altri per non pensare ai
miei nodi irrisolti” e “occuparsi di chi si occupa di terapie a prescindere dal loro grado
di legittimità”, è un’altra forte riflessione che noi Pedagogisti dovremmo favorire,
affrontare e cogliere. La conoscenza globale e particolare dell’individualità Paziente,
dovrebbe essere favorita all’interno del processo medico e qui il Pedagogista può fare
davvero, meglio di altri. E’ a questo proposito che si dovrebbe aumentare e favorire il
senso di “compartecipazione” del percorso terapeutico, a favore della diretta
informazione del Paziente, diminuendo la “distanza” tra medico e paziente stesso,
proprio per far si che il percorso e il decorso terapeutico, sia il più possibile condiviso
dalle parti, aumentandone la consapevolezza e la responsabilità reciproche. Tutto
questo risulterebbe a favore anche del medico, che troppo spesso si trova di fronte
alle enorme responsabilità, (tipiche certo della professione scelta), ma con
conseguenze psicologiche, sicuramente non abbastanza affrontate e assorbite.
Questa verità, in una professione d’aiuto come quella del medico (ma anche dal punto
di vista del paziente), risulta nei fatti, in una certa contraddizione. Nelle
professionalità mediche, riconosciute a favore della cura della persona e alla salvezza
della vita umana, non sia più “solo” sterile competenza dall’alto delle accademie
universitarie, ma un processo di ottimizzazione continua per il Ben-Essere della
Persona!
FAMIGLIA - CONSULENZA E MEDIAZIONE
La famiglia e i nonni. Accorciamo le distanze
di Giuseppe Persiani (Formatore)
Mi sono chiesto quale sarebbe stato l’argomento da considerare in questo nuovo
numero della “Pagina Maieutica”, dunque, a partire da un’analisi dei bisogni del nostro
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territorio e dell’ambito più allargato a livello sociale, mi è sembrato più cogente non
tanto quello di definire il rapporto genitori – figli, ma quello che coinvolge le relazioni,
con forti implicazioni, affettive ed emotive, con i nonni. Ciascuno di noi, infatti, ha
sperimentato più o meno di recente il fascino del rapporto diretto al quale i nonni
danno vita con i nipoti, talora molto solido, a volte in armonia con i genitori, a volte in
contrasto. Trascurato fino a non molto tempo fa, oggi il ruolo di nonno è oggetto di
accurati studi e indagini, per cui è possibile affermare che «quello di nonno è un ruolo
emergente» (Mario Gecchele). Identificati con gli anziani, nel passato, infatti, ci si
occupava delle loro problematiche in merito alla terza età, successivamente si è fatta
strada l'idea che occorre studiare in modo differente la complessità del fenomeno,
perché non tutti gli anziani sono nonni e non tutti i nonni sono anziani. È un ruolo
antico quello dei nonni, era consuetudine, infatti, un paio di generazioni fa che i nonni
vivessero in casa con figli e con i nipoti, quindi un nonno e una nonna erano dei “vice-
genitori”; attualmente si profila la necessità di riproporre questo modello, a causa di
diversi fattori: la sempre crescente industrializzazione e la postmodernità, gli orari
sempre più intensi per i genitori che hanno un lavoro ai limiti del precariato, la crisi
economica e la carenza di strutture che rendono inaccessibile per molti l’asilo nido, le
massicce campagne di prepensionamento che hanno lasciato inoccupati giovani
sessantenni volenterosi, hanno fatto si che il ruolo dei nonni tornasse in auge.
Certamente, ci sono casi in cui si abita nello stesso palazzo, ma la vicinanza non è
sempre così… vicina: magari la strada dopo, lo stesso quartiere o paese o città. Ci
sono i nonni che si vedono una volta ogni tanto, una domenica, nelle vacanze o ai
compleanni ed invece quei nonni… quotidiani. Si capisce, dunque, da questa lettura
che essere nonni oggi, si presenta come un ruolo nuovo anche perché non è
assimilabile a quello tradizionale del nonno patriarca, depositario di cultura e
saggezza, legato al mondo contadino. I profondi cambiamenti avvenuti all'interno
della società e della famiglia hanno dato vita ad una nuova immagine del nonno, così
come hanno mutato i rapporti fra genitori e figli: «non è un'esperienza dedotta dal
vissuto tradizionale, ma una vera e propria reinvenzione», come afferma il prof.
Gecchele. Il ruolo che i nonni oggi assumono non corrisponde, infatti, all'immagine
che essi hanno assimilato dalla tradizione e, tuttavia, la cultura diversa, di cui è
portatore il nonno, nella nostra società, può costituire per i bimbi l'occasione per
ampliare i propri orizzonti e per superare le barriere culturali. E' questo uno dei motivi
che porta autorevoli studiosi oggi a dedicare molta attenzione alla figura del nonno
come fonte di promozione e di dialogo per tutti i componenti della famiglia. È stata
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condotta dai proff. Mario Gecchele e Giovanni Danza la ricerca raccolta in un saggio
dal titolo «Nonni e nipoti: un rapporto educativo» (Ed. Rezzara, Vicenza, 1993); essa
si propone di offrire un contributo alla riscoperta e alla valorizzazione del potenziale
educativo dei nonni, ricchi di risorse e in grado di offrire ai genitori e agli enti
educativi un valido apporto per l'umanizzazione e lo sviluppo dell'identità personale
nei giovani d'oggi. I “nonni ideali” dovrebbero avere fra i 65 ed i 74 anni, dimostrano
di avere intrapreso e accettato positivamente la propria anzianità, vivono con i
rispettivi coniugi, non insieme ai figli e ai nipoti, risiedono in una zona periferica, medi
i loro livelli di istruzione. Per quanto riguarda i nipoti, invece, essi sono di età
compresa tra i sei ed i dieci anni di età, incontrano spesso i nonni che hanno un ruolo
di “sostegno” per i loro figli sempre occupati a lavoro. Disponibili a collaborare, quindi,
i nonni attuali ricevono più soddisfazione dal rapporto con i nipoti al di là dell'efficacia
della loro azione educativa, perché sanno giocare con loro, aiutarli nei compiti,
ascoltarli, con intraprendenza e dinamicità, mostrando un atteggiamento meno
autoritario e meno direttivo rispetto ai nonni del passato, più complice, inoltre, sono
più sensibili alla richiesta di doni e di mezzi che rafforzano la relazione. Il rapporto
nonni - nipoti, dunque, risulta più libero, rispetto a quello fra genitori – figli, ma
integrativo di quest’ultimo per lo sviluppo e la ricchezza delle esperienze dei bambini.
I nonni sono custodi dei nostri piccoli e se desideriamo trasformare la relazione con
loro in una occasione di crescita reciproca, cioè di coeducazione, facciamo in modo che
siano stimolati a rimanere sempre “giovani dentro”, coltivando interessi e relazioni
sociali, valorizzando e scoprendo le proprie potenzialità creative, così da “accorciare le
distanze” fra generazioni e considerarli un tesoro prezioso.
Bibliografia: Denis S., L’arte di essere genitori e nonni, Elledici, 2005. Gecchele M.,
Danza G., Nonni e nipoti: un rapporto educativo, Ist. Rezzara, 1993. Sibella S., Il libro dei
nonni e dei nipoti per conoscersi, volersi bene, giocare insieme, imparare gli uni dagli altri, De
Agostini, 2012.Voli F. , L’arte di essere nonni fantastici, Franco Angeli Editore, 2010.
]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]]
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Insieme per comunicare dolcezza. Il tocco d’amore “a tempo di valzer”
di Maria Chiara Valenziano (docente e formatrice).
Se durante la gravidanza la relazione tra la mamma e il bebè è naturale,
altrettanto lo è con il papà: presenza fondamentale per lo sviluppo armonioso del
bambino, infatti, è il papà; lo spiega nel suo libro Gino Soldera che ci offre spunti utili
in «Mamme e papà, l’attesa di un bambino» (Città Nuova, 2014). Secondo la
psicologa tedesca Monica Lukesch, che ha seguito duemila donne lungo tutta la
gravidanza e il parto, la qualità del rapporto che la madre ha con il partner è
essenziale per la formazione della personalità del bambino. Non dobbiamo mai
dimenticare che il padre durante la gestazione concorre insieme alla madre alla
formazione del figlio. Il bisogno di sentire accanto alla mamma anche il proprio papà è
un bisogno di tipo “emotivo”, potremmo definirlo, per ricevere da lui quel nutrimento
affettivo che caratterizza l’imprinting relazionale ed intellettivo necessario alla sua
crescita e alla sua maturazione: il suo apporto è di natura integrativa e
complementare rispetto alla madre, è per il nascituro “l’ambiente condiviso”.
Spieghiamone il perché qui di seguito: abbiamo compreso con gli articoli precedenti,
grazie ai contributi citati di studi scientifici effettuati in ambito perinatale, che la
musicoterapia in gravidanza è essenziale per porre le basi dello sviluppo emotivo,
cognitivo e relazionale futuro del bimbo/a, dunque, allo stesso modo la voce del padre
è percepita dal feto, ma rispetto a quella della madre, che gli giunge sempre dallo
stesso punto, quella del padre, più grave, gli arriva ogni volta da posizioni differenti.
Empatia e ascolto profondo sono le caratteristiche essenziali che costituisce la
reciprocità della relazione padre – figlio/a, potremmo infatti definirla “performativa”.
Se ci guardiamo intorno, senza ricorrere a studi scientifici, notiamo vistosamente che
negli ultimi decenni la figura paterna ha subito notevoli trasformazioni: il passaggio
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alla famiglia nucleare ha contribuito a configurare il ruolo paterno che è passato
dall’estremo autoritarismo all’autorevolezza. In passato, conosciamo tutti la situazione
sociale dei trascorsi nei nostri territori geografici, i padri “dovevano” essere severi,
così che il gioco e la creatività dei piccoli venivano così sacrificati in nome di una
tradizione che negava loro affetto e comprensione, provocando spesso nei bambini un
basso concetto di sé che li avrebbe accompagnati per tutta la vita. Anche le leggi sul
lavoro che agevolano le donne impegnate professionalmente, hanno contribuito a
valorizzare la paternità, grazie alla possibilità di usufruire di permessi appositi per
dedicarsi ai figli nei primi anni della loro crescita. Papà che amano, comprendono e
crescono i loro bambini e che, pertanto, si assumono la responsabilità di aiutarli ad
evolvere nei primi passi del cammino della vita insieme alle mamme, senza volersi
tuttavia sostituire a loro e senza sminuire la propria virilità. Secondo studi applicati
nell’ambito dell’educazione perinatale, si è constatato che gli adulti che da bambini
hanno ricevuto maggiore affetto paterno tendono a intrattenere buone relazioni
sociali, come avere un matrimonio duraturo e felice, avere figli e impegnarsi con altri
in attività ricreative extrafamiliari (Franz 1990). Sempre più partecipare totalmente
alla gravidanza, al parto e alla nascita del proprio bimbo/a è auspicabile, affinchè il
papà non subisca “da spettatore” il suo ruolo, ma ne diventa consapevole mese dopo
mese, così che la percezione emotiva della paternità sia legata alla possibilità di avere
un’interazione con il proprio bambino già a partire dal concepimento fino al termine
del periodo gestazionale. Come il papà può sperimentare questa partecipazione? Ora
ve lo spiego con alcuni semplici esercizi che favoriscono il contenimento della mamma,
l’incremento dell’autostima e dell’affiatamento di coppia, la comunicazione reciproca e
vicendevole del proprio mondo interno, nonchè l’elaborazione delle preoccupazioni
legate al periodo gestazionale, attuando un tipo di relazione “circolare”:
OBIETTIVO: comunicare con il nascituro attraverso la musica e la danza.
STRUMENTI: il proprio corpo, lettore cd, musica: Sul bel Danubio blu, Emperor Waltz di Johann Strauss e Overture tratta dallo Schiaccianoci di Tchaikovsky. Si può utilizzare qualsiasi altra melodia che sia SCORREVOLE, dolce e armoniosa, da evitare jazz, rock e ritmi incalzanti.
PARTECIPANTI: padre, madre, nascituro/a.
ACCORGIMENTI: Sentitevi liberi di esprimervi, giocate, cercate di sintonizzarvi con il vostro bimbo/a mediante il linguaggio tattile, per far sentire la vostra presenza dello “stare” e dell’”esserci”.
TEMPO: da 10 a 20 min. due volte alla settimana dal 4’ mese e per tutta la gravidanza.
25
TECNICA: seguendo il flusso della musica il papà e la mamma tengono le palme delle loro mani appoggiate sul pancione e si mettono in ascolto dei movimenti del nascituro/a. Ad ogni “calcetto” i genitori posizionano le loro mani nel punto dal quale è scaturito il movimento e continuano a danzare improvvisando, dondolandosi, accarezzandosi l’un l’altra. In un secondo momento, quando lo desiderate, massaggiate la pancia, comunicando la vostra dedizione ed il vostro amore al vostro bimbo/a. I movimenti del corpo e delle mani sulla pancia debbono essere fluidi, morbidi, circolari, se si desidera si possono utilizzare veli colorati e campanelli.La famiglia ha bisogno di incoraggiare e di sostenere i papà ad accogliere e a valorizzare la paternità, perché questo ruolo non sia sentito come un “esser padre”, ma un “sentirsi padre”, che si riferisce alla percezione emotiva della paternità, alla capacità di costruirsi un’immagine positiva di padre accanto al proprio bambino. Aiutiamo i papà ad entrare in comunicazione con il proprio bambino già durante la gravidanza, aiutiamolo ad esprimere le emozioni e i sentimenti contrastanti che come padre a volte possono rimanere celati.
BIBLIOGRAFIA: G. Soldera, Mamme e papà, l’attesa di un bambino (Città Nuova, 2014). ID., Educazione pre e perinatale, Bonomi Editore, L. Rafanelli, Echi dal grembo. Guida poetica per la tua gravidanza dal preconcepimento alla nascita, Bonomi Editore, Ebook. V. McClure, Massaggio al bambino, messaggio d’amore. Manuale pratico di massaggio infantile per genitori, Bonomi Editore.
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La Famiglia come sistema di Rosa Minerva (Pedagogista - Mediatrice Familiare)
(seconda parte)
Secondo tale proprietà i risultati finali non sono determinati tanto dalle
condizioni iniziali quanto dall’organizzazione del sistema con le sue strutture
interattive e le sue modalità di risposta allo stress. Da condizioni iniziali simili due
famiglie possono evolvere verso stati finali molto diversi, e, viceversa, famiglie con
modelli simili di funzionamento possono aver avuto condizioni iniziali molto diverse tra
loro. “La struttura familiare è l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i
modi in cui i componenti della famiglia interagiscono. Una famiglia è un sistema che
opera tramite modelli transazionali. Transazioni ripetute stabiliscono modelli su come,
quando e con chi stare in relazione. Questi modelli definiscono il sistema. Quando una
madre dice al figlio di bere il succo di frutta e lui obbedisce, questa interazione
definisce chi è lei rispetto a lui e viceversa in quello specifico momento e contesto. In
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questi termini, operazioni ripetute costituiscono un modello transazionale.” La
famiglia, quindi, agisce secondo regole e principi che si applicano ad ogni altro sistema
interattivo. “Nella vita familiare opera un principio di ridondanza. La famiglia interagirà
secondo sequenze ripetitive in tutte le aree della propria vita, anche se alcune aree
potranno mettere in luce queste ripetizioni (o modelli) prima e più sistematicamente
di altre.” “La regola è una deduzione, un’astrazione – più precisamente, una metafora
coniata dall’osservatore per spiegare la ridondanza che osserva”. In Italia
inizialmente, verso la fine degli anni 70 e inizi 80, l’approccio sistemico viene utilizzato
nella pratica clinica. Il sintomo ha un significato comunicativo e relazionale. Dal
momento che la comunicazione è comportamento e il comportamento è
comunicazione il sintomo rappresenta un messaggio di un sistema in impasse in un
determinato contesto. Viene abbandonata la visione meccanicistica di causa effetto
per una prospettiva che individua i membri della famiglia come elementi in un circuito
di interazioni, in una causalità circolare. La comunicazione è un processo di scambio di
informazioni e di influenzamento reciproco in un determinato contesto. L’analisi della
comunicazione considera il contesto come matrice di significato, sottolinea la
coesistenza del linguaggio verbale e non verbale, la arbitrarietà della punteggiatura
nella sequenza degli eventi, evidenzia le posizioni simmetrica o complementare nei
rapporti relazionali, l’esigenza di analizzare le relazioni interpersonali nell’hic et nunc,
evidenziando come anche l’osservatore faccia parte del sistema osservato e
contribuisca alla costruzione della realtà che osserva (2° cibernetica). Nell’evoluzione
del pensiero sistemico l’ottica si allarga e volge lo sguardo al sistema osservante e alla
costruzione di messaggi e significati nell’interazione. Si approfondisce il pensiero
batesoniano e della Cibernetica (2° ordine) che evidenzia il ruolo dell’ osservatore
nella costruzione della realtà. L’attenzione si sposta dal cosa e dal come si comporta
un membro di un sistema, a cosa e come pensa e quali significati attribuisce ai
comportamenti degli altri, agli scopi, alle credenze, alle strategie: il soggetto è sempre
attivo e crea una realtà, inventa ciò che crede esista.
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…………………………
LE RUBRICHE
…………………………
……
“L’adulto
consapevole: affrontare i comportamenti
devianti. Il Bullismo”
ARTICOLAZIONE PROGETTUALE
Il Corso “L’adulto consapevole: affrontare i
comportamenti devianti” si articola in un
percorso comprendente tre corsi tematici: il
Bullismo – le Dipendenze – gli Adulti e i Minori. Il
percorso, nasce dalla reale richiesta, sul
territorio, di docenti, operatori sociali e genitori
di essere formati sui comportamenti devianti dei
ragazzi e sul ruolo dell’adulto in relazione a tali
argomenti. Tramite un sondaggio, da noi
effettuato, si evince la necessità di conoscenza e
approfondimento (anche tra rappresentanti delle
Forze dell’Ordine) dei problemi oggetto del corso
e la possibilità di acquisire strumenti efficaci per
saperli affrontare.
Destinatari – Psicologi, Pedagogisti, Educatori,
Gestori di Centri antiviolenza per minori e di
comunità per le violenze di genere, Docenti
(scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola
secondaria di primo e secondo grado ecc.),
Docenti specializzati, Assistenti sociali, Operatori
sociosanitari, Studenti, Rappresentanti delle
Forze dell’Ordine, Avvocati, altre figure
professionali interessate al corso, genitori e
coloro che desiderano cimentarsi
nell’approfondimento delle tematiche del corso.
Obiettivi – Essere informati e formati sui
comportamenti devianti dei ragazzi e sul ruolo
dell’adulto in relazione a tali argomenti. Acquisire
strumenti utili alla gestione efficace del Bullismo
per saperlo affrontare in contesti sociali,
familiari e scolastici e di altro genere.
Chiedi info alla segreteria:
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I NOSTRI LIBRI
“Filosofare in carcere” - Autore Augusto Cavadi
Recensione di Antonella Pennolino
(Docente di Lettere presso l’Ist.Comprensivo “S.Bagolino” di Alcamo)
Quando sono stata invitata a presentare
il libro “Filosofare in carcere” di Augusto
Cavadi, mi sono chiesta “filosofare in
carcere? Una bella sfida!”. Io ho
conosciuto la filosofia come qualcosa di
diverso, per certi versi astratto, e
invece mi trovo davanti a un titolo che
a prima vista può reputarsi un
paradosso perché l’autore sembrerebbe
avere la pretesa di fare qualcosa che in
carcere non può avere luogo, lì dove i
problemi delle persone sono molto
lontani dalla filosofia e dal
ragionamento filosofico. Incuriosita, ho
accettato e mi sono trovata davanti a
tutt’altro che qualcosa di teorico e
astratto, mi sono trovata davanti a una
FILOSOFIA IN PRATICA, una filosofia
che è, come si legge nelle prime pagine
del libro, “ARTE DI SCAMBIARSI I
PENSIERI” per giungere a risposte
sull’esistenza partendo da domande che
sembrano non avere, a primo impatto,
una risposta. Sì, domande che
sembrano non avere una risposta
perché vengono in un ambiente in cui,
sempre a primo impatto, sembra
regnare la NON-VITA, il NON-AMORE, la
NON-AMICIZIA, cioè in un ambiente si
vive la negazione, il buio, la notte
dell’esistenza. Certo, il vissuto e il
sostrato sociale e culturale dei detenuti
farebbe pensare, non senza pregiudizio,
che i sentimenti più nobili lì, in carcere,
non possono avere voce perché è così
secondo schemi e categorie sociali e
mentali radicate nella nostra società.
Invece in questo libro, proprio come fa
un bravo filosofo che fa ricorso alla
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maieutica socratica, cioè all’arte del
saper tirare fuori da noi ciò che
abbiamo dentro, i detenuti che, a
questo punto, mi piace chiamare le
PERSONE DETENUTE, grazie ad Augusto
Cavadi, Franco Chinnici e Maria
Antonietta Spinosa, alla fine del loro
percorso scopriranno di conoscere
l’amore, l’amicizia e tutto ciò che nella
loro vita avevano messo in un angolo
dimenticato della loro anima. Il
volumetto rispecchia l’esperienza fatta
all’Ucciardone di Palermo e ruota
attorno alla ricerca in comune di
risposte a domande condivise che
riguardano il SENSO DELLA VITA, da cui
scaturiscono i concetti di libertà e di
famiglia per amore della quale si è
disposti anche a commettere un reato.
Da qui l’amore per gli altri identificati
con i “propri” perché solo loro esistono,
come se tutti gli altri, fuori dalla
famiglia non esistessero. Partendo da
questo principio, nel volumetto viene
fatta un’analisi della parola AMORE
come eros (passione), philia (amicizia),
agape (amore come dono) attraverso
un dialogo inventatotra due personaggi
immaginari: Pinuzzo e Pinuzza. E poi
l’amore “distorto” di una madre in una
famiglia mafiosa per un figlio che non
ha appreso il codice d’onore che
farebbe di lui un vero uomo,
egregiamente rappresentato in una
lettera immaginaria a Don Totò.
Atteggiamento dettato da un problema
di cultura, di educazione, di
“emarginazione” in determinati
ambienti (Don Totò) nei quali si vuole
rimanere senza pensare a un
cambiamento e atteggiamento dovuto
anche a una sorta di imposizione
sociale. L’amore, quindi, fa da sfondo e
da motivo conduttore nel libro, nel bene
e nel male, fino a diventare addirittura
un’arma usata da un mafioso nei
confronti di una donna, “un’arma
micidiale, più efficace delle bombe”,
raccontato in una lettera che ha un
destinatario immaginario: Don Carmelo.
Quindi molteplici spunti di riflessione
quelli donati al fortunato gruppo di
detenuti che mai avrebbero pensato di
“filosofare” e invece scoprono che la
filosofia è vita vissuta, vita sperata,
vita sognata. Ecco che il carcere da
luogo del NON-AMORE diventa luogo in
cui è possibile un riscatto, una rinascita,
proprio a partire dalle proprie
debolezze. Un viaggio nella propria
interiorità in cui ogni fragilità diventa un
valore aggiunto, un punto di partenza
da cui si può provare a ricominciare a
sognare, a sperare, a credere.
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“Le dodici ‘bravate’ di Ercole”
di Bruno Di Bari
Il BULLISMO è un grave problema sociale che riguarda un po’ tutti, ma nonostante ciò molti non conoscono questo allarmante fenomeno e in
presenza di atti di Bullismo rimangono meravigliati e non sanno assolutamente cosa fare e come comportarsi. Questo libro, unico nel suo genere, permette di capire il perché alcuni ragazzi si comportano da Bulli e perché altri invece diventano Vittime, indica inoltre, in maniera semplice e precisa, gli interventi da utilizzare e le azioni da intraprendere, sia per fermare, sia per prevenire gli atti di Bullismo, anche quando questi sono poco evidenti e/o non si manifestano apertamente in pubblico. In aggiunta poi, come in tutti i libri che fanno parte della collana Bi-Libro, è presente un inquietante, sconvolgente e significativo racconto, inerente all'argomento trattato. A conclusione poi è stato inserito anche un importante questionario situazionale, utilissimo per gli insegnanti che necessitano di un valido strumento per comprendere e valutare il fenomeno del Bullismo.
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FEDE – FOLKLORE E FESTE POPOLARI (seconda parte)
di Carlo Cataldo
(già Docente presso il Liceo Classico di Alcamo – storico – esperto di folklore e cultura popolare - autore di libri e saggi di carattere letterario, storico e folklorico)
Usi già vigenti nel giorno della Commemorazione dei Defunti. A) "Vendita della Bolla della Crociata", per i defunti. Il 2 novembre, la Congregazione del Purgatorio, nella chiesa di S. Oliva, poneva in vendita la "Bolla della Crociata" che, acquistata per i Defunti, otteneva per essi speciali indulgenze. En passant, rilevo che la "Bolla" era acquistata d'obbligo da tutte le famiglie (se ne assegnava un cospicuo contingente ad ogni città). Fu istituita da Carlo V, per finanziare una flotta per la difesa delle nostre coste dalla pirateria. Fu abolita dalla Legge delle Guarentigie nel 1871. B) Sorteggio di legati di maritaggio, per povere e orfane. Il 2 novembre, si sorteggiavano legati testamentari per fanciulle povere e orfane. "Per maritaggio di una fanciulla orfana, da sorteggiarsi tra le fanciulle povere e orfane di Alcamo, nel giorno della Commemorazione dei Morti, nella chiesa di S. Oliva", Nicolò Fimiano, con atto del 14 aprile 1613 in not. in not. Lorenzo Lombardo, lasciò un legato alla Congregazione del Purgatorio. C) Assegnazione di pane a indigenti. Il 2 novembre , in memoria dei Morti, si distribuiva pane a indigenti. Nel 1620, i confrati del S. Monte di Pietà spesero un'onza "per pane alli poveri, nella festa delli morti". Il pane era forse in forma di crocette, come d'uso in Sicilia per la suddetta festa. D) "Apparati" funebri in chiese e cappelle. Un atto notarile del 1676 indica le spese per "incenso, carta [colorata e ornamentale] e rami di cipresso, per lo giorno dei morti, solennizzato nella cappella del Spirito Santo, annessa all'ospedale. È documentato l'uso di "apparati" in chiese e cappelle, ogni 2 snovembre. E) Processione dei confrati del S. Monte di Pietà alla chiesa di S. Ippolito, il 2 novembre di ogni anno. Dal 1577 in poi, i confrati del S. Monte di Pietà, sia il Lunedì santo sia il 2 novembre di ogni anno, si recavano in processione, col Clero e coi Giurati alla chiesa (oggi scomparsa) di S. Ippolito, per assistere alla S. Messa in suffragio degli appestati del 1575-76 e nel 1625-26, inumati nell'attiguo cimitero. E ogni 2 novenmbre, sino a quando, e cioè sino all'inizio del '900, fu agibile la chiesa di S.Ippolito, il parroco di S. Paolo (o un suo cappellano) funerò anche per i colerosi,
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sepolti nello stesso cimitero nel 1837, nel 1854-55 e nel 1866-67. F) Pellegrinaggio alla vetta del Bonifato, il 2 novembre di ogni anno. Forse a un pellegrinaggio in onore dei Defunti si riferisce la nota contabile della Confraternita di S. Oliva sul pagamento, al 4 novembre 1604, di 18 tarì, per le torce che Francesco Osilia "accomodao alla confratria, quando andao a Bonofato".
Nel '500 fu tradizione che gli Alcamesi, ogni 2 novembre, si recassero in pellegrinaggio sulla cima del Bonifato. Così riferisce Il Bagolino, in un carme che, nel manoscritto autografo, ha il titolo Per le anime dei Defunti sulla vetta del monte Bonifato, Nell'edizione dei carmi bagoliniani, curata da Giuseppe Triolo Galifi nel 1782, ha il diverso titolo: Nel giorno della Commemorazione dei Defunti, e questa nota del curatore: Ad Alcamo era costume, nel giorno della Commemorazione dei Defunti, che tutti i nati nel paese salissero alla vetta del Bonifato. Il curatore, con "era costume", chiarisce che, nel '700, il pellegrinaggio non si attuava più. Di essa unico informatore è il Bagolino. Riferisco il carme nella mia traduzione in distici elegiaci, quali sono quelli del testo latino. Per la comprensibiità, aggiungo queste mie note: "Le nottìpari chele" sono, in poetica metafora, le due articolazioni dello Scorpione: costellazione dell'equinozio d'autunno, contrassegnato, al 23 settembre, da pari durata del giorno e della notte. I privi di luce sono, ovviamente, i morti. Il Leonardo, citato nel distico finale, è il padre del poeta. Della trentina dei suoi affreschi, tele e altri lavori, solo due sono superstiti: una è la tela di S. Maria della Grazia, già al Soccorso e oggi nella Basilica S. Maria Assunta. Dell'unico affresco rimasto (del 1559) nell'antica abside - arretrata rispeto all'attuale - della chiesa di S. Maria di Gesù, ho dato notizia e foto in I giardini di Adone (Trapani, 1992, pp. 179-80) e in La Casa del Sole (Alcamo, 1999, pp. 81-82), a cautela di una non impossibile scomparsa. Mi sia consentito ricordare che la traduzione di questo bel carme bagoliniano è apparsa, per la prima volta, nella mia opera Accanto alle aquile (Alcamo, 1991, pp. 163-64). Ecco il carme del Bagolino nei miei versi che rendono fedelmente i suoi:
Le nottìpari chele ci addussero il giorno di cui
non c'è più grato per i privi di luce.
Portano, infatti, ai luoghi sotterra vicini all'Averno,
ove elide ogni colpa il fuoco edace.
Qui vanno l'anime morte, piangendo nefandi supplizi.
.........................................................
Di qui il sacro costume, fissato in Alcamo nostra:
che uomo o donna oggi ascenda il monte.
Qui implora pace e requie per le anime dei Defunti,
dona all'ingrata cenere l'incenso.
Io stesso te, Leonardo, chiamo in questa vetta di monte,
chiedo requie alla cenere e all'anima tua.
Mons. Giuseppe Barone afferma che bruciare incenso all'ingrata cenere adombrò il simbolismo dell'edace fuoco del Purgatorio che "elide ogni colpa". E così considera nell'alveo di una simbologia mistica i pellegrini osservanti dell'ammirevole tradizione cinquecentesca: "Salire sul Bonifato significava far ascendere al Cielo le anime dei cari trapassati, per merito di preghiere e penitenze in suffragio". Ritengo che, con l'ascesa al Bonifato, i pellegrini intendevano accostarsi all'auspicata definitiva patria per sé e per i loro Cari.
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PSICOLOGIA
a cura di Elisabetta Lazzari (Laureata in Psicologia Applicativa, con argomento di psicologia dinamica, conseguita presso l'Università "la Sapienza" di Roma iscr.Albo degli Psicologi del Lazio n°16719)
Mobbing
Il termine Mobbing deriva dal verbo inglese to mob, il cui significato è “attaccare” e fu
utilizzato per la prima volta da Konrad Lorenz per individuare ed indicare il
comportamento di un gruppo di una determinata specie animale che si coalizzavano
contro un membro della loro stessa specie, attaccandolo ed isolandolo dagli altri, fino
a provocarne talvolta la morte. Successivamente, è stato utilizzato nel mondo del
lavoro umano per indicare quei fenomeni di terrorismo psicologici che vengono messi
in atto da superiori nella scala gerarchica dei ruoli ricoperti nei confronti di loro
subalterni oppure da colleghi di lavoro con la stessa carica e con fini chiaramente
discriminatori, al fine di provocare l’allontanamento di un loro simile e provocare il
suo licenziamento. Nel primo caso parliamo di mobbing verticale, nel secondo, di
mobbing orizzontale. L’anno in cui è emerso con evidenza il fenomeno, nonostante
esso sia noto sin dalla antichità, è stato il 1997, in quanto fino ad allora era ancora un
fenomeno sommerso, poco noto. Il Mobbing si svolge tipicamente attraverso alcune
fasi durante le quali avvengono dei fatti che provocano nell’individuo mobizzato
determinate reazioni fisiche e psichiche; tra questi, annoveriamo 1)Il conflitto
quotidiano (conflittualità persistente sotto una ancora apparente normalità);
2)inizio del mobbing e del terrorismo psicologico (attacchi alla vittima, nelle relazioni
sociali, nella comunicazione, nella professione, nella salute). 3)errori e abusi anche
non legali della direzione del personale (trasferimenti, richiami ingiustificati,
demansionamento, ecc); 4)esclusione dal mondo del lavoro (sintomi ossessivi,
malattie psicosomatiche, dimissioni, licenziamento). Heinz Leyman, sulla base della
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osservazione di casi concreti, ha individuato 45 forme di comportamenti mobizzanti,
suddividendoli in 5 categorie principali. La prima consiste negli attacchi alla
comunicazione; la seconda negli attacchi ai rapporti sociali, la terza in attacchi alla
posizione sociale, quindi attacchi alla qualità della vita ed infine attacchi alla salute.
Attualmente, una delle definizioni più autorevoli accettate di mobbing è la seguente: “
per mobbing si intende un comportamento del datore di lavoro o del superiore
gerarchico o, anche del lavoratore di pari livello gerarchico quando non addirittura di
livello inferiore, che pone sistematicamente in atto, attraverso l’attuazione di
comportamenti ostili e condotte che si protraggono nel tempo , in forma sistematica
ed aventi carattere di persecuzione e di prevaricazione nell’ambiente di lavoro. Da
questi comportamenti reiterati nei suoi confronti posso derivarne una forma d
mortificazione morale e di emarginazione del dipendente, con un effetto lesivo sulla
sua personalità nel suo complesso e sul suo equilibrio psicofisico (da: Corte di
cassazione, sentenza n-38757/09). Cercando di comprendere perché si ricorra al
mobbing e quali ragioni si celino dietro ad esso, possiamo annoverare tra queste
alcune condotte finalizzate a togliere di mezzo la vittima dello stesso. Spesso
addirittura, chi atta il mobbing ricorre a sottili comportamenti persecutori e ad azioni
lesive ce si celano sotto l’apparenza di condotte gentili e cordiali, ciò affinché la
vittima predestinata commetta degli errori nello svolgimento del suo lavoro, ciò
naturalmente comporterà per lei delle conseguenze apparentemente giustificate come
il dequalificarla, il’isolarla, il sottrarle dei benefit ed altre ancora che renderanno
sempre più sgradevole e pesante la sua permanenza nel posto di lavoro. Come
inevitabile conseguenza, la vittima riporterà un danno nelle sue condizioni psicofisiche,
il che la porterà spesso a dare spontaneamente le dimissioni o comporterà un giusto e
“giustificato “licenziamento”. In sintesi, la morale di questi avvenimenti, è la
seguente. Il persecutore, colui che ha avviato il processo di mobbing, avrà tolto,
perseguendo l’obiettivo che si era prefisso, di mezzo la sua vittima che da questa
storia, uscirà a pezzi sia psicologicamente che fisicamente sia anche socialmente.
Talvolta, questi eventi si concludono anche con il suicidio della vittima. Tra le ragioni
emozionali alla base del mobbing, possiamo annoverare le diverse capacità o meno e
le gelosie ed invidie che ne possono nascere, l’onestà, le incomprensioni, le ostilità;
inoltre, sembrano esservi coinvolte personalità molto introverse. Spesso, molte forme
di ostilità nn vengono neppure esplicitate ma piuttosto nascoste sotto una parvenza di
normalità e cordialità, il che rende ancor più inconsapevole la futura vittima di quanto
sta per accadergli, infatti, quest’ultima pensa che al limite si trova ad affrontare, in
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qualche caso una normale conflittualità, al limite un po’ accentuata ma risolvibile con
un dialogo ed un confronto civile e non penserebbe mai di essere la vittima di un
programma studiato ad arte per distruggerlo. Vi sono delle patologie tipiche dei
lavoratori sottoposti a mobbing i quali inizialmente reagiranno producendo stress al
fine di generare un meccanismo difensivo ma, al prolungarsi delle violenze nei loro
confronti, avranno un alto rischio di sviluppare una sindrome da stress cronico le cui
conseguenze saranno delle patologie di tipo psicosociale, che avrà caratteristiche
diverse a seconda di come l’individuo nel corso della sua vita, ha imparato a reagire
ai conflitti, alle su attitudini, alla sua resistenza ed alla sua forza ma, in ogni caso, pi il
conflitto si prolungherà più la sua resistenza diminuirà. Frequenti, nelle vittime da
mobbing sono disturbi psicosomatici da stress infatti, con il tempo, potranno
sviluppare disturbi d’ansia e d’umore da stress, tra cui, in particolare il DPTS o
disturbo post traumatico da stress, che ingenererà fenomeni di evitamento, con
l’attuazione di comportamenti che consentano di ignorare cioè tutto ciò che è
connesso al lavoro, come strade, luoghi ecc, presenza di incubi, pensieri ossessivi
circa il lavoro ed i fatti accaduti, presenza di ansia e di depressione. Una forma meno
grave ed intensa, con minori fattori di rischio del disturbo sopradescritto è il DDA o
Disturbo dell’Adattamento. Come conseguenza delle forti tensioni psicologiche a cui è
sottoposta, la vittima svilupperà delle alterazioni di vario tipo che colpiscono
l’equilibrio socio-emotivo e psicofisiologico, provocando una caduta delle sue difese
immunitarie, che faciliterà a sua volta l’insorgenza di disturbi sia psicosomatici che
prettamente fisici che potranno diventare anche cronici ed irreversibili. A livello
psichico: angoscia, ansia, disturbi dell’attenzione e della concentrazione, perdita o
riduzione della libido, disturbi del comportamento, anoressia o bulimia, incubi e
alterazioni del ritmo sonno/veglia, r che vera e propria insonnia. A livello fisico, gli
organo bersaglio saranno quelli più facilmente esposti ad essere reclutati al servizio di
patologie e disfunzioni psichiche ed emotive, tra cui l’apparato cardio-circolatorio
(aritmie, tachicardia, ipertensione i ischemie), l’apparato gastrointestinale (gastriti,
ulcere peptiche e colite ulcerose), l’apparato genitourinario (con enuresi, impotenza,
frigidità e dolori mestruali, eiaculazione precoce, impotenza); del tessuto cutaneo (con
dermatiti, orticaria, psoriasi, sudorazione eccessiva, disidratazione delle mucose,
ecc).Importanti disturbi possono colpire l’apparato muscolo-scheletrico: torcicollo,
rachialgie, cefalee muscolo-tensive, le mialgie ed artralgie che ostacolano le normali
attività quotidiane. Nonostante i suoi danni devastanti il mobbing non è dimostrabile
come una violenza diretta difficilmente viene incriminato e condannato.
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……………………………………………………………………………
PARLIAMO DI…
CORPO E MENTE
“Quando la vostra mente avrà conseguito il dominio,
voi avrete pure il dominio su tutto il vostro corpo: i
nvece di esser voi il servo di questa macchina,
questa macchina servirà voi”. Vivekananda
Cari colleghi, cara redazione,
è con immenso piacere e gratitudine, che riprendo dopo un lungo periodo di silenzio, dettato da mille sventure personali, a scrivere e collaborare con un team che tempo fa ha arricchito la mia formazione professionale e personale. Lo scrivere è per me di fondamentale importanza: eccezionale potere taumaturgico, corroborante per corpo e anima. Grazie a voi tutti per questa rinnovata opportunità. Ed è proprio da qui che vorrei ripartire: i rapporti che strettamente intercorrono tra corpo e mente. E’ ormai scientificamente provato che corpo e mente si influenzino l’un l’altro, formando un’unità funzionale. Non è utopistica la celeberrima frase di Giovenale : “Mens sana in corpore sano”, infatti, “gli impulsi cerebrali che sono connessi, in modo sconosciuto, ai nostri processi mentali, reagiscono a processi in altre parti del corpo e sono a loro volta influenzati da questi” (Lennart Levi). Dunque, non vi è male fisico che non divenga male psichico e viceversa. Se si pensa all’ esposizione continua a stress negativi, ansia e tensione emotiva persistenti, uniti alla tensione muscolare e alle palpitazioni, portano a nevrosi, isterie, a disturbi psicosomatici (es. la psoriasi, le dermatiti ecc.). Tali input stimolano in modo inadeguato la produzione di ormoni da stress: adrenalina e noradrenalina dal sistema nervoso centrale e simpatico e corticosteroidi dalla corteccia cerebrale, ormoni che dovrebbero servire in situazione di emergenza e di pericolo, come sistema di difesa. Quando questo procedimento si realizza in modo corretto e opportuno, il nostro corpo brucia i grassi, per trovare il combustibile, per produrre energia, per contrastare gli attacchi esterni o per attivare i meccanismi di difesa. Ma se ciò avviene in modo anomalo, i grassi non bruciati si accumulano nelle arterie ostruendo i vasi provocando malattie cardiovascolari, inoltre se aggiungiamo un’alimentazione scorretta e la scarsa attività fisica, non facciamo altro che aggiungere danno al danno. Un altro caso che mi ha incuriosita parecchio è quello della “sindrome del cuore infranto”. Ho sentito questo termine, casualmente,
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durante la visione di un film: Un ragazzo giunge al pronto soccorso con la sorella gemella, entrambi vittime di un incidente stradale; la sorella muore subito dopo essere giunta in ospedale, mentre il fratello non sembrerebbe in pericolo di vita. Dopo aver appreso la notizia della morte della sorella il ragazzo comincia a manifestare sintomi riconducibili a crisi cardiache. Dopo svariate analisi i medici gli comunicano che è colpito dalla SINDROME DEL CUORE INFRANTO. Ho deciso di indagare se tale malattia esistesse veramente e la mia ricerca mi ha lasciata senza parole: Il detto che spesso sentiamo dire a volte anche a sproposito : “Mi ha spezzato il cuore” o “Ho il cuore in mille pezzi” o “Ho il cuore infranto”, in realtà è un fatto che può verificarsi veramente e concretamente a livello fisico ma sempre come conseguenza a fatti emotivi che noi viviamo. L’amore spacca il cuore. Davvero. Messa da parte la scontata rima, anche la medicina se ne è convinta: esiste la “sindrome del cuore spezzato”, un disturbo causato da shock emotivi - come una brutta notizia, un lutto o la fine di un amore - che presenta gli stessi sintomi di un attacco cardiaco, ma senza le stesse conseguenze. La sindrome, che scientificamente ha il meno romantico nome di “cardiomiopatia di Takotsubo”. Era già stata diagnosticata in Giappone all’inizio degli anni novanta. Chi ne viene colpito, denota una transitoria modificazione dell’apice ventricolare sinistro, dovuta a stimoli di origine neurogena, originati da prolungati stress fisici o emotivi. Questa deformazione, fa assume dai pescatori giapponesi per la pesca del polpo (tako), di qui il nome. Adesso una ricerca pubblicata sull’American journal of Cardiology l’ha descritta in maniera più approfondita grazie all’osservazione di 70 casi. L`infarto fantasma, lo definiscono. I pazienti analizzati hanno manifestato sintomi del tutto simili a un attacco cardiaco, tra cui dolore toracico e mancanza di respiro. Quali, allora, le differenze tra la sindrome del cuore spezzato e l`attacco cardiaco? Prima tra tutte, la tempistica di risoluzione del malore: nonostante in un caso su cinque si siano resi necessari trattamenti d’ emergenza come l’uso del defibrillatore, infatti, tutti e 70 i pazienti sono stati dimessi entro le 48 ore successive all`avvertimento del dolore. È stato anche interessante notare che la sindrome non è (quasi) mai recidiva (si è riproposta solo in un paziente su 70), e che la maggior parte dei casi si sia verificata tra la primavere e l’estate (esattamente il contrario degli infarti, più frequenti nei mesi freddi). Ma la cosa più caratteristica è che più di due terzi degli attacchi siano stati preceduti da forti stress fisici ed emotivi, come notizie molto brutte o seri problemi sentimentali. In pratica, quando siamo felici ed innamorati , il cuore aumenta la sua velocità immettendo in circolo adrenalina ed endorfine , che creano uno stato di benessere; quando invece subiamo un trauma emotivo, il cuore, per difendersi, rallenta, fino a provocare una crepa, simile ad un infarto. Ciò dimostra quanto il cuore sia legato ai sentimenti e alle emozioni, tanto quanto lo è il nostro cervello. Ribadisco: mente e corpo, mente e cuore sono inscindibili e tutto rimanda alla mia tesi di docente: che cosa ce ne facciamo del sapere ,della conoscenza e del raziocinio se poi non ci mettiamo il cuore in quello che facciamo? Suoneremmo ancora come vasi vuoti! Sviluppare la sapienza del cuore dovrebbe avere la priorità su tutto , se seguiamo una professione di relazione, perché il cuore vede, il cuore sente, il cuore soffre e…il cuore ha sempre ragione.
Carla Staffolani
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CURIOSITA’
a cura di Alessandro Bellomo (Biologo – Esperto Musicologo. Ha pubblicato diversi
libri storici)
COME CI VEDONO I NOSTRI ANIMALI
Numerose sono le opere scritte sugli animali che più amiamo avere accanto quali i
cani ed i gatti. Fra le altre cose si è visto che spesso noi riflettiamo su di essi la nostra
personalità, quasi umanizzandoli nei loro comportamenti. Ma ci siamo mai chiesti
come ci percepiscono essi? Pochi sono gli studi in tal senso, anche perché solo da poco
tempo ci si è reso conto che gli animali, soprattutto quelli ai quali ci riferiamo, hanno
una ben definita percezione psichica di sé stessi e quindi di coloro che li circondano.
Secondo uno studio dei ricercatori dell’Accademia Ungherese delle Scienze,
recentemente pubblicato su “Current Biology”, il grado di ricettività dei cani nella
comunicazione con l’Uomo, è simile a quella dei bambini piccoli. Dalla comparazione
del comportamento di esemplari di razze simili allo stato selvatico, come ci si
aspettava, si è scoperto che come noi tendiamo ad “umanizzare” il loro
comportamento, gli animali tendono a percepirci come esseri appartenente alla loro
specie, dunque il cane, ma anche il gatto, ci riconoscono come degli “strani esemplari”
della loro stessa razza. Sia che l’animale venga accolto in famiglia da cucciolo che da
adulto, egli tenderà subito a creare una scala gerarchica dei vari componenti del suo
“branco”, nel quale inserire sé stesso. Il capo branco, cioè colui al quale si deve
rispetto ed obbedienza, è in genere il maschio capo famiglia o in mancanza di esso, il
soggetto dal quale l’animale riceve il cibo, che viene equiparato all’animale
“dominante” nel gruppo di appartenenza. La presenza dei bambini è subito
classificata, dopo avere giocato con loro a “chi è il più forte”, come animali
gerarchicamente superiori, pari od inferiori a sé stesso. Proprio per tale motivo,
soprattutto quando si tratta dei cani, va raccomandato il fatto che l’animale abbia la
possibilità di interagire con tutta la famiglia e non con un solo componente. Il
contrario porterebbe il cane a considerare il resto dei familiari come “animali estranei
al branco”, dunque entità alle quali non obbedire, arrivando al paradosso di ritenerle
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“nemici” del proprio capo branco, inducendo l’inconsapevole cane a trasformarsi in un
potenziale pericolo per il resto del nucleo familiare convivente. Ma ritornando ai
“normali rapporti” con il branco-famiglia umana. Il cane o il gatto rivolgono particolare
attenzione alle persone anziane presenti in seno alla famiglia: essi percepiscono
immediatamente la loro posizione, identificandoli quali i “più deboli” del branco, ma
anziché classificarli come
“dominati”, gli anziani vengono
considerati i soggetti che loro
devono proteggere. Per essi
l’animale ha una speciale
attenzione e predilezione, così
come quando uno dei suoi
“familiari” si ammala. Tanto il
gatto quanto il cane
cercheranno sempre di stare
accanto al soggetto ammalato,
ponendosi a loro protezione e
guardia ed allontanandosene
solo il tempo di cibarsi, ma
esistono estimonianze dove si
riporta che gli animali
preferivano digiunare anziché
“abbandonare la guardia” al
soggetto malato. In effetti,
questi animali provano una vera
e propria sofferenza psicologica
quando vengono allontanati
forzatamente dal parente
ammalato, dimostrandolo
attraverso miagolii, abbaiamenti
di rimprovero, fino ad
atteggiamenti di ribellione più o
meno vistosi nei confronti di chi
li vuole allontanare. In effetti,
basterà osservare l’animale che
IL CERVELLO si modifica con l’età...
di Andrea Linciano (Pedagogista, Educatore,
Formatore, Counselor)
Durante l’infanzia e la giovinezza il cervello aumenta le sue capacità funzionali. L’ambiente stimolante ne potenzia le stesse capacità. Ma il cervello come cresce nei primi anni di vita, risente poi dell’invecchiamento: i neuroni si riproducono, e l’apprendimento e la memoria vengono compromessi. Le cellule cerebrali non si riproducono dopo la nascita se ci fosse un ricambio di cellule come avviene in tutti gli altri organi,i ricordi e gli apprendimenti verrebbero cancellati con la morte delle cellule e quindi con il ricambio. Perciò noi possiamo ricordare anche cose lontane. Però l’invecchiamento cerebrale può pregiudicare l’accumulo di nuove memorie, di nuove abilità e cognizioni: Perché? Perché il cervello è un calcolatore che raggiunge un grado di saturazione , questo oggi è un problema perché gli anziani sono in crescita. Quando il cervello invecchia decresce costantemente. Esso è in aumento fino all’età di 20 anni, da questo momento decresce fino a perdere il 10% del suo peso. Tra il cervello e la calotta cranica resta quindi “uno spazio vuoto” (a 80 anni 20 cm) . Il peso del cervello diminuisce con l’età perché si disidrata ovvero diminuiscono i neuroni. Questa diminuzione incomincia alla nascita. Inoltre, si ha un’involuzione dei piccoli vasi arteriosi cerebrali la cui parte incomincia a spessirsi ostacolando il passaggio del sangue. Se si aggiunge l’eventuale accumulo di grasso si ha l’arteriosclerosi. L’arteriosclerosi incomincia nell’infanzia, aumenta con l’età ed è molto esteso nel cervello dell’anziano. L’alterazione del funzionamento del cervello varia da individuo a individuo, può diminuire la vista, l’udito, il tempo di reazione, l’anziano tende a dormire sempre meno e a sognare poco.
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tiene compagnia all’ammalato per vedere se l’infermo migliora, quando questi è quasi
totalmente guarito, il gatto o il cane cominceranno ad allontanarsene tranquillamente,
per riprendere la loro consueta “routine” giornaliera. Ben più triste è il loro
comportamento nel caso di un soggetto morente: gli animali percepiscono meglio e
più degli esseri umani, l’avvicinarsi della morte. Solo in questo momento, quasi con
paura, essi preferiscono allontanarsi dal moribondo, ma più spesso rimangono a
vegliare il morente fino alla fine, senza mai allontanarsene: i cani l’ultima notte
guairanno od ululeranno al cielo, i gatti rimarranno fermi immobili accanto
all’agonizzante. Ancora una volta sono innumerevoli i tristi episodi nei quali, cani e
gatti sono visti recarsi sulle tomba dei loro padroni, talvolta lasciandosi morire di
inedia. Non ultimo è il loro comportamento quando essi percepiscono l’approssimarsi
della loro fine: l’avvertire l’arrivo della morte, in alcuni casi li spinge ad abbandonare il
branco, quasi in una sorta di “ultima protezione” del gruppo dall’incombente fine. Cani
e gatti provano per noi un vero e proprio affetto e senso di attaccamento, che
mostrano attendendo il nostro ritorno, facendoci in maniera più o meno evidente le
“feste”. Ma ciò che dimostra in maniera più toccante la loro affezione nei nostri
confronti avviene col cibo. Il sentimento di rispetto ed obbedienza è mostrato dal
volere “assistere” al nostro desinare, poiché noi siamo parte del suo branco. Essi
attenderanno di guardia la fine del nostro pasto, a prescindere se noi gli abbiamo dato
qualche bocconcino o meno, per poi andare a mangiare nella loro ciotola. Ma il loro
affetto nei nostri confronti è maggiormente dimostrato nel momento in cui loro ci
portano le prede catturate: sia il cane, ma a maggior ragione il gatto, pur vedendoci
come esseri gerarchicamente superiori, ci percepiscono come degli strani animali della
loro stessa specie incapaci di cacciare, cioè di procurarsi il cibo. Per tale motivo essi si
privano del frutto della loro predazione, soprattutto i gatti, lasciandoceli davanti alle
nostre camere allo scopo di aiutarci a nutrirci, o addirittura portando delle prede
semivive, che alla nostra presenza attaccano a più riprese fino a finirli. Essi fanno ciò
non allo scopo di mostrarci il loro talento, bensì per insegnarci come si caccia, ovvero
il modo con cui ci si procura il cibo. Ancora molta strada occorre per arrivare alla
perfetta comprensione con gli animali da quando negli anni ’30 Konrad Lorenz
intraprese lo studio del comportamento degli animali, ma che ci mostra sempre più
quanto gli animali che amiamo siamo simili a noi.
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INFO E NOTIZIE a cura di Anna Amato
L'Associazione socio-culturale
"Pedagogia Olistica Siciliana" organizza,
dal 10 al 17 maggio c.a., una personale
di pittura del Maestro Pittore Vito Fulco
"ultimo dei “pincisanti”, maestro pittore
su vetro. La sua pittura é stata
annoverata come patrimonio artistico
ed iscritta nel Registro delle Identità
immateriali della Regione Sicilia,
catalogazione Patrimonio Culturale
Unesco". Sulla tecnica usata è stato
realizzato un video esplicativo, che per i
contenuti proposti assume valenza
didattica.
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I NOSTRI CORSI
a cura di Elena Magri
Rif. corso I corsi online
A ° "I Disegni dei bambini"
B ° “Disturbi Specifici di Apprendimento. Riconoscerli per operare” corso di primo livello
B1 ° “Le nuove frontiere dei DSA” seconda edizione. Aggiornamento del corso di primo livello “Disturbi Specifici di Apprendimento. Riconoscerli per operare”
C ° "Introduzione alla Comunicazione"
D ° "Educazione alimentare e Pedagogia auxologica" - Corso1
E ° “Comunicazione verbale”
F ° “Percorso Counseling”
G ° “Conoscere e affrontare l´ADHD" corso di primo livello
H ° “Abuso sulle Donne e violenza di genere”
I °"Il bravo insegnante metodologia e didattica applicata nella gestione efficace della classe"
L ° “Comunicazione non verbale”
M ° "I bambini e le fiabe. Significato e valore della narrazione" – Corso1
M2 ° “Una fiaba per ogni problema. Laboratorio di fiabe per bambini e adulti” – Corso 2
N ° “ADHD. Strategie educative ed interventi pratici” Corso di secondo livello
O ° "Strategie di prevenzione per l'uso scorretto di internet da parte di bambini e adolescenti"
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P ° “Disturbi del comportamento alimentare. Cosa fare?” DCA
Q ° “Disabilità e Autismo. Intervento psicopedagogico e strategie metacognitive”
R ° “DSA. Interventi mirati e metodologie specifiche” Corso di secondo livello
S ° “Il Disegno come strumento di valutazione del maltrattamento e dell’abuso minorile”
T ° “L’adulto consapevole: affrontare i comportamenti devianti. Il bullismo”
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