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DIRITTO PROCESSUALE CIVILEVOL 1
GLI ATTI PROCESSUALI CIVILI
Allorquando si parla degli atti processuali civili, i punti di maggiore rilievo in tale ambito
sono:
Individuazione e identificazione degli atti processuali;
Caratteri tipici degli atti processuali (punto importante perché li distingue dagli altri atti
giuridici);
Classificazione degli atti processuali;
Tempo inteso come lasso temporale per il loro compimento;
Effetti degli atti processuali;
Disciplina della invalidità degli atti stessi.
INDIVIDUAZIONE ED IDENTIFICAZIONE DEGLI ATTI PROCESSUALI.
L’atto processuale è quello che ha come effetto la costituzione, lo svolgimento, la modifica
o l’estinzione del rapporto giuridico processuale. Dunque possiamo ben affermare che l’atto
è quell’elemento che, posto in essere, configura il raggiungimento delle tappe del processo
stesso, infatti tale elemento, che si configura appunto con l’atto, corrisponde alla sua tipica e
specifica funzione. In definitiva un atto è processuale in quanto è inserito in un processo.
Il concetto di atto appare strettamente collegato al concetto di processo, il quale (processo) è
definito come una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una
decisione del giudice, ciascuno dei quali, validamente compiuti, fa sorgere il dovere di porre
in essere il successivo ed al contempo, è esso stesso realizzato in adempimento del dovere
posto dal suo antecedente. In sintesi gli atti posti in essere validamente sono indirizzati al
raggiungimento di una meta definitiva, cioè la pronuncia del giudice la quale determina la
fine della controversia proprio perché si perviene ad un giudizio (processus judicii).
I CARATTERI TIPICI DEGLI ATTI PROCESSUALI.
L’atto è un mezzo per il conseguimento di un risultato predeterminato dal legislatore, e più
in generale, dall’ordinamento giuridico. Da ciò noi ricaviamo il primo elemento importate
per identificare i caratteri tipici, cioè la volontà del soggetto agente. Il punto nodale è che
tale atto venga compiuto volontariamente, i suoi effetti sono prestabiliti dal legislatore
nell’ambito del processo. Importante da dire è che tali effetti non sono disponibili dalle
parti, infatti l’atto processuale non può considerarsi come espressione di autonomia
negoziale, poiché lo scopo prefissato dalle parti è, quasi del tutto, irrilevante (se non da un
punto di vista strettamente processuale, e non per l’appunto negoziale fine a se stesso).
In sintesi allorquando si parla di scopo dell’atto processuale, tale definizione si identifica
(pensiamo alla disciplina della “FORMA” art 121 cpc o delle “NULLITA’” art 156 cpc)
nella funzione tipica e oggettiva dell’atto processuale, dunque lo scopo dell’atto processuale
è quello di essere inteso come elemento oggettivamente funzionale al conseguimento del
processo stesso.
La volontà degli effetti non va confusa con la VOLONTARIETA’ del compimento dell’atto.
Per la legge è importante che tale elemento, se pur in minima presenza, sussista appunto la
volontà di compiere l’atto da parte del suo autore. In tale ambito, quindi, il legislatore
impone i requisiti di forma, per la validità dell’atto, forma che appare strettamente
funzionale per lo svolgimento tipico della funzione dell’atto stesso, cioè per il
conseguimento del suo scopo.
L’osservanza di tali forme, più o meno rigide, garantisce la volontà di compiere l’atto e la
riferibiltà del suo autore, dunque l’essersi adeguato alle forme del processo è sintomo del
fatto che un soggetto determinato abbia voluto porre in essere un atto determinato. In sintesi
la volontà viene interamente assorbita dalla forma.
In ambito di atti processuali da sottolineare la presenza di due Principi fondamentali:
Principio di Tassatività o legalità delle forme: ciò significa che i modelli dei principali
atti del processo sono tassativamente predisposti per legge (es. la Citazione, Comparsa di
risposta, Sentenza, Ordinanza e Decreto). Dunque in osservanza dell’art 121 cpc solo al
di fuori dei casi stabiliti dalla legge, gli atti processuali possono essere compiuti nella
forma più idonea al raggiungimento dello loro scopo,
Principio di Strumentalità delle forme: inteso che il rispetto delle forme è sempre in
funzione di un determinato scopo (o risultato pratico), da ciò si evince che se tale scopo
risulta comunque raggiunto nel processo, l’eventuale vizio di forma perde qualsiasi
rilevanza.
LE CLASSIFICAZIONI DEGLI ATTI PROCESSUALI.
In tale sede opereremo tre grandi classificazioni il cui criterio sarà quello in base al soggetto
che pone in essere tali atti processuali, pertanto avremo:
1. Atti di parte: tra essi ritroviamo gli atti di impulso, cioè quelli destinati ad attivare il
meccanismo giurisdizionale o ad impedirne lo stallo o l’arresto (esempio l’atto di
citazione art 163 cpc, il ricorso art 414 cpc, ecc) e gli atti introduttivi dei procedimenti di
impugnazioni (dell’appello, del ricorso in cassazione, per la revocazione, per
l’opposizione del terzo, per l’appello nelle controversie di lavoro), tali atti contengono la
domanda (o le domande) che propone la parte che agisce esercitando l’azione o
l’impugnazione e sulle quali interverrà alla fine la pronuncia del giudice con la
conseguente formazione della cosa giudicata. Spesso tali atti non producono solo effetti
di natura processuale ma altresì effetti di natura sostanziale, come nel caso della
“notificazione dell’atto di citazione” il quale determina l’interruzione della prescrizione
del diritto che si fa valere in giudizio.
2. Atti del Giudice: di seguito gli atti emessi dal giudice:
SENTENZA : è un provvedimento con natura e contenuti decisori. La sua funzione
“principale” è rappresentata dalla risoluzione di una o più questioni mediante
l’applicazione di norme di legge ad una determinata fattispecie concreta. In base alla
natura le sentenze possono essere di natura sostanziale o processuale, le quali
possono investire tutta la controversia o una parte di essa. Distinguiamo in tal senso:
Sentenza definitiva: cioè una decisione che definisce interamente la
controversia davanti al giudice che l’ha pronunciata (anche per motivi di
merito: ad es. la sentenza che accoglie l’eccezione di difetto della
giurisdizione), o almeno una delle domande poste dalle parti;
Sentenza non definitiva: cioè che si limita a risolvere alcune questioni,
talvolta pregiudiziali e talvolta preliminari, o una parte del merito (es. la
sentenza di condanna generica, implichi la prosecuzione del processo.
In base agli effetti (ma anche in base al tipo di azione di cognizione in concreto
esercitata, distingueremo:
a. Sentenze di mero accertamento: in alcuni casi la lesione del diritto di cui si
invoca la tutela in una mera attività di contestazione da cui consegue una
pregiudizievole “situazione di incertezza” (si pensi, ad esempio, al soggetto
che contesti l’altrui proprietà affermando di essere l’effettivo proprietario del
bene, oppure al soggetto che, ancor prima della scadenza del suo debito, nega
di essere debitore). In dette situazioni l’attività necessaria e sufficiente a
fornire la tutela invocata, appunto, nell’emanazione di un provvedimento
giudiziale che, accertando il diritto, lo renda incontestabile;
b. Sentenze costitutive: in certi casi il diritto soggettivo non può ricevere tutela
se non attraverso un provvedimento modificativo (in senso lato) della
situazione giuridica preesistente. Questo avviene per effetto di determinati
diritto potestativi c.d. ad esercizio giudiziale, il provvedimento giudiziale che
fornisce tutela a questa particolare categoria di diritti (producendo l’effetto
voluto dall’attore) è, per l’appunto, la sentenza costitutiva. ES. art 2908 cc
l’autorità giudiziaria, nei casi previsti dalla legge, può costituire, modificare,
estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi
causa). Da dire che anche queste sentenze presuppongono un accertamento,
però questo non è solo un passaggio fine a se stesso, ma è strumentale
all’intervento del giudice sulla realtà giuridica preesistente. Di seguito un
breve elenco delle sentenze costitutive previste dal nostro ordinamento
giuridico (es. quelle di risoluzione e di rescissione del contratto, alla sentenza
che produce gli stessi effetti del contratto non concluso, alla sentenza di
separazione tra coniugi ed a quella di divorzio);
c. Sentenze di condanna: spesso la semplice rimozione dell’incertezza non è
sufficiente a dimostrare l’interesse del titolare del diritto leso. Né è un
esempio di diritto di credito: l’interesse del creditore non riceve affatto
soddisfazione dal mero accertamento dell’esistenza del rapporto obbligatorio e
della sua inattuazione. Tale interesse trova solo soddisfazione con
l’adempimento della prestazione dovuta. In tale senso occorre predisporre uno
strumento idoneo a stimolare il debitore ad effettuare il pagamento, e in
mancanza, ad assicurare l’effettiva soddisfazione dell’interesse creditorio. Tale
strumento è rappresentato, appunto, dalla sentenza di condanna, mediante
questa il giudice non si limita ad accertare l’obbligo (inattuato) ed il relativo
diritto (insoddisfatto), ma predispone un titolo esecutivo, quest’ultimo
legittima il creditore, in caso di persistente inadempimento, a procedere ad
esecuzione forzata sul patrimonio del debitore, ed assicurare dunque la
soddisfazione dell’interesse creditorio.
La sentenza ha come proprio carattere la irrevocabilità da parte del giudice che
l’ha emessa. Essa diviene perfetta, e quindi irrevocabile, attraverso il deposito
presso la cancelleria del giudice che l’ha pronunciata.
Tale sentenza può essere rimossa solo mediante il ricorso ai mezzi di
impugnazione e da un organo giudiziale che ha una composizione collegiale, e
non già monocratica.
Nel contenuto della sentenza troviamo, innanzitutto la dicitura “in nome del
popolo italiano” con l’intestazione “Repubblica Italiana” e, oltre ai requisiti
formali previsti dall’art 132 n. 1, 2 e 3 cpc, due elementi fondamentali la
Motivazione la quale indica le ragioni di fatto e di diritto che giustificano il
dispositivo, e il l’altro elemento fondamentale è il Dispositivo in esso troviamo la
specifica e concreta decisione del giudice sulla domanda o sulla parte di essa (c.d.
questioni di rito).
La L.69/2009 ha modificato l’art. 132 cpc sostituendo la dicitura “la concisa
esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto ed in diritto”, l’ha
sostituita in “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della
decisione”. A completamento di ciò il nuovo comma 1° dell’art. 118 delle disp.
Att. Stabilisce che “la motivazione della sentenza di cui all’art. 132 cpc 2°
comma num. 4 consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e
delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti
conformi”.
Tale riforma mira a ridurre il contenuto espositivo e motivazionale della sentenza,
la quale nel rispetto dell’art 111 Cost. deve contenere l’esposizione delle ragioni
di fatto e di diritto, cioè la motivazione, essendo la sentenza un provvedimento
giurisdizionale.
ORDINANZA : è un provvedimento che non ha, solitamente, carattere decisorio, ma
contenuto ordinatorio o istruttorio. Esso è quel provvedimento del giudice
predisposto al fine di istruire il processo e di ordinarne lo svolgimento e nonché in
base a quanto introdotto dalla Legge 69/2009 per emettere decisioni limitate alle
questioni di competenza. Dunque possiamo definire molto elastico ed adattabile alle
circostanze ed esigenze che si possono profilare durante il processo. Non tutte le
ordinanze sono modificabili e revocabili, infatti in questo ambito la legge prevede
delle eccezioni. I caratteri di modificabilità e revocabilità riguardano le ordinanze
pronunciate nella fase istruttoria del processo di cognizione. Come anticipato le
ordinanze talvolta possono avere carattere “decisorio” in queste circostanze tale
carattere prevale sulla forma, il che riverbera ai fini della loro impugnabilità giacché
se non sono impugnabili o assorbite dalla sentenza che chiude il giudizio (come ad
esempio le ordinanze anticipatorie di condanna) sono impugnabili in Cassazione (art
111 Cost. e art 360 ult. Comma introdotto dal dlgs 40/2006);
DECRETO : esso è un provvedimento che non presenta caratteri tipici ed assolve a
varie funzioni sovente di carattere amministrativo e collaterale al processo vero e
proprio. Un breve accenno ai Decreti nei procedimenti speciali che hanno contenuto
e funzioni decisorie come la sentenza; in tale ambito esso non potrà essere modificato
né revocato, se non con l’osservanza del procedimento predisposto dalla legge. Il
decreto non presuppone necessariamente il contraddittorio, elemento con lo
contraddistingue dall’altro provvedimento che invece prevede l’instaurazione del
contraddittorio prima della sua emanazione, cioè l’ordinanza.
3. Atti di altri soggetti ed organi: essi sono rappresentati dagli atti che vengono posti in
essere dagli “ausiliari del giudice” nell’ambito delle rispettive competenze. Tali figure
sono: il Cancelliere, l’Ufficiale Giudiziario, il Custode, il Consulente Tecnico. Il
cancelliere svolge funzioni di documentazione dell’attività proprie e di quelle degli
organi giudiziari e delle parti, infatti per queste ragioni viene anche definito “il notaio
del processo”, in aggiunta a questa documentazione competono, sempre al cancelliere,
altre attività come le comunicazioni e le notificazioni prescritte dalla legge o disposte dal
giudice. L’Ufficiale giudiziario è l’organo che esegue le notificazioni e compie gli atti
del processo esecutivo (es. il pignoramento; consegna di cose mobili; rilascio di
immobili; esecuzione forzata di obbligo di fare e di non fare).
IL TEMPO PER IL COMPIMENTO DEGLI ATTI.
L’art. 152 cpc sancisce che “i termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti
dalla legge, possono essere stabiliti dal giudice solo se la legge lo permette espressamente.
I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari
perentori”.
Dunque dal contenuto di questo articolo si evince che i termini possono essere legali o
processuali, nel primo caso si definiscono così quelli stabiliti per legge, nel secondo caso
sono quelli indicati dal giudice. Distinguiamo ancora diversi termini in:
TERMINI ESTRINSECI o ACCIDENTALI, quando stanno ad indicare il periodo di
tempo (ore, giorni, mesi ed anni) entro i quali un determinato atto del processo deve
essere compiuto;
TERMINI INTRINSECI o NATURALI;
TERMINI PERENTORI, tali termini hanno una pluralità di caratteristica:
La perentorietà deve essere riconosciuta dalla legge;
La loro inosservanza determina la decadenza del soggetto dal potere di compiere
l’atto processuale;
non sono prorogabili (anche se le parti chiedono, concordatamene l’abbreviazione e
la proroga – art 153 cpc – ). La Legge 69/2009 prevede la rimessione nei termini ,
pertanto l’atto definito “tardivo”, cioè posto in essere dopo la scadenza del termine
perentorio, ed in assenza di un provvedimento di rimessione, è NULLO. In
ottemperanza del Principio sul Giusto Processo (art 111 Cost. ) non può essere
pronunciata una decadenza a carico della parte se non è causata da un fatto ad essa
imputabile. Come già esposto sopra l’art 153 cpc è stato arricchito di un secondo
comma (apportato dalla legge 69/2009) il quale stabilisce che “la parte che dimostra
di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile può chiedere al
giudice di essere rimessa in termini”. Tale rimessione però non è automatica, infatti
l’art. 294 comma 2 e 3 stabiliscono che essa è subordinata alla valutazione del
giudice in merito alla verosimiglianza dei fatti allegati, il quale se deciderà in
positivo lo farà con ordinanza. Resta salva l’ipotesi che “quando occorre” il giudice
potrebbe, altresì, chiedere l’espletamento della prova dell’impedimento.
TERMINI ORDINATORI, sono termini coordinati allo svolgimento del processo, la
loro inosservanza non genera necessariamente la decadenza e sono prorogabili su istanza
di parte o anche d’ufficio, ovviamente prima della scadenza, in base all’enunciato
dell’art. 154 cpc, dunque la proroga è possibile solo prima della loro scadenza il loro
decorso senza la presentazione di un’istanza di proroga (come già detto o che sia istanza
di parte o un intervento d’ufficio da parte del giudice), determinando gli stessi effetti
preclusivi della scadenza dei termini perentori, impedisce la concessione di un nuovo
termine, salva l’ipotesi che la parte sia decaduta per cause ad essa non imputabile.
TERMINI DILATORI, essi indicano il tempo prima del quale non è possibile porre in
essere un atto o un’attività processuale (ad esempio termine di 10 gg dalla notifica del
precetto, prima della scadenza del quale non è possibile procedere a pignoramento). La
corte di cassazione ha stabilito che il termine dilatorio può essere rinnovato anche dopo
la sua scadenza, perché diverso dal termine perentorio. L’art. 155 cpc indica il computo
dei termini dilatori escludendo il giorno e l’ora iniziale e per i termini a mesi e ad anni si
osserva il calendario comune e si prevede che i giorni festivi si computano nel temine
ma, se è festivo il giorno della scadenza, la scadenza del termine è prorogata di diritto al
primo giorno seguente non festivo. Per riassumere nel calcolo del termine ad ore o a
giorni non si tiene conto dell’ora o del giorno iniziale mentre si tiene conto di quello
finale, tenuto conto del fatto che, allorquando si tratta di termini che devono essere
calcolati a ritroso, il giorno iniziale è quello più lontano nel tempo (ad es. il giorno
dell’udienza di comparizione nel termine previsto dall’art 166 cpc per la costituzione del
convenuto). La novella del 2005/2006 stabilisce che i termini per il compimento degli
atti processuali svolti fuori dall’udienza (es. le notificazioni o comunicazioni e scambio
di atti) scadono nella giornata di sabato, opera la stessa proroga di diritto al primo giorno
seguente non festivo. L’art. 155 cpc sancisce il regolare svolgimento delle udienze e di
ogni attività giudiziaria, anche svolta da ausiliari, nella giornata di sabato e che pertanto
ad ogni effetto si considera lavorativa (termini questi che trovano applicazione nei
procedimenti che si sono instaurati dopo il 1° marzo 2006. tale disposizione ha lasciato il
posto a quella successiva introdotta dalla legge 69/2009 nell’art. 58 comma 3 cpc che ha
stabilito che tali termini debbano applicarsi, altresì, ai procedimenti civili già pendenti
alla data del 1° marzo 2006.
Per quanto concerne la sospensione dei termini la legge 742/1969 stabilisce la sospensione
dei termini processuali per il periodo feriale, il decorso dei termini processuali relativi alla
giurisdizione ordinaria ed a quella amministrativa è sospesa di diritto dal 1° agosto al 15
settembre di ogni anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione e cioè
dal 16 settembre.
Esistono della cause che non soffrono (o non sono colpite) della sospensione dei termini,
sono:
Cause relative agli alimenti;
I procedimenti cautelari;
Le cause di sfratto (con esclusione del procedimento ordinario);
Le cause di opposizione all’esecuzione (inclusi i giudizi di opposizione agli atti esecutivi
e di opposizione del terzo all’esecuzione);
Le cause relative alla dichiarazione ed alla revoca dei fallimenti;
e comunque in generale a tutte quelle cause il cui ritardo potrebbero produrre grave
pregiudizio alle parti.
GLI EFFETTI DEGLI ATTI PROCESSUALI.
Gli effetti della sentenza, concernono le situazioni che sono conseguenza del compimento
dell’atto processuale possono anche avere rilevanza immediata a livello di rapporti di natura
sostanziale ( es. l’interruzione della prescrizione per effetto della notificazione dell’atto di
citazione ovvero la confessione resa in giudizio), quindi anche prima che lo sviluppo del
procedimento arrivi ad un provvedimento del giudice. È prestando particolare attenzione
alla sentenza che possiamo comprendere gli effetti sostanziali dell’atto processuale. Ora
distinguiamo:
1) Esecutività, tali effetti, a differenza del giudicato, non sono esclusivi del provvedimento
del giudice, ma sono attribuiti anche a quegli atti di provenienza stragiudiziale (scritture
provate autenticate relativamente alle somme di danaro in esse contenute, cambiali ed
altri titoli di credito, atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato a
riceverli, che la legge riconosce la qualifica di titoli esecutivi art. 474 cpc. Il momento in
cui il provvedimento del giudice diventa esecutivo non coincide, necessariamente, con il
momento i cui si forma su di esso la cosa giudicata; infatti se raffrontiamo l’art 282 cpc e
l’art 324 cpc, l’art 282 stabilisce che già la sentenza di primo grado, anche se ancora
soggetta ad appello o già impugnata innanzi al giudice di appello “è provvisoriamente
esecutiva tra le parti”, al contrario l’art 324 sancisce che “si intende passata in giudicato
la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a
ricorso per cassazione, né a revocazione per cassazione per i motivi individuati ai numeri
4 e 5 art. 395 cpc (rispettivamente 4. se la sentenza è il risultato di un errore di fatto
risultante dagli atti o da documenti della causa, dunque vi è errore se la decisione è
fondata dalla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o
allorquando è supposta l’esistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e
tanto nell’uno o nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la
sentenza ebbe a pronunciarsi; rispettivamente 5. se la sentenza è contraria ad una
precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato
sulla relativa eccezione).
2) Cosa giudicata. La cosa giudicata si ha ogni qual volta la sentenza diviene irretrattabile
perché non più soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione, cioè appello, ricorso per
cassazione e revocazione ordinaria. Quando il giudice emette la decisione,egli emette la
regola del caso concreto partendo dalla fattispecie astratta: partendo da ciò, Andrioli ci
da una definizione di cosa giudicata come ciò che tronca il nesso che collega la norma
con la fattispecie concreta sostituendosi a quella (la norma) nella disciplina di questa. La
cosa giudicata si può distinguere in cosa giudicata formale e sostanziale; la prima è la
cosa giudicata valutata all’interno del processo come fenomeno processuale
dell’irretrattabilità della statuizione, con riferimento all’art 324 (giudicato formale) e
all’impossibilità di esperire i mezzi di impugnazione ordinaria verso la sentenza passata
in giudicato. La cosa giudicata sostanziale si riferisce invece all’efficacia che la sentenza
passata in giudicato esplicita all’esterno del processo, cioè all’irretrattabilità della
statuizione come intervenuta sul diritto; non è un fenomeno processuale ma la regola del
caso concreto. La maggioranza della dottrina ritiene che le sentenze che possono passare
in giudicato sostanziale sono solo quelle che hanno deciso sul merito, quindi in linea di
principio le sentenze di rito non potrebbero passare in giudicato sostanziale, perché non
si ha con questo tipo di sentenze una statuizione concreta sul diritto che diviene
irretrattabile. Una dottrina minoritaria, in particolare Liedman, ritiene invece che alcuni
tipi di sentenze di rito possano avere una efficacia anche esterna, cioè sostanziale oltre
che interna: si tratterebbe di quelle sentenze che hanno statuito su domande in relazione
al processo. Per esempio una sentenza di rito che abbia statuito sulle condizioni
dell’azione in realtà ha deciso sull’esistenza del diritto a proporre l’azione e quindi su un
diritto: ecco come non possa essere considerata come mera sentenza di rito che non
statuisce sul diritto e non è dunque suscettibile di passare in giudicato sostanziale. Altra
distinzione si pone fra giudicato esplicito e giudicato implicito. Il primo è quello
formatosi sul dispositivo, quindi è la regola, la statuizione data dal giudice senza
considerare la motivazione; il secondo è quello relativo alle motivazioni, cioè relativo
alle questioni che il giudice ha affrontato per arrivare alla soluzione finale. Distinguiamo
poi fra giudicato esterno ed interno. Il primo è quello che può esplicare efficacia
all’esterno del processo, il secondo è quello che estrinseca la sua efficacia solo
all’interno del processo, come il giudicato che si forma per acquiescenza parziale. Il
giudicato interno ha un contenuto più ampio rispetto a quello del giudicato esterno
perché si può formare anche sui meri fatti; in generale hanno efficacia di giudicato
interno tutte le statuizioni del giudice sulle quali non si propone impugnazione e che
dunque hanno efficacia all’interno del processo.
LA NULLITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI.
Quando si parla atto non valido, nullo e annullabile, ci si riferisce al fatto che determinate
regole di diritto concernenti la struttura formale dell’atto non sono state ottemperate.
Un atto è giuridico, proprio perché l’ordinamento ne fa scaturire effetti giuridici, cioè
rilevanti nell’ambito del diritto (atto giuridico = fonte di effetti giuridici).
Se si vuole che un determinato atto produca tali effetti, esso deve rispettare il modello
fornito dalla norma, dunque laddove fosse assente la corrispondenza tra atto posto in essere
e il modello astratto previsto dalla norma introdotta dal legislatore, tale atto sarà imperfetto e
viziato proprio perché la struttura non rispetta quella prevista dalla legge. Si evince che
l’atto imperfetto non può considerarsi valido, pertanto non produrrà gli effetti proprio di
quell’atto. Infatti allorquando si parla di invalidità e nullità di un atto giuridico si fa
riferimento a due aspetti fondamentali:
Difformità , tra l’atto concretamente posto in essere e la corrispondente struttura tracciata
dal modello legale;
Imperfezione , ostacola il prodursi degli effetti che sono propri di quell’atto.
La legge, tra questi due elementi, opera una sorta di gradazione nello stabilire la produzione
di effetti, infatti in alcuni casi si verificano delle nullità assolute ed insanabili (cioè
totalmente ed irresistibilmente inidonee a produrre effetti), in altri casi riconosce una
difformità meno grave, il caso dell’annullabilità, tanto da essere sanati mediante sanatorie
prontamente disposte dal legislatore, ma questo atto deve essere rimosso attraverso lo
strumento dell’impugnazione da parte di chi vi abbia interesse, perché diversamente tale atto
continuerebbe ad essere presente ed a produrre i suoi effetti.
A completamento del discorso relativo all’invalidità, introduciamo anche la figura
dell’inesistenza giuridica, la quale è rappresentata da quell’atto che manca di quel minimo
di elementi idonei a conferirgli la semplice parvenza di atto giuridico. In conclusione vista
la contraddittorietà della definizione di “atto inesistente” ci porta a ridimensionare l’elenco
delle invalidità stabilendo che nel suddetto rientrino solamente la nullità e l’invalidità.
Nell’ambito delle nullità distinguiamo:
NULLITA’ GENERALI art. 156 cpc
NULLITA’ SPECIALI art. 160 e 164 cpc
Distinzione che appare importante da un punto di vista della rilevanza o irrilevanza
dell’atto, e dunque la “processualità” degli stessi. Il rispetto dei requisiti formali determina
la rilevanza dello stesso atto, atto che ha una funzione tipica prevista per legge. In
conclusione l’atto posto in essere in modo conforme al modello legale non solo riverbera la
volontarietà del suo compimento ma altresì permette all’atto di conseguire il suo scopo
ultimo, cioè quello di essere preso in considerazione dal giudice per prendere una decisione.
Tale discorso non lo si può far valere per quelle nullità di tipo assoluto, ma allorquando ci
troviamo dinanzi a tutte quelle nullità, che malgrado verificatesi permettono comunque
all’atto di raggiungere lo scopo, l’atto è comunque rilevante perché, raggiunto per l’appunto
lo scopo, si dice che “si sana” e ciò comporta la preclusione per la parte interessata di
eccepire e rilevare per il giudice e dichiarare la nullità.
LE CAUSE DI NULLITA’ ART. 156 CPC
Di seguito l’elenco delle cause di nullità dell’atto processuale:
1. la mancanza o l’assoluta incertezza di uno o più requisiti formali che assumono
rilevanza esteriore per la tipicità dell’atto, o secondo una espressa previsione della
legge (art 164 cpc) o in base al giudizio di idoneità al raggiungimento dello scopo
(art 156 comma 2 cpc);
2. la mancanza dei requisiti cd extraformali (la volontarietà dell’atto, la capacità e la
legittimazione processuale);
3. la violazione di una norma di procedura (artt. 112, 158, 160 cpc) anche se la nullità
non è espressamente comminata dalla legge,
4. la cd nullità derivata, che si palesa allorquando un atto è affetto da nullità non per
vizio proprio, ma perché è assente o è viziato di nullità un atto precedente della serie
procedimentale da cui il primo dipende;
5. gli errores in iudicando;
6. gli errores in iudicando de iure procedendi;
7. omissione totale dell’atto, cioè cd inesistenza storica dell’atto.
Le classificazioni dei vizi di nullità.
Tra i vizi di nullità distinguiamo:
vizi formali , riferibili alla veste esteriore dell’atto “contenuto – forma”;
vizi extraformali , riferibili alla fattispecie, ai vizi di capacità, legittimazione e volontà.
Un’altra distinzione importante da operare è senz’altro quella che intercorre tra:
nullità degli atti : sono regolate dagli artt. 156-157 e 159-162 cpc
nullità del procedimento : tra queste rientrano quelle previste dall’art 158 cpc rubricato
“la nullità derivante dalla costituzione del giudice” recita così “la nullità derivante da
vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del pubblico ministero, è
insanabile e deve essere rilevata d’ufficio, salva la disposizione dell’art 161 cpc
rubricato “le nullità delle sentenze”; e quelle derivanti dalla mancanza di integrazione
del contraddittorio ex art 102 cpc. Comunque la peculiarità di queste nullità è la
rilevabilità d’ufficio pure senza particolari dettami indicati dalla legge e dalla
insanabilità entro il processo.
Nullità ed altre forme di invalidità degli atti processuali.
Operando una esegesi dell’art. 156 cpc rubricato “Rilevanza della nullità” possiamo da
subito distinguere:
fattispecie legale dell’atto: formato dai requisiti che l’atto deve necessariamente
contenere affinché lo stesso produca gli effetti tipici. Tali requisiti sono prescritti “a pena
Da sottolineare che l'annullabilit? opera non impedendo la produzione provvisoria degli effetti dell'atto viziato, fino alla pronuncia costitutiva di annullamento; mentre la nullit? processuale opera impedendo, di regola, la produzione degli effetti correlati ai requisiti di forma in concreto mancanti, ma non impedisce la produzione degli effetti tipici della legge correlati ai requisiti in concreto presenti nell'atto considerato.di nullità” dal modello legale dell’atto;
fattispecie legale dell’atto: formato da quegli ulteriori requisiti previsti per legge la cui
assenza non genera alcuna conseguenza sull’efficacia dell’atto, ma tali requisiti sono
prescritti “a pena di irregolarità”. In sintesi, l’assenza di questi requisiti non impedisce
all’atto di produrre i suoi effetti tipici (un esempio approntato dalla Giurisprudenza è il
seguente: ipotesi di costituzione dell’attore con deposito, nel proprio fascicolo, di copia
dell’atto di citazione anziché dell’originale, depositato dopo la scadenza del termine; in
questo caso la Cassazione con sentenza del 2004 ha stabilito che l’inosservanza non
comporta nullità dell’atto irregolarmente corretto).
L’inefficacia NON rientra tra le cause di invalidità perché essa risulta essere più la
conseguenza del vizio e non, quindi, una fattispecie autonoma di nullità.
Anche per l’annullabilità (mai nominata, tra l’altro, nel codice di rito) è utilizzata a
distinzione di quei vizi che NON incidono sulla stessa configurabilità dell’atto processuale,
la cui presenza permette all’atto processuale di produrre i suoi effetti tipici (costituiscono in
questo caso i vizi di annullabilità); li teniamo ben distinti da quei vizi che costituiscono
nullità dell’atto perché ne impediscono ai suoi effetti tipici di prodursi (i vizi di nullità). Nel
primo caso sono vizi rilevabili d’ufficio (nullità) mentre i secondi (i vizi di annullabilità)
sono rilevati solo su istanza di parte.
IMP
ANALISI DELLE DISPOSIZIONI POSITIVE IN MATERIE DI NULLITA’.
RILEVANZA DI NULLITA’.
Circa la rilevanza delle nullità dobbiamo analizzare l’art 156 cpc rubricato in tal senso. Da
subito è necessario sottolineare che non tutti i vizi degli atti processuali impongono una
declaratoria di nullità e che tali vizi devono essere presi in considerazione in quanto rilevino
nel processo, e incidano sul suo svolgimento.
A. al 1° comma rileviamo il PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ delle nullità, la quale non
appare come regola assoluta e trova un correttivo nella incidenza dell’elemento dello
scopo;
B. lo scopo dell’atto viene in evidenza come criterio per ampliare ma altresì per restringere
l’ambito delle nullità, dunque distinguiamo:
lo ampia in quanto commina la nullità quando, pur in assenza di una espressa
prescrizione di nullità si manifesti inidoneo all’esercizio della funzione tipica
riconosciutagli dalla legge;
il criterio dello scopo restringe l’ambito delle nullità in quanto ci sia o no una
espressa comminatoria di nullità, se lo scopo in concreto è stato raggiunto
(PRINCIPIO DI SANABILITA’ PER RAGGIUNGIMENTO DELLO SCOPO) la
nullità perde rilevanza e si deve intendere pertanto sanata. Tale principio si applica
non solo ai casi di nullità ma, altresì, a tutte le figure di invalidità diverse dalla
nullità dunque anche ai casi di inammissibilità e improcedibilità. La sanatoria per il
raggiungimento dello scopo ha carattere generale e investe anche, per analogia, tutti
gli atti amministrativi ed anche gli atti amministrativi di imposizione tributaria.
IMP Gli effetti di un atto sanato si considerano prodotto ex nunc , cioè dal momento che
l’atto risulta essere sanato (ex nunc = non retroattivo – ex tunc = retroattivo).
RILEVABILITA’ E SANATORIA DELLA NULLITA’.
I LIMITI SOGGETTIVI.
Da rivedere perché il paragrafo del libro non è chiarissimo
I LIMITI OGGETTIVI DELLA NULLITA’.
L’art 159 “estensione delle nullità” ci riporta al Principio di conservazione dell’atto
processuale fissando diversi punti importanti:
la nullità dell’atto non comporta la nullità degli atti precedenti né di quelli successivi,
che non siano al primo conseguenti o connessi (Principio di conservazione esterna).
Dunque da ciò si evince che la dottrina prevalente ritiene che la nullità di un atto non
comporta la nullità degli atti precedenti né di quelli successivi INDIPENDENTI da
quello nullo (NB in ipotesi eccezionali la nullità può operare in senso inverso, vale a dire
se la nullità dell’atto successivo frustra il raggiungimento dell’atto anteriore). Per
intenderci, l’atto nullo inficerà quello successivo solo laddove i due (o più atti) fossero
tra loro dipendenti o il primo fosse propulsivo a quelli successivi;
la nullità di una parte dell’atto non colpisce le altre parti che ne siano indipendenti
(Principio di conservazione interna). Questo concerne sia quegli atti che sembrano
apparentemente unici (esempio la procura posta a margine o in calce all’atto di
citazione), sia quegli atti unici nella forma e nella sostanza ma sono frazionabili
(esempio all’atto di citazione, in cui sono chiaramente distinguibili i requisiti differenti
alla vocatio in ius e quelli relativi alla edictio actionis);
se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai
quali è idoneo (Principio di conversione) (esempio: pensiamo alla domanda di
revocazione di un decreto ingiuntivo non opposto emesso dal giudice di pace va
introdotta con atto di citazione e non con ricorso, in merito alla tempestività della sua
presentazione è necessario avere riguardo alla data di notificazione della citazione stessa
(ovvero del ricorso) ove esistano i presupposti per la sua conversione in citazione e
sempre che esso risulti notificato unitamente al decreto contenente l’indicazione della
data di comparizione), (altro esempio il regolamento di competenza che si converte in
ricorso ordinario per cassazione e viceversa).
Le nullità per i vizi relativi alla costituzione del giudice e dell’intervento del pubblico
ministero.
Con riferimento ai vizi relativi della costituzione del giudice, trovano applicazione tutte
quelle ipotesi di inosservanza delle norme del codice di rito, che non incidono sulla
legittimazione del giudice ad esercitare il suo magistero, perché in questi casi si potrebbero
esperire le garanzie processuali legate all’Astensione ed alla Ricusazione.
Secondo la giurisprudenza si può parlare di nullità di costituzione del giudice solo
allorquando gli atti giudiziali sono posti in essere da persona estranea all’ufficio e non
investita della funzione esercitata (esempio: nullità della sentenza di merito deliberata in
camera di consiglio da un collegio diverso, in uno o più componenti, da quello che ha
assistito alla discussione della causa o, se discussione non vi è stata, diverso da quello
innanzi al quale sono state precisate le conclusioni).
Ricorre la nullità per vizio relativo all’intervento del pubblico ministero quando la sentenza
è stata pronunciata senza che questi abbia partecipato al giudizio, nei casi in cui il suo
intervento fosse obbligatorio a pena di nullità (art 70 comma 1 cpc), ciò infatti
comporterebbe una violazione delle norme sull’integrità del contraddittorio, con la
conseguenza che, se tale vizio fosse rilevato in appello, si dovrebbe disporre la rimessione
della causa al primo giudice (art 354 cpc).
In questi casi bisogna precisare che il mancato intervento del PM riguarda la sola sentenza a
norma dell’art 158 cpc ma non si estende agli atti anteriori alla deliberazione della stessa,
validamente formatasi anche senza la partecipazione del PM posto che ai fini di tale
partecipazione è sufficiente che egli spieghi intervento all’udienza di discussione innanzi al
collegio.
NULLITA’ DELLA SENTENZA E MEZZI DI IMPUGNAZIONE.
Di particolare importanza è il Principio dell’assorbimento o della conversione delle nullità
in motivi di impugnazione (art 161cpc) “tutti i motivi o i vizi di nullità si convertono in
motivi di impugnazione”.
Un distinzione che è necessario operare è la seguente:
nullità originaria della sentenza: sono quei vizi propri derivanti dall’atto per mancanza
dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma. Di seguito diversi esempi:
totale mancanza del dispositivo;
totale mancanza della motivazione (tale ipotesi è integrata anche allorquando la
stessa risulta incomprensibile);
contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione;
omessa lettura del dispositivo all’udienza di discussione della causa prescritta;
assenza della concisa esposizione dello svolgimento del processo (NB per tutte
quelle cause instaurate prima dell’entrata in vigore della legge 69/2009) e dei
fatti derivanti dalla causa solo se tale omissione impedisca totalmente di
individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione,
nonché che siano state osservate le forme indispensabili;
sentenza fondata sulle risultanze dell’attività probatoria svolta da una parte
risultante non ritualmente costitutita;
sentenza che abbia deciso nonostante la formazione del giudicato interno per
inammissibilità del ricorso in appello;
nullità derivata dalla sentenza: concernono vizi del procedimento non sanati né rilevati.
Si seguito diversi esempi:
mancata comunicazione dell’ordinanza pronunciata fuori udienza alla parte
costituita;
sentenza nulla anche quando le questioni sulle quali il giudice si è pronunciato
non comportano accertamenti di fatto, ma solo la soluzioni di questioni di
diritto;
nullità non sanata dell’atto introduttivo, carente dei requisiti prescritti dall’art
163 comma 3 n. 3 e 4 vale a dire, rispettivamente, la determinazione della cosa
oggetto della domanda e l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto
costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni;
sentenza viziata da difetto di difesa tecnica;
violazione del contraddittorio consentita, prima dell’entrata in vigore della l
80/2005, nella mancata dissociazione dell’udienza di prima comparizione e
nell’omessa assegnazione al convenuto del termine ex art 180 cpc.
Secondo il principio di assorbimento o della conversione delle nullità in motivi di
impugnazione (art 161 comma 1):
1. sono deducibili le nullità se e quando possono essere fatte valere come motivi di
impugnazione;
2. le nullità non fatte valere come motivi di impugnazione, anche le più gravi, escluse
quelle cd rilevabili anche d’ufficio in ogni grado e stato del processo se non si è
formato il giudicato interno sul punto, restano sanate;
3. preclusa comunque la possibilità di far valere l’impugnazione, resta comunque
preclusa la possibilità di far valere la nullità.
Uno snodo importante da chiarire è quello legato al fatto che necessità stabilire se la
disposizione dell’art 161 comma 1 cpc regoli esclusivamente l’iniziativa delle parti ed
ignori completamente i poteri d’ufficio. La dottrina prevalente in tale senso è quella per cui
lo stesso articolo condizionerebbe l’iniziativa d’ufficio perché riserverebbe le nullità della
sentenza alla piena disponibilità dei soggetti diversi dal giudice.
Ci si pone il problema di stabilire l’ambito di applicazione del principio di assorbimento e
della conversione delle nullità in motivi di impugnazione si possa applicare a tutti i
provvedimenti, la risposta è in senso negativo perché NON si applica in quei casi estremi
caratterizzati da un vizio così grave che tale atto non riesce ad inserirsi nello sviluppo del
procedimento. L’art 161 comma 2 fa l’esempio della sentenza non sottoscritta dal giudice,
questo vizio, per l’appunto, può essere fatto valere non solo nelle forme e nei termini propri
delle impugnazioni, ma anche dopo il formarsi della cosa giudicata attraverso un’apposita
azione di accertamento negativo. L’esempio approntato dall’art 161 comma 2 si riferisce a
sentenza assolutamente priva di sottoscrizione del giudice (sia esso collegiale, allorquando
manchi la firma del presidente o di altro componente) e senza poter operare distinzione in
merito al fatto che tale mancanza dipenda da dimenticanza o errore. La mancanza, anche se
involontaria, rende insanabilmente nulla la sentenza stessa per difetto di un elemento
costitutivo senza che possa avviarsi il procedimento di correzione di errori materiali, né con
la rinnovazione della stessa pubblicazione da parte dello stesso organo il quale, pronunciata
sentenza, perde la sua funzione giurisdizionale. Dunque tale nullità va accertata e dichiarata
in sede di impugnazione, ne consegue rimessione della causa al medesimo organo che ha
accertato la decisione carente di sottoscrizione.
A questa ipotesi si affianca, altresì, l’ipotesi di sentenza emessa dal giudice ormai trasferito
ad altro ufficio giudiziario (la cd sentenza che proviene a non judice).
L’art 161 comma 2 cpc in merito di atto non sottoscritto dal giudice, parla di inesistenza, per
differenziare il regime giuridico della “nullità per difetto di sottoscrizione” che, in questa
ultima ipotesi, sopravvive al passaggio in giudicato della sentenza stessa.
Infatti all’art 161 comma 2 cpc non si consente alla sentenza di produrre i suoi effetti anche
in modo precario, non è sanabile, e tale vizio potrà essere fatto valere senza limiti di tempo,
con un’autonoma actio nullitatis con l’apposizione all’esecuzione ed anche in via di mera
eccezione. Dunque secondo la dottrina prevalente, ma anche la giurisprudenza sembra
essersi schierata a favore di questa tesi, individua l’inesistenza a categoria generale nella
quale confluiscono tutti i vizi che , pur non espressamente previsti dal legislatore, siano
talmente gravi da impedire il passaggio in giudicato della sentenza. Vengono ricondotte alla
categoria di inesistenza:
la sentenza resa nei confronti di un soggetto inesistente o deceduto prima della
notificazione dell’atto introduttivo del giudizio;
la sentenza priva di dispositivo o dal dispositivo incerto, contraddittorio,
incomprensibile o impossibile;
ipotesi su cui vi è assoluta concordia, la sentenza pronunciata a non judice.
In merito all’ambito di applicazione e regime giuridico dell’inesistenza la giurisprudenza ha
precisato:
è configurabile come inesistenza, altresì, nei casi in cui la sentenza difetti di quel
minimo di elementi e presupposti indispensabili per produrre l’effetto di certezza
giuridica, che è lo scopo del giudicato (oltre all’ipotesi dell’art 161 cpc, di mancanza
di sottoscrizione della sentenza);
tale inesistenza va rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo con una
autonoma azione di accertamento non soggetta a termini di prescrizione o decadenza,
o con un’eccezione ad altresì in sede di opposizione all’esecuzione;
allorquando l’inesistenza è stata fatta valere con gli ordinari mezzi di impugnazione,
il giudice, diversamente da quanto accade per i vizi che comportano nullità, dichiara
l’inesistenza della sentenza, deve rimettere le parti nel grado in cui tale radicale vizio
si sia verificato, venendo in tale ipotesi, consentita, a differenza dell’ipotesi di
esperimento dell’actio nullitatis, la continuazione del giudizio, con la pronuncia di
una decisione di merito, nell’ambito dello stesso processo.
LA RINNOVAZIONE DEGLI ATTI NULLI.
Art 162 cpc “il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la
rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende”.
Tale disposizione ha un portata generale e di conseguenza si applicherà a tutti gli atti,
compresi quelli “propulsivi o necessari”.
Pensiamo alla pronuncia della nullità dell’Atto Introduttivo al processo, nullità che va
pronunciata per evitare che, la non pronuncia, da esso possa conseguirne un effetto virale a
tutti gli atti seguenti. Sempre in ambito di difetti della vocatio in ius nel rito del lavoro
(mancato rispetto del termine di comparizione, omissione o incertezza sull’udienza di
discussione) che non comportano nullità del ricorso ai sensi dell’art. 159 comma 1 cpc, e
così in ogni ipotesi in cui sussistano dubbi sull’applicabilità dell’art 291 cpc.
In ambito della rinnovazione degli atti nulli deve essere ricondotta la disposizione contenuta
nel comma 2 dell’art 182 modificato dall’art 46 comma 2 Legge 69/2009. Tale disposizione
attribuisce al giudice un potere che egli deve esercitare non solo ex officio e quindi senza la
necessità di ogni istanza di parte, ma anche senza essere condizionato dalla esistenza e dalla
dimostrazione di una causa non imputabile alla parte.
Il contenuto del novellato comma 2 dell’art 182 stabilisce che il giudice, allorquando rileva
un difetto di rappresentanza, di assistenza e di autorizzazione o una nullità della procura alle
liti, assegna ex officio alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla
quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, o
per la rinnovazione della stessa, se invalida.
L’impossibilità di disporre la rinnovazione può essere:
materiale : esempio nella rinnovazione di una prova testimoniale per l’intervenuto
decesso del teste, o per l’intervenuto mutamento dei luoghi nella ispezione;
giuridica : esempio a causa di una intervenuta decadenza.
In merito ai rapporti tra l’atto nullo e l’atto rinnovato da sottolineare che l’intervenuto
rinnovazione dell’atto nullo consente sia la conservazione degli effetti eventualmente già
raggiunti dall’atto irritualmente posto in essere, sia il perseguimento degli ulteriori effetti
originariamente impedita dal vizio. Dunque si realizza ciò che accade quando si profila
una situazione di sanatoria della nullità. In sintesi gli effetti di tale atto rinnovato si
considerano formati ex tunc, cioè in modo retroattivo, con la retrodatazione di tutti gli
effetti sostanziali e processuali della domanda al momento della prima notificazione (ciò
in ottemperanza di quanto stabilisce la giurisprudenza che esclude la possibilità di
Per il soggetto istante la notifica si perfeziona con la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, dunque l'istante sar? sollevato da qualunque rischio derivante dal ritardo nella consegna dell'atto al destinatario e quindi da decadenze o prescrizioni che si possono mutare medio tempore.rinnovazione dell’atto quando al momento della pronuncia di nullità è scaduto il termine
perentorio (o comunque a pena di preclusione) entro cui compiere l’atto.
In conclusione una specificazione da fare è che l’attività del giudice, in sede di
pronuncia di nullità, si traduce in un’attività discrezionale, ed insindacabile in sede di
legittimità se sorretta da una motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici (si
pensi al giudizio sul raggiungimento dello scopo o al giudizio di impossibilità materiale
di disporre la rinnovazione dell’atto nullo).
LE NOTIFICAZIONI
LE NOTIFICAZIONI IN GENERALE.
È uno strumento processuale attraverso il quale si comunica ad una parte del processo, che
si sta (o si deve) compiere un atto od una attività. Le notificazioni sono, dunque, una
sequenza di atti posti in essere da diversi soggetti. Tali procedure sono finalizzate a
realizzare la trasmissione e notificazione legale dell’atto processuale verso un soggetto
predeterminato. L’atto può essere:
1. di parte (istanza) che determina il sorgere e giuda lo svolgimento;
2. dell’ufficiale giudiziario e degli altri soggetti (ufficiale postale assegnatario), i quali n
modo gradualmente diverso cooperano al raggiungimento dello scopo.
Da chiedersi, quando si intende perfezionata la notificazione? La risposta ci è stata data
con sentenza emessa nel 2004 dalla Cassazione la quale ha stabilito “il principio secondo
cui il momento della notificazione si perfeziona per l’istante (cioè colui che trasmette
l’atto) deve essere distinto da quello in cui si perfeziona per il destinatario,
differenziazione meramente cronologica, visto che in ogni caso la produzione degli
effetti che sono collegati alla notifica restano condizionati al perfezionamento del
procedimento notificatorio anche per il destinatario dell’atto”.
IMP
PROCEDIMENTO DI NOTIFICAZIONE. L’ATTO INIZIALE.
Il procedimento di notificazione si compone di due momenti:
ATTO INIZIALE: istanza o richiesta;
ATTO FINALE: la documentazione, la quale si suddivide nei momenti essenziali alla
fase del procedimento:
Di istanza o richiesta;
Di intermediazione;
Di consegna;
Di documentazione.
L’art 137 cpc opera una distinzione tra istanza di parte e richiesta del PM o del cancelliere.
A tal proposito è necessario sottolineare che in dottrina si è parlato di “notificazione ad
impulso ufficiale” diversa dalla “notificazione ad impulso di parte”. Infatti lo stesso art 137
che parla di “istanza: allorquando l’iniziativa venga assunta dalla parte, perché si tratta di un
rapporto tra privato ed il titolare di una pubblica funzione, il quale viene, per l’appunto con
l’atto di istanza, sollecitato allo svolgimento e di richiesta quando lo svolgimento di questa
funzione venga sollecitato dal titolare di un altro ufficio, quindi la richiesta è diretta a
realizzare una collaborazione tra uffici e mette in rapporto titolari di funzioni pubbliche.
SOGGETTI DELLA FASE DI TRASMISSIONE: L’UFFICIALE GIUDIZIARIO E LE
SUE ATTRIBUZIONI.
Subito dopo l’atto di iniziativa, si instaura la seconda fase del procedimento di notificazione
è cioè la trasmissione e la consegna dell’atto stesso. I soggetti coinvolti in questa fase sono:
1. l’ufficiale giudiziario (eventualmente il difensore delle parti e/o ufficiale postale);
2. destinatario;
3. consegnatari.
Con ultima modifica apportata dalla legge 322/1975 l’ufficiale giudiziario NON è più
addetto ai singoli uffici giudiziari, ma è assegnato ad appositi uffici unici per le notificazioni
o per le esecuzioni, costituiti nelle sedi di corte d’appello o eventualmente nel tribunale.
I criteri base da seguire per individuare l’ufficiale giudiziario che ha il potere di eseguire la
notificazione dell’atto sono due:
si deve fare riferimento all’ufficiale giudiziario del mandamento, nel cui territorio deve
essere effettuata la notifica dell’atto (che in questo caso eseguirà la notificazione
direttamente nell’ambito del Comune, attraverso l’ausilio del servizio postale, a meno
che la parte chieda per iscritto che la notificazione sia eseguita dall’ufficiale giudiziario
di persona);
si deve fare riferimento all’ufficiale giudiziario addetto all’ufficio notifiche della sede
dell’autorità giudiziaria che è competente per l’atto (in questa ipotesi la notificazione da
fare fuori dal territorio dovrà sempre avvenire mediante servizio postale).
I DESTINATARI ED I CONSEGNATARI DELL’ATTO.
Il destinatario è il soggetto verso il quale l’atto viene indirizzato mediante il procedimento
di notificazione.
La presenza del consegnatario è solo eventuale e si realizza, nei procedimenti di
notificazione che si svolgono attraverso la trasmissione della copia di un atto, ogni volta non
sia possibile effettuare la consegna di tale copia alla persona stessa del destinatario. Tale
soggetto è, solitamente, estraneo al rapporto che intercorre tra il soggetto istante ed il
destinatario della notificazione. Due elementi sono di fondamentale importanza:
un luogo determinato (che differenzia la sua qualificazione dal destinatario);
ed in tale luogo la presenza di un soggetto, legato al destinatario da uno specifico
rapporto (la cui fonte può essere legale, negoziale o di mero fatto ).
IL TEMPO DELLE NOTIFICAZIONI.
Secondo quanto stabilisce l’art 147 cpc modificato dalla legge 263/2005 le notificazioni non
si possono realizzare prima delle ore 7 e dopo le ore 21, nell’art 147 cpc è stata soppressa la
sanzione della nullità.
L’osservanza della norma rientra nella piena disponibilità del consegnatario, che risulta
essere l’unico ad esigere il rispetto e rifiutare, legittimamente, di accettare l’atto (rifiuto che
non può determinare gli effetti previsti dall’art 138.2 cpc e art 140 cpc) costringendo
l’ufficiale giudiziario a ripetere l’operazione. Viceversa, qualora il consegnatario dovesse
accettare la consegna dell’atto fuori orario, sarà superato quanto prevede la norma, ma sarà
preclusa da parte del consegnatario stesso la manifestazione di una sua doglianza.
CONSEGNA DELL’ATTO A MANI DEL CONSEGNATARIO.
La consegna dell’atto ad personam è identificativo del momento in cui la notificazione si
perfeziona, procedura che, tra l’altro, determina l’immediata presa di conoscenza che l’atto
è stato ricevuto dal destinatario. Quest’ultimo non può, legittimamente, rifiutare la copia
dell’atto quando questa venga consegnata a lui personalmente. In caso di rifiuto l’art. 138.2
cpc stabilisce che la notificazione si considera fatta in mani proprie (salvo quanto detto
sopra, non si applica in caso di consegna fuori dal tempo stabilito dal codice di rito ore
07:00/21:00).
Competerà all’ufficiale giudiziario ricercare dapprima presso l’abitazione del destinatario e
solo laddove non sia possibile o il destinatario stesso non venga rinvenuto, potrà eseguire la
notificazione ovunque lo trovi. L’art 138.1 cpc deve essere coordinato al disposto dell’art
139 cpc nel senso che, in forza del primo, la notificazione può essere effettuata nelle mani
proprie del destinatario, per l’art. 139 è sufficiente che venga rintracciato anche un uno dei
luoghi dove si dovrebbe svolgere la sua vita e la sua attività (casa di abitazione, ufficio o
locali dell’azienda, disposti dalla legge, alternativamente) perché diventi possibile
l’esecuzione della notificazione attraverso consegna della copia ad altri soggetti.
MODI DI INDIVIDUAZIONE DEL DESTINATARIO.
I criteri stabiliti dalla legge per poter individuare il soggetto al quale consegnare la copia
dell’atto si possono così riassumere:
A. l’art 141 cpc si presenta come norma speciale il cui ambito di applicabilità è limitato agli
atti del processo civile (rispetto alla norma generale dell’art 47 cc rubricato, appunto,
“elezione di domicilio” stabilendo: si può eleggere domicilio speciale per determinati atti
o affari. Questa elezione deve farsi espressamente per iscritto”). Dunque l’elezione di
domicilio speciale per determinati affari e la specialità della norma appare in continuità
della natura dell’affare che in realtà è una controversia giudiziaria. Dall’art 141 cpc si
evince la facoltà, legittima, di elezione di domicilio, la quale però diventa obbligatoria se
tale elezione è inserita in un contratto e che l’obbligatorietà di tale notifica sia
espressamente “dichiarata”;
B. nell’ipotesi in cui non fosse eletto, volontariamente, un domicilio si fa ricorso ai criteri
legali che impongono tre condizioni per l’individuazione:
1. la prima condizione impone che il consegnatario venga ricercato nella sede del
destinatario, sede che il soggetto istante ha l’onere di indicare (l’ordine da seguire per
la ricerca: residenza, dimora e, in ultimo, domicilio; essi sono alternativi rispetto alla
casa di abitazione ed ai luoghi in cui il destinatario ha l’ufficio o esercita l’industria o
il commercio. La notificazione può essere effettuata nel territorio del comune di
dimora del destinatario, solo laddove fosse ignoto il comune di residenza, in ultimo
sarà operata nel comune di domicilio qualora fossero ignoti sia residenza che dimora.
Tale alternatività soggiace al mancato reperimento di quelli che sono i luoghi deputati
per il ricevimento dell’atto da notificare;
2. la seconda condizione si determina mediante l’individuazione, dei luoghi sopra
indicati, di una persona che si trovi in un rapporto determinato con il destinatario,
con riferimento a tre categorie di soggetti:
persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio, o all’azienda;
portiere dello stabile, anche se condominiale, dove sono situati l’abitazione,
l’ufficio o l’azienda;
vicino di casa.
3. la terza condizione è che vengano predisposte due garanzie prevista dal codice di rito
a favore del destinatario nelle ipotesi in cui l’atto fosse consegnato al portiere o al
vicino:
sottoscrizione tali soggetti devono apporre non sull’originale ma su una apposita
ricevuta, se accettano di ricevere la copia;
invio al destinatario, nelle forme della corrispondenza raccomandata, di un avviso
contenente la comunicazione dell’avvenuta notifica. Tale momento è meramente
integrativo ed è irrilevante ai fini del perfezionamento della notificazione.
C. L’art 139.5 cpc e art 146 cpc prevede forme particolari per la consegna dell’atto per le
ipotesi in cui il destinatario si trovi in condizioni eccezionali (pensiamo chi vive
abitualmente a bordo di una nave mercantile, o essere militare in attività di servizio).
Nella prima ipotesi, art 139.5 cpc, è prevista una forma meramente facoltativa di
notificazione che individua tra i possibili consegnatari dell’atto diretto a chi vive
abitualmente a bordo di una nave mercantile: al capitano della nave o a chi ne fa le veci.
Nella seconda ipotesi, art 146 cpc, militari in attività di servizio (sia quelli in servizio
permanente in servizio, sia i militari in mobilitazione, i volontari, anche se caduti
prigionieri, e gli appartenenti ai corpi militarizzati di polizia), è prevista in questa ipotesi
una forma necessaria la quale prevede che le operazioni di notifica devono essere
integrate con la consegna di un ulteriore copia al PM che ne cura il recapito al
comandante del corpo al quale il militare appartiene.
IRREPERIBILITA’, INCAPACITA’ E RIFIUTO DEL CONSEGNATARIO.
Analizziamo il procedimento al verificarsi di due situazioni patologiche:
Irreperibilità: si verifica questa situazione allorquando, pur essendo noto il soggetto
destinatario della notificazione non si conoscono, però, residenza, domicilio e dimora. Si
deve trattare di ignoranza incolpevole non superabile con ricerche gravate sul soggetto
istante dalla normale diligenza ma quando questa persista (nell’impossibilità di
individuare un qualsiasi consegnatario) sarà sufficiente per la determinazione degli
effetti della notificazione, il compimento di una formalità essenziale: il deposito di una
copia dell’atto nella casa comunale dell’ultima residenza e, se ignota, in quella del
luogo di nascita del destinatario e, se ignoti entrambi, questa copia dell’atto deve
essere consegnata al PM ;
Incapacità: in questa situazione si conoscono residenza, domicilio e dimora del
destinatario ma si abbia difficoltà nell’individuare uno dei consegnatari previsti dall’art
139 cpc, effettuate le ricerche nessuno dei consegnatari trovati intende ricevere l’atto.
Pensiamo che l’unico consegnatario, rintracciato, sia minore di 14 anni o comunque
risulti incapace ictu oculi. Anche in questa circostanza è disposto il deposito di una
copia dell’atto nella casa comunale del luogo (nella species è noto) in cui la
notificazione deve eseguirsi e, essendo nota altresì la sede del destinatario (sia la casi
di abitazione, dell’azienda o dell’ufficio dove è stato cercato inutilmente il
consegnatario) l’ufficiale giudiziario dovrà affiggere alla porta di questa sede un
avviso (in busta chiusa) relativo al deposito della copia dell’atto e dovrà inviare al
destinatario altro avviso a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno;
in entrambe le situazioni, art 140 cpc: deposito di copia dell’atto, affissione dell’avviso
invio della comunicazione e deposito della copia dell’atto. L’art 143 cpc stabilisce che la
notificazione si ha per eseguita nel 21° giorno successivo a quello in cui sono compiute
le formalità prescritte, dunque con una proroga di 20 giorni di tutti gli effetti sostanziali e
processuali che si producono nei confronti del destinatario.
NOTIFICAZIONI AD UN ENTE COLLETTIVO, UNA PERSONA GIURIDICA,
UN’AMMINISTRAZIONE DELLO STATO.
Per le notificazioni da operane nei confronti di Enti collettivi privi di personalità giuridica e
Persone Giuridiche si applicano integralmente le disposizioni dell’art 141 cpc.
Apportata un’integrazione del 2005 con la legge 263 la quale prevede che oltre che alla
“persona addetta alla sede” è indicata, altresì, il portiere dello stabile in cui è la sede.
Se nell’atto viene indicata la persona fisica che rappresenta l’Ente e ne risulti specificata
residenza, domicilio e dimora abituale, la notifica potrà avvenire alternativamente e non in
via residuale (e dunque non condizionata all’esperimento del tentativo di notifica presso la
“sede” dell’ente). Tale regola si applica sia alle persone giuridiche sia alle società non aventi
personalità giuridica, alle associazioni non riconosciute ed ai comitati.
Per le notifiche alla persona fisica rappresentante dell’ente si applica la disposizione dell’art
140 cpc allorquando vi sia irreperibilità o rifiuto a ricevere l’atto, e si applicherà, altresì,
l’art 143 quando ne risultino sconosciuti la residenza, il domicilio o la dimora abituale.
Per le notificazioni all’Amministrazione dello Stato è coordinato da leggi speciali ed in
particolare dal T.U. sull’Avvocatura dello Stato. Sistema introdotto con l’entrata in vigore di
questa legge, appronta una forma di notificazione esclusiva presso un domiciliario ex lege.
Procedura che si sviluppa come segue: “la notificazione di qualunque atto processuale,
diretto all’amministrazione dello Stato, si effettua in persona del Ministro in carica
competente; la consegna deve essere effettuata, pena la nullità rilevabile ex officio , presso
l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto ha sede l’ufficio giudiziario o
l’arbitrato, innanzi al quale è portata la causa. L’eventuale errore sulla persona alla quale
deve essere indirizzato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima
udienza, con la contestuale indicazione della persona cui l’atto doveva essere diretto; una
volta proposta l’eccezione, il giudice fissa un termine per la rinnovazione dell’atto,
rinnovazione che produce i suoi effetti ex tunc ” .
GIURISDIZIONE
La giurisdizione (potere di decidere una determinata controversia), è la funzione esercitata
da organi dello Stato (i giudici) per applicare le norme, generali e astratte, ai singoli casi
concreti. È una funzione solo statale (non esiste ad esempio una giurisdizione regionale); ed
è esercitata in maniera pubblica ed autonoma (i giudici sono organi indipendenti dal potere
politico).
Per far valere un nostro diritto, dobbiamo innanzitutto stabilire se adire un giudice ordinario
(giudice civile o penale) o un giudice speciale (giudice amministrativo, Corte dei conti,
Corte costituzionale, ecc…).
GIURISDIZIONE ORDINARIA E SPECIALE
Ai sensi dell’art. 1 c.p.c., la giurisdizione civile (che è posta a tutela dei diritti soggettivi di
tutti i cittadini), è esercitata dai giudici ordinari, salvo diverse disposizioni di legge. Con
questa norma, che riprende il dettato dell'art. 102, comma primo, Cost. - “la funzione
giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme
sull’ordinamento giudiziario” - si dice in sostanza che, nel nostro ordinamento, i giudici
sono diversi, e che, quelli della cui attività si occupa il codice di procedura civile, sono
soltanto quelli ordinari (Giudice di Pace, Tribunale, Corte d’Appello, Corte di Cassazione).
Una prima distinzione è quella tra:
1. giurisdizione ordinaria: essa ha carattere generale, ossia riguarda le materie che la
legge non attribuisce espressamente ai giudici speciali;
2. giurisdizione speciale: essa è regolata da leggi, appunto, “speciali”, che le attribuiscono
la competenza a giudicare su determinati rapporti che in astratto spetterebbero al giudice
ordinario. La Costituzione stabilisce il divieto di istituire nuovi giudici speciali al di
fuori di quelli attualmente esistenti (art. 102, secondo comma). Tra i giudici speciali si
menzionano: Tribunale superiore delle acque pubbliche, Corte dei Conti, Tribunale
militare. Dai giudici speciali, bisogna differenziare le “sezioni specializzate” che
appartengono alla giurisdizione ordinaria e si occupano soltanto di certe materie e/o
soggetti (es. Tribunale dei minori, Sezione specializzate agrarie presso il Tribunale
ordinario e le Corti d’Appello). Rientrano nella giurisdizione speciale, anche i giudici
amministrativi, posti a tutela degli interessi legittimi del cittadino di fronte alla pubblica
amministrazione (i quali, di solito, trovano tutela attraverso un giudizio col quale i loro
titolari possono ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo che lede tali interessi,
con la conseguente possibilità di esercizio dell’azione risarcitoria). Nel rapporto tra
giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, si evidenzia come abbia
rilevanza, non tanto il fatto che parte in causa sia la pubblica amministrazione , quanto la
natura della causa stessa. Pertanto, qualora la p.a. con i suoi atti violi diritti soggettivi,
essa può essere convenuta davanti al giudice ordinario come qualsiasi altro soggetto
giuridico. Attualmente, la regola generale è nel senso che contro la p.a. i diritti soggettivi
possono essere fatti valere davanti al giudice ordinario. Mentre gli interessi legittimi
possono essere fatti valere davanti a giudici speciali, quali sono i giudici amministrativi:
in primo grado il Tribunale amministrativo regionale (T.A.R.), ed in secondo grado il
Consiglio di Stato.
GIURISDIZIONE ITALIANA E STRANIERA
Altra distinzione rilevante è tra la giurisdizione italiana e straniera. Tale rapporto è regolato
dalla legge 31 maggio 1995 n. 218 (che ha riformato il sistema italiano del diritto
internazionale privato), con cui sono stati abrogati gli artt. 2, 3, 4 e 37, comma 2, del cpc.
L’art. 2 c.p.c., sanciva “l’inderogabilità della giurisdizione italiana”; attualmente la legge n.
218, riconosce alle parti la possibilità di derogare la giurisdizione italiana in favore della
straniera, ponendo però due condizioni alla base di questa possibilità:
- una di forma, la deroga deve risultare da atto scritto;
- una di contenuto, la causa deve vertere su diritti disponibili.
L’art. 3 c.p.c. (abrogato dall’art. 7 della legga n. 218), dettava la c.d. “irrilevanza della
litispendenza straniera”, situazione che si verifica quando dinanzi al giudice italiano venga
instaurata una causa con oggetto e titolo uguali a quella già in corso davanti al giudice
straniero. Si rendeva, così, possibile lo svolgimento di due processi uguali con il pericolo di
giudicati contrastanti. Oggi, invece, la litispendenza è rilevante qualora una parte la
eccepisca innanzi ad un giudice italiano. Quest’ultimo dovrà sospendere il giudizio ove
ritenga che il provvedimento possa produrre effetti per l’ordinamento italiano.
IMP L’art 7 della legge 218/1995 attribuisce, appunto, al giudice italiano il potere di
sospendere il giudizio in corso innanzi a lui, allorquando sussistano le seguenti condizioni:
1. è necessario che sia eccepita da una delle parti la pendenza tra le stesse parti dinanzi ad
un giudice straniero di domanda avente il medesimo titolo, pendenza che si determina
secondo la legge dello Stato in cui il processo si svolge;
2. occorre che il giudice italiano sia stato adito successivamente e cioè quando la domanda
davanti al giudice straniero era già pendente;
3. bisogna che il giudice italiano ritenga che il provvedimento del giudice straniero possa
produrre effetto per l’ordinamento italiano. Dunque il giudice italiano valuterà se vi sono
concrete possibilità che il giudizio straniero, preventivamente instaurato, si concluderà
con un provvedimento che saà riconosciuto dal nostro ordinamento ai sensi dell’art 64
della legge 218/1995 rubricato “riconoscimento delle sentenze straniere”, infatti si
tratta di operare una sorta di giudizio prognostico concernente la futura riconoscibilità
della pronuncia straniera che verterà sui punti a, b, c ed f e non ai punti d e g i quali
presuppongono la già avvenuta pronuncia della sentenza.
Laddove sia disposta la sospensione, l’art 7 prevede espressamente due ipotesi di
prosecuzione del giudizio:
se il giudice straniero declina la propria giurisdizione;
se il provvedimento straniero non è riconosciuto dall’ordinamento italiano, il giudizio in
Italia prosegue, previa riassunzione ad istanza della parte interessata.
Anteriormente alla citata legge n. 218/95, ai fini della determinazione della giurisdizione
aveva rilevanza il luogo di cittadinanza del convenuto (soggetto passivo dell’azione, colui
contro cui l’azione è proposta); ossia il potere di giudicare su una determinata controversia
spettava al giudice italiano, soltanto nel caso in cui il convenuto avesse la “cittadinanza”
italiana. In seguito all’entrata in vigore di detta legge (che ha abrogato l’art. 4 c.p.c.),
invece, dal criterio della cittadinanza, si è passati al criterio del domicilio o della residenza
del convenuto. (“la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o
residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma
dell'art. 77 c.p.c. e degli altri casi in cui è prevista dalla legge”, art. 3 legge n. 218/1995). La
qualità di straniero ha perciò, nel nuovo sistema, un rilievo solo marginale e residuale.
A questa enunciazione di portata generale segue nello stesso art. 3, un esplicito richiamo ai
criteri stabiliti con riguardo all'ambito comunitario, dalla Convenzione di Bruxelles del 27
settembre 1968, con la conseguente applicazione dei suddetti criteri anche allorché il
convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di
materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione (materia civile e
commerciale), mentre rispetto alle altre materie, la giurisdizione sussiste anche in base a
criteri stabiliti per la competenza per territorio; ossia, in queste “altre materie”, la
giurisdizione sussiste in quanto sussiste la competenza per territorio.
La legge 218/95 stabilisce le regole speciali informate al favor jurisdictionis per l’esercizio
della giurisdizione italiana. Si tratta delle seguenti disposizioni:
art 9 in materia di giurisdizione volontaria;
art 22 in materia di scomparsa, assenza e morte presunta;
art 32 in materia di nullità, annullamento, separazione personale e scioglimento del
matrimonio;
art 37 in materia di filiazione;
art 40 in materia di adozione;
art 42 in materia di protezione dei minori;
art 44 in materia di protezione degli incapaci maggiori di età;
art 50 in materia successoria.
Momento determinante della giurisdizione
Criterio di ordine generale è quello enunciato dall’art. 5 c.p.c., secondo cui la giurisdizione
(come anche la competenza) si determinano con riguardo “alla legge vigente e allo stato di
fatto esistente al momento della proposizione della domanda”, restando senza conseguenze
gli eventuali mutamenti successivi (c.d. perpetuatio jurisdictionis). Non avendo, quindi,
alcuna rilevanza ai fini della determinazione della giurisdizione, i mutamenti che dovessero
intervenire nel corso del giudizio sia di fatto che di diritto.
LE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE. REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE
In relazione ai limiti della giurisdizione, possono sorgere questioni intorno alla sussistenza o
meno della giurisdizione rispetto ad una determinata controversia.
Il “difetto di giurisdizione”, consiste nella mancanza del potere di giudicare in capo al
giudice ordinario: tale difetto si ha quando la causa venga instaurata davanti al giudice
ordinario, ma in realtà doveva essere proposta al giudice amministrativo o al giudice
speciale. È un difetto talmente grave che può essere rilevato “anche d’ufficio” (ossia non
solo dalle parti ma anche dal giudice), in ogni stato e grado del processo (art. 37 c.p.c.).
Per risolvere tale difetto, la legge riconosce alle parti uno strumento che consiste nel
regolamento di giurisdizione, disciplinato dall’art. 41 c.p.c., ed imperniato sulla possibilità,
concessa a ciascuna delle parti, di sottoporre immediatamente alle Sezioni Unite della Corte
Cass., le questioni di giurisdizione di cui all’art. 37.
Esso consiste in un mezzo “preventivo”, e non di impugnazione. Preventivo in quanto
presuppone che il giudizio di merito sia ancora pendente e che non sia stata emanata
nessuna sentenza (difatti, l’art. 41, comma primo, stabilisce che il regolamento di
giurisdizione può essere proposto dalle parti fino a che la causa non sia decisa nel merito in
primo grado).
Prima della legge n. 353/90, l’art. 367 c.p.c. prevedeva l’automatica sospensione del
giudizio di merito in caso di esperimento del regolamento di giurisdizione. Attualmente, il
novellato testo del citato articolo, prevede la sospensione soltanto qualora il giudice
istruttore di merito non ritenga “l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione
della giurisdizione manifestamente infondata”. Lo scopo di tale modifica, è stato quello di
contrastare i numerosi abusi di detto istituto, con la proposizione di regolamenti infondati, al
solo reale scopo di provocare la sospensione del giudizio.
La proposizione dell’istanza di regolamento è soltanto una facoltà per le parti. Se essa non
viene esercitata, il processo prosegue normalmente e la pronuncia sulla giurisdizione
avverrà secondo le regole ordinarie e sarà assoggettata, eventualmente insieme con la
pronuncia sul merito, ai normali mezzi di impugnazione.
Una forma del tutto particolare di regolamento di giurisdizione è quella prevista dal secondo
comma dell’art. 41 (c.d. conflitto di attribuzione), che consente alla p.a. che non è parte in
causa, di rivolgersi alla Corte di cassazione a Sezioni Unite, affinché venga dichiarato il
difetto del giudice ordinario, in ogni stato e grado del giudizio, fino a che la giurisdizione
non venga affermata con una sentenza passata in giudicato. Tale comma prevede un’ipotesi
a parte nel caso in cui la p.a. non sia parte in causa, perché qualora dovesse essere parte del
giudizio, ad essa si applicherà il primo comma (ossia la stessa potrà proporre il regolamento
fino a che non sia pronunciata la sentenza di primo grado).
LA COMPETENZA
La competenza
La competenza può essere definita come la misura della giurisdizione spettante a ciascun
organo giudiziario, cioè la quantità di giurisdizione che egli può esercitare.
Anche con riguardo alla competenza, opera il sopracitato criterio generale della perpetuatio
jurisdictionis, già visto a proposito della giurisdizione, ossia la regola - enunciata dall’art. 5
c.p.c. - secondo cui si deve aver riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda.
I criteri di distribuzione della competenza
I criteri per la determinazione della competenza sono tre:
- valore: determinato dal valore economico della causa, così come indicato nella domanda;
- materia: determinato in relazione alla natura della causa o al tipo di diritto;
- territorio: determinato in base al rapporto tra territorio e giudice che ivi esercita la propria
giurisdizione.
Il valore e la materia sono dei criteri verticali, in quanto comportano la distribuzione delle
cause tra giudici che appartengono a diversi uffici giudiziari (Giudice di pace e Tribunale), il
territorio è un criterio orizzontale, in quanto comporta la distribuzione delle cause tra giudici
appartenenti allo stesso ufficio giudiziario ma dislocati lungo il territorio dello Stato (es.
Tribunale di Roma e Tribunale di Firenze).
La distribuzione delle cause avviene, in primo grado, tra il Giudice di pace (art. 7 c.p.c.), ed
il Tribunale (art. 9 c.p.c.). In precedenza la legge prevedeva anche la figura del Pretore,
soppressa dal d.lgs. n. 51/98, le cui funzioni sono passate al Tribunale in composizione
monocratica (ossia costituito da un unico membro).
Competenza per materia e per valore
Ai sensi del primo comma dell’art. 7, disciplinante la competenza del Giudice di pace,
questi è competente per le cause relative a beni mobili che abbiano un valore non superiore
ad euro 5.000,00 (la legge parla esplicitamente di beni mobili, poiché le questioni
riguardanti beni immobili, sono di competenza esclusiva del Tribunale).
L'art. 7, comma secondo, riserva al Giudice di pace le cause di risarcimento del danno
prodotto dalla circolazione di veicoli o di natanti (ovviamente nei confronti sia dei
danneggiati che delle società assicuratrici), nei limiti di euro 20.000,00 (oltre i quali la
competenza è del Tribunale).
Senza limiti di valore è invece l’attribuzione della competenza al Giudice di pace delle
cause nelle materie elencate nell’art. 7, terzo comma, e cioè:
quelle relative ad opposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla
legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi;
quelle relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case;
quelle relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione
in materia di immissione di fumo o di calore, esalazioni, rumori o scuotimenti che
superino la normale tollerabilità (rapporti di buon vicinato);
la legge 69/2009 ha attribuito al giudice di pace la competenza per le cause concernenti
agli interessi accessori ed assistenziali, precisando, con l’aggiunta di un 3° comma all’art
442 cpc, che per tali non si applica la disciplina delle controversie individuali di lavoro
né la disciplina delle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria .
La competenza del Tribunale è, invece, una competenza “residuale”; difatti ai sensi del 1°
comma art. 9 c.p.c., il Tribunale è competente per tutte le cause che non sono di competenza
di altro giudice (attualmente il solo Giudice di pace).
Il secondo comma dell’art. 9, stabilisce, inoltre, dei casi di competenza esclusiva del
Tribunale: in materia di imposte e tasse, stato e capacità delle persone, diritti onorifici,
querela di falso, per l'esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore
indeterminabile. Il concetto di indeterminabilità del valore della causa esprime la specifica
inidoneità dell’oggetto della lite ad essere tradotto in termini monetari; dunque se la parte
non provvede alla determinazione in concreto del valore della controversia, se l’oggetto è
comunque suscettibile di valutazione economica, non si può parlare di indeterminabilità.
Fuori dai casi generali previsti dall’art 9 cpc, spetta alla controversia del tribunale ratione
materiae nei seguenti casi:
1. le controversie in materia di lavoro (art 423 cpc) e di previdenza ed assistenza
obbligatoria (art 444 cpc);
2. i procedimenti di repressione della condotta antisindacale legge 300/1970) e delle attività
discriminatorie tra uomini e donne nell’accesso al lavoro (legge 903/1977);
3. i procedimenti della convalida di sfratto e di licenza per finita locazione (art 661 cpc);
4. i procedimenti cautelali (art 669 ter cpc);
5. le controversie attribuite alla competenza per materia del pretore prima della
soppressione dell’ufficio (dlgs 51/1998), quali le controversie locatizie, le azioni
possessorie e le denuncie di nuova opera e di danno temuto.
Per quanto riguarda il Tribunale dobbiamo ricordare che questo di norma svolge le sue
funzioni in composizione monocratica, ma nei casi previsti dall’art. 50 bis c.p.c. la
composizione del tribunale sarà necessariamente collegiale.
DETERMINAZIONE DEL VALORE
L’art. 10 c.p.c., stabilisce, al primo comma, che il valore della causa si determina in base
alla domanda dell’attore. Tale regola generale impone all’interprete (il giudice) di avere
riguardo al contenuto della domanda al momento della sua proposizione.
La determinazione del valore, indicata ab initio dalla parte e desumibile dalla domanda
stessa, non vincola nel merito il giudice, chiamato ad accertare l’effettivo valore
dell’oggetto della lite, nella prospettiva della decisione della causa. Dunque ciò che conta ai
fini della competenza è il quid disputandum e non il quid decisum.
Sovente la domanda presenta un contenuto oggettivamente e soggettivamente semplice,
vale a dire che indica un solo oggetto ed una sola parte. Talune volte questa domanda si
presenta oggettivamente e soggettivamente complessa. Analizziamo:
A. da un punto di vista oggettivo può accadere che vengano proposte più domande verso la
stessa persona e nello stesso processo, in questa ipotesi, ai fini della competenza, le
domande si sommano (addizionandosi il loro valore) in base a quanto stabilito dall’art
10.2 cpc (cd CUMULO OGGETTIVO). Ai fini della competenza per valore, le domande
proposte dal creditore contro il debitore, di risarcimento dei danni già maturati, di
pagamento degli interessi scaduti, nonché di rimborso di tutte le spese sostenute al
momento della proposizione della domanda, si sommano tutte con la domanda per il
pagamento della sorte capitale;
B. da un punto di vista soggettivo può accadere che più domande fondate sullo stesso titolo
(legate da una connessione oggettiva) possono essere avanzate nello stesso processo
dall’attore contro più convenuti, o da più attori contro un convenuto o da più attori
contro più convenuti. Ci troviamo nell’ambito del cd CUMULO SOGGETTIVO, in tale
ambito manca un principio generale che determini la sommatoria tra le singole domande
ai fini della competenza per valore (anche se la linea che gli studiosi tendono a seguire è
quella di escludere la sommatoria tra domande soggettivamente cumulate). Vi sono
alcune disposizioni speciali che prevedono, per determinati rapporti, più domande
cumulate soggettivamente possano sommarsi ai fini della competenza. Ne è un esempio
l’art 11 cpc secondo il quale, se viene chiesto da più persone o contro più persone,
l’adempimento di quote di un’unica obbligazione, il valore della controversia è
determinato dall’intera obbligazione.
Dunque il presupposto per dar vita alla sommatoria tra più domande (ai fini della
competenza) è che esse siano cumulativamente accolte dal giudice (discrezionalmente? O lo
stesso giudice valuta se tali domande siano fisiologicamente cumulabili? O segue un altro
criterio?). A te proposito si possono verificare diverse situazioni:
cumulo semplice: quando la parte chiede al giudice di accogliere ognuna della domande
proposte, indipendentemente dalla decisione delle altre o quando la richiesta di
pronuncia su una domanda, contestuale, è condizionata al previo accoglimento di
un’altra domanda, cumulativamente proposta (cumulo condizionale consequenziale: ad
esempio l’attore chiede la risoluzione del contratto per inadempimento, e
conseguentemente, la restituzione delle somme versate);
cumulo alternativo, oggettivo o soggettivo: non può darsi luogo a sommatoria, ai fini
della determinazione della competenza per valore, allorquando si chieda al giudice di
accogliere una soltanto delle domande alternativamente proposte contro la stessa parte o
contro parti diverse (ad esempio: l’attore chiede, alternativamente, l’adempimento della
prestazione o l’annullamento del contratto);
cumulo condizionale alternativo: non può darsi luogo a sommatoria, ai fini della
determinazione della competenza per valore, neanche nell’ipotesi in cui la richiesta di
pronuncia su una domanda, subordinata, è condizionata al previo rigetto di un’altra
domanda cumulativamente proposta (esempio: l’attore chiede al giudice di emettere una
sentenza di accertamento dell’esistenza di servitù e, in caso di rigetto, una pronuncia
costitutiva di servitù necessaria).
Principio molto importante, in questo conteso, è quello sancito dall’art 5 cpc e cioè il cd
PERPETUATIO COMPETENTIAE, esso comporta l’irrilevanza delle variazioni di valore
della domanda, quando traducano l’effetto di modificazioni della legge o dello stato di fatto
esistente, rispetto al momento di proposizione della domanda. Dunque non rileva, ai fini
della competenza per valore, in corso di causa, della somma di danaro oggetto della
domanda, ove dipenda dalla variazione del rapporto di cambio tra diverse valute, come non
rileva l’incremento degli accessori del credito (esempio: interessi, svalutazione, danni)
richiesti con la domanda di pagamento unitamente alla sorte capitale.
La competenza, invece, può cambiare in conseguenza della modificazione della domanda ad
opera della stessa parte. Da distinguere quando il valore della domanda aumenta dal valore
della domanda che diminuisce:
1. se l’incremento del valore legato alla modificazione della domanda determina il
superamento del limite massimo di competenza del giudice adito (il giudice di pace), la
variazione pesa a tal punto da determinare la sopravvenuta incompetenza; ciò avviene
perché la parte non sarebbe tutelata appieno;
2. la riduzione del valore della domanda, al di sotto della soglia minima di valore per il
quale ha competenza il giudice adito, no è rilevante la sopravvenuta incompetenza del
giudice superiore (tribunale); questo perché il giudice superiore adito potrebbe
comunque attribuire incondizionatamente alla parte quanto ha richiesto.
L’art 12 cpc rubricato “cause relative a rapporti obbligatori, a locazioni ed a divisioni”
stabilisce che il valore delle cause relative all’esistenza, alla validità o alla risoluzione di un
rapporto obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione.
Il comma 2° dello stesso articolo del cpc indica una seconda regola per le cause relative alla
divisione, il cui valore si determina in base al valore della massa da dividere.
L’art. 13 cpc indica i criteri per individuare il valore delle cause concernenti le prestazioni
alimentari e rendite;
l’art 14 cpc indica i criteri per individuare il valore delle cause relative a somme di danaro
ed a beni mobili;
l’art 15 cpc indica i criteri per individuare il valore delle cause concernenti beni immobili.
Analizzando con più attenzione l’art 14 cpc rubricato “cause relative a somme di danaro ed
a beni mobili” si stabilisce che, per queste cause, il valore della controversia si determina in
base alla somma indicata o al valore indicato dall’attore. In mancanza di indicazione o
dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito.
Nell’ipotesi in cui l’oggetto della causa fosse una somma di danaro, il convenuto non può
contestare, ai fini della competenza, la dichiarazione di valore operata dall’attore. Il valore
si identifica in base alla somma indicata dallo stesso attore ed ogni contestazione al
riguardo, da parte del convenuto, incide direttamente sul merito della lite. Infatti se la
dichiarazione di valore operata dall’attore risulta esorbitante, la connessa richiesta della
somma di danaro risulta di conseguenza infondata e meritevole di rigetto nel merito.
Se pensiamo ad una causa di rivendicazione di un bene mobile, sarà irrilevante per il merito
una eventuale contestazione promossa dal convenuto contro la dichiarazione di valore
operata dall’attore sul quel bene, poiché per il giudice sarà importante che l’attore stesso
vanti un titolo di proprietà di quel bene mobile, infatti la dichiarazione di valore sarà
rilevante solo ai fini della competenza. Dunque se alla dichiarazione di valore da parte
dell’attore non segue una contestazione dello stesso da parte del convenuto, tale
dichiarazione di valore (dichiarato o presunto) rimane fissato nei limiti della competenza del
giudice adito, anche agli effetti del merito.
LA COMPETENZA PER TERRITORIO (cd competenza orizzontale)
Una volta risolto il problema di individuare la competenza cd verticale in base al valore ed
alla materia, ora è importante analizzare l’individuazione della competenza cd orizzontale
che ci conduce alla scelta del singolo ufficio giudiziale: giudice di pace, tribunale o corte
d’appello dislocati in tutto il territorio nazionale e che sono chiamati a derimere le
controversie insorte tra le parti.
I criteri che sono disposti per l’individuazione del giudice competente (in modo verticale)
sono inderogabili tra le parti; mentre per la scelta del giudice competente (in modo
orizzontale) il legislatore ha tenuto conto dell’interesse delle parti in questa scelta
dell’ufficio giudiziario situato nel luogo più prossimo alla loro residenza o sede al fine di
permettere loro di esercitare, senza particolare disagio, il proprio diritto di difesa
introducendo una regola della derogabilità della competenza per territorio, salvi alcuni casi
esplicitamente indicati.
In questa regola si evince che il legislatore tra i due interessi delle parti in causa si è
espresso in favore del convenuto; infatti l’attore che promuove la causa ha, di gran lunga,
più tempo a disposizione per preparare la propri offensiva giudiziaria, mentre il convenuto
ha un tempo decisamente più limitato per difendersi, pertanto il legislatore ha ritenuto
preferibile non costringerlo a gravosi spostamenti territoriali.
Importante distinzione da fare è quella che intercorre tra:
fori generali (artt 18 cpc “per le persone fisiche” e 19 cpc “per le persone giuridiche, per
le associazioni non riconosciute, e le società prive di personalità giuridica);
fori speciali che si dividono in fori facoltativi (art 20 e art 30 cpc) e esclusivi (artt
21,22,23,24,25,26 e 27 cpc). In tale ambito le parti possono, concordatamene, derogarvi
e tale violazione non sarebbe rilevabile d’ufficio.
Il foro speciale facoltativo è indicato dall’art 20 cpc per le cause relative a diritto di
obbligazione, rispetto alle quali è anche competente il giudice del luogo dove è sorta o dove
deve essere eseguita l’obbligazione. Dunque la norma indica i due fori speciali concorrenti,
alternativi tra loro, oltre che alternativi al foro generale.
L’art 30 cpc attribuisce all’attore la facoltà di citare il convenuto, oltre che nel foro
competente secondo la natura del rapporto, anche davanti al giudice del luogo nel quale ha
eletto il domicilio. Infatti il foro del domicilio eletto è normalmente facoltativo, con la
caratteristica che ci troviamo dinanzi ad un foro creato ad hoc tra le parti (facoltizzati,
comunque dalla legge). Le parti, o una sola, comunque saranno chiamati ad indicare la
causa dinanzi al giudice scelto in deroga ai fori ordinari perché il carattere facoltativo del
foro del domicilio eletto non rappresenta un elemento fisiologico o necessario, potendo le
parti attribuirvi natura obbligatoria ed esclusiva in base all’art 29.2 cpc.
Il foro speciale esclusivo preclude all’attore la possibilità di instaurare ritualmente la causa
di fronte al giudice che sarebbe competente in base agli artt 18 e 19 cpc e cioè in base al
foro generale.
I FORI GENERALI
Art 18 cpc convenuta persona fisica e art 19 cpc convenuta persona giudica (o ente privo di
personalità giuridica), entrambi gli articoli prevedono il ricorso al foro generale.
Secondo l’art 18 cpc è territorialmente competente il giudice del luogo in cui il convenuto
persona fisica ha la propria residenza, o in via alternativa e concorrente, il proprio domicilio.
In via sussidiaria, laddove fossero sconosciuti entrambi, è competente il giudice del luogo
ove lo stesso convenuto ha la propria dimora. Nell’ipotesi in cui fossero sconosciuti tutti i
recapiti del convenuto (residenza, domicilio e dimora) o avesse dimora all’estero l’attore
potrà ritualmente instaurare la causa dinanzi al giudice del luogo di propria residenza che
sarà, in questo caso, territorialmente competente.
Secondo l’art 19 cpc è territorialmente competente il giudice del luogo ove la persona
giuridica (convenuto) ha la propria sede o, in via alternativa e concorrente, uno stabilimento
od un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda. Per gli enti
privi di personalità giuridica è territorialmente competente il giudice del luogo in cui tali
soggetti svolgono la propria attività in modo continuativo. Malgrado la legge non lo
disponga espressamente, ma laddove fossero sconosciuti tutti i luoghi sopra citati o la sede
di questi enti fossero all’estero, si applicherà in via residuale il disposto dell’art 18.2 cpc
competente sarà il giudice del luogo in cui l’attore ha la residenza o sede.
FORI SPECIALI
Importante distinguere tra:
fori speciali facoltativi e concorrenti: art 20 cpc “per le cause relative ai diritti di
obbligazioni” è competente il giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione o il foro del
luogo in cui la stessa deve essere adempiuta. Il carattere facoltativo di questo foro,
Colui che agisce in giudizio in merito ai diritti di obbligazione, ha facolt? di scelta, alternativamente, tra il foro generale (artt 18 e 19 cpc) e il foro speciale (art 20 cpc) e nell'ambito di quest'ultimo, potr? scegliere tra il luogo in cui ? sorta l'obbligazione e quello in cui la stessa deve essere eseguita.
concorrente con il foro generale artt 18 e 19 cpc, stabilisce che per le cause relative ai
diritti di obbligazioni sono “anche” competenti i giudici dei luoghi indicati. In ambito di
obbligazioni dobbiamo operare una distinzione tra:
A. individuazione in cui sorge l’obbligazione:
I.obbligazioni contrattuali: il forum contractus coincide con il luogo di conclusione
del contratto;
II. obbligazioni derivanti da lodo irritale: la giurisprudenza ritiene che il giudice
territorialmente competente, in via facoltativa rispetto ai fori concorrenti, sia il
giudice del luogo in cui viene conclusa la convenzione per arbitrato libero e non il
giudice del luogo in cui viene pronunciato il lodo irritale;
III. obbligazioni extracontrattuali da fatto illecito: il foro facoltativo in esame è
quello del luogo in cui avviene il fatto produttivo del danno, ma spesso la
giurisprudenza ha ribadito che se l’evento dannoso si consuma altrove, rispetto al
luogo in cui avviene il fatto causativo, è competente per territorio il giudice del
luogo in cui si verifica il danno;
B. il luogo in cui deve essere adempiuta l’obbligazione, se le parti non hanno
convenuto nulla a riguardo:
i. la consegna di cosa certa e determinata: avviene nel luogo in cui la cosa si trovava
quando l’obbligazione è sorta;
ii. l’adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto una somma di danaro va
effettuata presso il domicilio del creditore;
iii. tutte le altre obbligazioni vanno eseguite presso il domicilio del convenuto.
(una deroga alla disciplina civilistica in ambito di adempimento di obbligazioni, ci viene dal
regime speciale che regola l’adempimento di obbligazioni in danaro di enti pubblici non
economici, ai fini della competenza territoriale è il luogo in cui è situato il servizio di
tesoreria o di cassa dell’ente debitore e non il domicilio del creditore, come nel caso delle
norme generali).
Dunque la parte che assume l’iniziativa processuale ed il convenuto si limita a prendere atto,
perché ciascun giudice adito ai sensi dell’art 20 cpc è territorialmente competente a decidere
in merito alla causa
fori speciali esclusivi: cioè quelli relativi le persone fisiche o giuridiche , delle
associazioni non riconosciute, sono elencati dagli art 21 all’art 27 cpc. Questi fori
prevalgono sui fori generali. Dunque nei casi stabiliti dai su indicati articoli il foro
generale è incompetente. Di seguito l’elenco dei fori speciali esclusivi:
è competente il giudice del luogo dove è posto l’immobile o l’azienda, per le azioni
possessorie e per la denuncia di nuova opera e di danno temuto è competente il
giudice del luogo dove è avvenuto il fatto denunciato:
a) cause concernenti diritti reali su beni immobili;
b) cause in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende;
c) cause relative all’apposizione di termini ed osservanza delle distanze nel
piantamento di alberi e delle siepi.
L’art 21 cpc NON si applica a tutte quelle cause nelle quali la controversia, anche se
riguarda un bene immobile, quando ha natura personale, fondandosi su un rapporto
giuridico obbligatorio (esempio: l’azione di restituzione di un immobile per nullità del
contratto traslativo sottostante). Tale articolo NON si applica nemmeno alle cause
concernenti ai beni mobili registrati, mentre si ritiene che si possa applicare alle cause
concernenti le cd res incorporales. Se l’immobile è compreso fra più circoscrizioni
giudiziarie, la norma prevede che sia competente il giudice della circoscrizione in cui si
trova la parte di immobile soggetta a maggior tributo verso lo Stato (anche se la riforma
tributaria ha detronizzato questa disposizione stabilendo che l’immobile che si trova in
più circoscrizioni, nell’ipotesi di controversia, sarà comunque territorialmente
competente il giudice del luogo ove si trova l’immobile);
per le cause ereditarie è competente il giudice del luogo dell’apertura della
successione o l’ultimo domicilio del defunto. Per queste cause ereditarie è esclusivo
(e prevale sul foro generale) ma derogabile su concorde volontà delle parti. NB la
deroga per i soli motivi di connessione soggettiva non è consentita;
per le cause tra soci è competente il giudice del luogo in cui ha sede la società. Il
rapporto concerne solo quello tra soci (e dunque non si applica ad ogni lite di ogni
natura);
per le cause tra condomini sarà competente il giudice del luogo in cui si trovano i
beni comuni o la maggior parte di essi. Norma che si applica solo a coloro che sono
meramente condomini;
per le cause concernenti alle gestioni tutelari e patrimoniali è competente il giudice
del luogo di esercizio della tutela o dell’amministrazione generale; (tutela dei minori,
degli interdetti, delle amministrazioni conferite per legge aventi ad oggetto beni
dell’assente, del fondo patrimoniale dei coniugi, dei beni della comunione,
dell’eredità giacente, ecc.;
per la cause in cui è parte l’amministrazione dello Stato è competente il tribunale,
tranne le cause ereditarie ed i procedimenti esecutivi e fallimentari, è previsto un
trattamento preferenziale a favore dell’amministrazione statale mediante la
disposizione di un Foro erariale (cd forum fisci) che determina uno spostamento ed
una sostanziale modifica delle regole ordinarie di competenza territoriale,
nell’interesse e per la qualifica della pubblica amministrazione. La P.A. è difesa in
giudizio dall’Avvocatura dello Stato ed in ogni città capoluogo di distretto di corte
d’appello, esiste un Ufficio dell’Avvocatura dello Stato, la cui competenza territoriale
coincide con il distratto di corte d’appello. Per individuare il giudice competente per
le cause in cui è parte l’Amministrazione dello Stato (art 25 cpc) procedere per tappe:
individuare il giudice secondo le regole ordinarie;
individuare nell’ambito di tale distretto di corte d’appello in cui questo giudice si
trova;
in quale luogo ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato.
In ragione della qualità di parte attrice, cioè di essere una Amministrazione dello Stato, si
verifica uno spostamento della competenza territoriale dal tribunale che sarebbe competente
secondo le regole ordinarie al tribunale del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura
dello Stato dello stesso distretto di Corte d’appello.
Allorquando, invece, l’Amministrazione dello Stato è convenuta diventa esclusivo ed
inderogabile il cd forum obbligationis nonché quello del giudice in cui si trova la cosa
mobile o immobile oggetto della domanda.
FORO PER L’ESECUZIONE FORZATA E PER LE OPPOSIZIONI
ALL’ESECUZIONE.
L’art 26 cpc indica quale è il foro competente nelle ipotesi di esecuzione forzata, quando
essa concerne:
cose mobili : è competente il giudice del luogo in cui le cose mobili si trovano;
cose immobili : se queste sono soggette all’esecuzione non sono intermante comprese
nella circoscrizione di un solo tribunale, si applica l’art 21 cpc;
espropriazione forzata di crediti : è competente il giudice del luogo in cui risiede il terzo
debitore;
se si pignorano beni mobili del debitore verso il terzo : è competente il giudice del luogo
in cui si trova la cosa mobile da assoggettare all’esecuzione;
obblighi di fare e non fare : è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere
adempiuto.
L’art 27 cpc indica l’individuazione del giudice territorialmente competente per le cause di
opposizione all’esecuzione.LA COMPETENZA IN MATERIA ESECUTIVA E’ RISERVATA IN VIA ESCLUSIVA AL TRIBUNALE
Per regola generale la competenza territoriale per le sopraccitate opposizioni spetta sempre
al giudice per l’esecuzione, individuato dalla norma 26 cpc. Esiste un’eccezione prevista
dall’art 27.1 cpc che richiama la disposizione dell’art 480.3 cpc il quale prevede che se il
creditore non inserisce nell’atto di precetto la dichiarazione di residenza o l’elezione del
domicilio “nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione” non
individuando in questo modo il giudice competente, l’opposizione a precetto si propone al
giudice del luogo in cui lo stesso precetto è stato notificato.
DEROGABILITA’ DELLA COMPETENZA TERRITORIALE.
Ulteriore distinzione all’interno del foro territoriale è quella tra foro derogabile ed
inderogabile.
La competenza per territorio, al di fuori dei casi previsti dalla legge, può essere derogata
dalle parti mediante un atto scritto, anche se prima di tale deroga deve essere eletto un
domicilio speciale per determinati atti o affari a norma dell’art 47 cc (che richiede per
l’appunto l’atto scritto). Dunque tale elezione incide sulla competenza territoriale
determinando la creazione volontaria di un foro facoltativo che consente, appunto, alle parti
una deroga alla competenza territoriale. Una parte che intende citare colui che ha eletto il
domicilio speciale non è vincolato al tale foro, ma questo foro rimane concorrente a quelli
previsti dalle regole generali. La deroga può risultare o da un accordo anteriore al processo,
oppure da un accordo successivo all’inizio del processo prevedendo da questo accordo
scritto che quel foro venga inteso come obbligatorio.
I casi in cui la deroga non è ammissibile, sono elencati nell’art. 28:
1) nelle cause previste nei numeri 1, 2, 3 e 5 dell’art. 70, ossia nei casi di intervento
obbligatorio del pubblico ministero;
2) nei processi di esecuzione forzata e di opposizione alla stessa;
3) nei procedimenti cautelari e possessori;
4) nei procedimenti in camera di consiglio;
5) e in generale in ogni altro caso in cui l’inderogabilità sia disposta espressamente
dalla legge (es. foro in cui parte è la p.a., art. 25 c.p.c.).
MODIFICAZIONI DELLA COMPETENZA
Modificazioni della competenza per la qualità di parte.
Quanto già detto dell’art 25 cpc in materia di competenza del giudice che deve essere adito
nel caso in cui parte del processo fosse un’Amministrazione dello Stato, analizziamo, a
completamento del tale discorso e in ottemperanza a questo, l’individuazione del giudice
competente nelle ipotesi in cui parte del processo fosse un magistrato togato od onorario.
La legge 420/1998 ha introdotto l’art 30 bis cpc il quale stabilisce che “le cause in cui siano
parti i magistrati, sono di competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto del
corte d’appello in cui il magistrato esercita le sue funzioni, sono di competenza del giudice,
ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte
d’appello determinato ai sensi dell’art 11 cpp”. Dunque con il nuovo articolo si abbandona
il criterio del capoluogo del distretto di corte d’appello con il criterio di rinvio ad una
tabella definita dal legislatore (così stabilito si evita una competenza incrociata o reciproca).
L’art 30 bis è applicabile esclusivamente alle azioni civili concernenti le:
restituzioni e risarcimento del danno da reato (di cui è parte un magistrato); ad eccezione
dei processi di esecuzione forzata.
Modificazioni della competenza per ragioni di connessione.
Il codice disciplina delle ipotesi particolari di connessione - disciplinate dagli artt. 31 al 36 -
a causa delle quali si potrebbero verificare degli spostamenti della competenza. Gli artt. 31,
32 e 33 dispongono lo spostamento della competenza “originario”.
Dunque quanto stabilito da questi articoli è quello di attribuire allo stesso giudice il potere di
giudicare su più cause le quali si trovano in un rapporto per cui dalla connessione delle
singole vicende del diritto sostanziale ne discende la necessità ed, altresì, la convenienza
dello svolgimento di un unico giudizio (se non per una questione di efficienza e speditezza,
quantomeno per ragioni di economia processuale). Infatti a riprova dell’ultima affermazione
il simultaneus processus determina, oltre ad un risparmio generale, altresì che si eviti la
sospensione necessaria della causa accessoria dipendente sino al passaggio in giudicato
della pronuncia della causa principale pregiudiziale.
Tale spostamento si concreta per la competenza orizzontale, cioè quella per territorio, a
favore del giudice per la causa principale, perciò il giudice territorialmente competente per
la causa principale è, altresì, competente per la causa accessoria.
(imp pensiamo a due domande che rientrano nella competenza per valore del giudice di
pace si applica, proprio per la relatio presente nell’art 31 cpc, la regola generale del
cumulo della domanda principale e della domanda accessoria – art 10.2 cpc – con possibile
attribuzione della competenza per valore al tribunale).
Il riverbero di questa connessione è uno spostamento della competenza, con annessa
sottrazione della controversia al giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie
e la sua devoluzione ad un altro giudice, con deroga della competenza per territorio ed
eventualmente a quella per valore e alla competenza per materia, ma NON a quella
funzionale.
Di seguito le regole mediante le quali si realizza lo spostamento della competenza per
ragioni di connessione:
CAUSE ACCESSORIE: L’accessorietà è il rapporto che intercorre tra due cause
connesse oggettivamente (ma anche soggettivamente), nel senso che la decisione su una
di esse (quella c.d. accessoria) dipende dalla decisione sull’altra (quella c.d. principale).
Di seguito diversi esempi:
l’accoglimento della domanda di pagamento degli interessi dipende
dall’accoglimento della domanda di restituzione di una somma data a mutuo:
perciò la prima è accessoria rispetto alla seconda. In questi casi l’art. 31 c.p.c
prevede che la competenza territoriale possa modificarsi, difatti, la causa
accessoria può essere proposta davanti al giudice territorialmente competente per
la principale;
la domanda di danni rispetto alla domanda di reintegrazione nella proprietà;
la richiesta di alimenti rispetto alla domanda di reclamo dello stato di figlio
legittimo;
CAUSE DI GARANZIA: è necessario operare una distinzione tra:
Garanzia propria , è quella che trae origine da un unico titolo, fonte di obbligo di
garanzia legale o contrattuale, esempi:
garanzia per evizione;
garanzia del debitore principale verso il fideiussore, esercitatile con
l’azione di regresso;
garanzia tra condebitori solidali, esercitatile con l’azione di regresso da
parte del debitore che ha pagato il debito nei confronti dei condebitori;
garanzia dell’assicuratore verso l’assicurato;
garanzia nei confronti dell’appaltatore.
Garanzia impropria , vi sono due fatti distinti, con una connessione causale e si
deve trattare di due rapporti distinti ed automi, come ad esempio nell’ipotesi del
venditore inadempiente, che chiama in causa il terzo che ha provocato
l’inadempimento. Ci potremmo trovare dinanzi, quindi, ad un rapporto
contrattuale tra venditore e compratore e di responsabilità extracontrattuale (o
aquiliana) nel rapporto tra venditore e terzo, come nel caso di chiamata in causa
del terzo che ha causato un incidente nel quale è perita la merce che il venditore
doveva consegnare al compratore, con conseguente inadempimento del contratto
di compravendita. L’art 32 cpc prevede solo la garanzia propria, per cui consente
lo spostamento della competenza per agevolare e realizzare l’unicità del giudizio
sulla domanda principale e su quella di garanzia. Tale spostamento si concreta per
la competenza orizzontale (territorio) per cui il giudice territorialmente
competente per la causa principale sarà competente anche per la causa di
garanzia. In merito alla competenza verticale (materia e valore) il combinato
disposto dagli art 32 e 40 commi 6 e 7 cpc, deve intendersi che se una delle due
domande connesse per garanzia è di competenza del tribunale (il quale è
competente a giudicarle entrambe, in deroga alla competenza verticale del giudice
di pace); se invece le domande rientrano entrambe nella competenza per valore
del giudice di pace, non trovando applicazione l’art 10.2 cpc, il loro valore non
deve essere sommato. Come già accennato, l’art 32 cpc NON tratta le cause
improprie, pertanto la trattazione congiunta di entrambe le cause, mediante la
riunione o la chiamata in causa del terzo, è possibile solamente laddove le stesse
rientrassero nella competenza dello stesso giudice;
Connessione oggettiva, art 33 cpc permette di creare un litisconsorzio tra più
soggetti, ma tale possibilità soggiace al fatto che vi deve essere connessione tra i
rapporti di cui essi sono titolari. Si ha riguardo ad una connessione in senso
proprio e dunque per l’oggetto o per il titolo. Distinguiamo:
per l’oggetto: la connessione per l’oggetto si potrà avere quando venga
richiesto lo stesso bene nei confronti di più persone;
per titolo: si potrà avere connessione per titolo quando sia unico il fatto
costitutivo della domanda proposta contro più persone.
Dunque la conseguenza oggettiva di tale connessione, è lo spostamento originario
della competenza territoriale a favore del luogo di residenza o di domicilio di una
della parti. Le cause che sono legate da un rapporto di connessione propria e che
dovrebbero essere proposte dinanzi a giudici diversi, potranno, in applicazione
delle regole degli artt 18 e 19 cpc (dunque in base alla residenza, domicilio e
dimora dei vari convenuti – con esclusione delle regole poste dai cd fori speciali)
essere disposte in un unico processo da instaurare davanti allo stesso giudice del
luogo di residenza o di domicilio di uno dei convenuti. ( N.B. nessuna influenza
ha questo tipo di connessione di cause di competenza verticale, che dovrà essere
determinata in base all’oggetto della causa);
Connessione per pregiudizialità , disciplinata dall’art 34 cpc, le questioni
pregiudiziali sono, di regola, risolte dal giudice incidenter tantum e senza
efficacia di giudicato autonomo; il giudice deciderà con efficacia di giudicato
allorquando sarà la legge che disporrà in tal senso oppure saranno le parti che lo
avranno espressamente richiesto. Le disposizioni dell’art 34 cpc vanno lette in
combinato dell’art 295 cpc, e quindi con il regime della sospensione del processo.
Da ricordare che esistono casi espressamente previsti dalla legge, nei quali il
giudice, dinanzi alla proposizione di una questione pregiudiziale appartenente per
materia e valore alla competenza di un giudice superiore, non rimette tutte le
cause a quest’ultimo. È il caso previsto dall’art 313 cpc in materia di “querela per
falso” proposta innanzi al giudice di pace. Infatti per la querela di falso è
competente il Tribunale, pertanto qualora la querela fosse presentata dinanzi ad un
altro giudice, pensiamo appunto al giudice di pace, quest’ultimo non dovrà
rimettere tutta la causa al tribunale, ma dovrà limitarsi a rimettere le parti dinanzi
al tribunale per la sola querela di falso, sospendendo il giudizio (ex art 295 cpc),
in attesa che il tribunale decida sulla proposta querela di falso.
Eccezione , art 35 e 36 cpc questi articoli regolano le modificazioni di competenza
per effetto della eccezione di compensazione (art 35) e della domanda
riconvenzionale (art 36) esse sono espressione di attività difensiva della parte
contro cui si avanza una pretesa nel processo.
1. il primo livello di difesa è garantito dall’eccezione, la quale può conseguire
un’efficacia ed una incisività diverse. Eccezione significa qualunque
contestazione e difesa proposta dalle parti.
a) a negare i fatti costitutivi invocati dalla controparte senza introdurre in
giudizio fatti nuovi in senso da respingere l’altrui domanda. Nell’ambito
della categoria delle eccezioni proprie rientrano le attività difensive finalizzate
all’introduzione di fatti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa
azionata dalla controparte;
b) eccezione intermedia, la prima ipotesi di eccezione in senso proprio è
rappresentata nella contrapposizione al fatto costitutivo, collocato a sostegno
della pretesa di parte, di un fatto impeditivo o estintivo, che sia finalizzato a
contrastare la prospettazione dalla stessa proposta, negandone il fondamento
(esempio: il caso in cui una parte deduca a sostegno della propria domanda
un’obbligazione contrattuale assunta nei suoi confronti dalla controparte e
quest’ultima eccepisca la mancata scadenza del termine, quale fatto
impeditivo, o l’avvenuto pagamento della somma, quale fatto estintivo
dell’altrui pretesa);
c) eccezione in senso stretto, esse si differenziano dalle eccezioni in senso
proprio perché queste ultime possono costituire oggetto di rilievo d’ufficio, da
parte del giudice, mentre quelle in senso stretto sono riservate esclusivamente
alle parti. Dunque le caratteristiche delle eccezioni in senso stretto sta nel fatto
che i fatti impeditivi e quelli estintivi sono inidonei a manifestare i propri
effetti, se non vengono posti a fondamento della parte interessata. In sintesi il
fatto posto a fondamento di una eccezione in senso stretto non è inidoneo di
per sé ad impedire la pretesa avversaria o ad estinguere l’altrui diritto, né
manifesta alcun effetto, fintantoché non viene allegato, dalla parte legittimata,
attraverso un’apposita eccezione;
2. il secondo livello di difesa è rappresentato dalla compensazione, attraverso di
essa il convenuto oppone al diritto vantato dall’attore un proprio credito nei
confronti dello stesso, così facendo paralizza la pretesa fatta valere in giudizio;
3. il terzo livello di difesa è rappresentato dalla riconvenzione, essa consiste in
una vera e propria controdomanda, avanzata nei confronti del soggetto che ha
esercitato una determinata azione nel processo ed il cui accoglimento non è
necessariamente incompatibile con l’accoglimento della domanda dell’attore.
Ora è bene analizzare in che modo e a quali condizioni le possibili manifestazioni di attività
difensive delle parti siano suscettibili di provocare spostamenti di competenza per ragioni di
connessione.
Nel primo livello di difesa, ogni proposizione dell’eccezione in qualsivoglia espressione,
non fa emergere alcun problema in merito alla competenza del giudice. Questo perché
all’eccezione, allegandovi in giudizio i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto
vantato dall’avversario, comporta solamente l’ampliamento della quaestio facti in
riferimento alla domanda già proposta ed al diritto vantato dalla controparte che attraverso
l’introduzione dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi, si chiede al giudice di non
accogliere o di non riconoscere. Dunque il thema decidendum rimane invariato , anche se
esso risulta essere sostanziato dagli ulteriori elementi introdotti in giudizio per gli elementi
sopraccitati (impeditivi, modificativi e/o estintivi), pensiamo al convenuto che eccepisce
l’intervenuta prescrizione del diritto fatto valere dall’attore, a tal proposito il giudice dovrà
pronunciarsi sull’unica domanda proposta e dovrà deliberare se il diritto azionato sia
sostenuto da un fatto costitutivo idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda o,
diversamente esiste un fatto estintivo suscettibile di portare ad una decisione di rigetto
sempre della stessa domanda, si intende.
Principio importante è quello per cui il giudice adito con la domanda principale è sempre
competente a conoscere tutte le eccezioni sollevate per contrastarla nello stesso processo.
Nel secondo livello di difesa dobbiamo soffermarci all’art 1243.2 cc (ma anche l’art 35 cpc),
il quale prevede che il giudice possa dichiarare la compensazione solo se il credito opposto
in compensazione abbia ad oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili
dello stesso genere e sia liquido o comunque “di facile e pronta liquidazione” ed esigibile.
Ora analizziamo le conseguenze dell’eccezione di compensazione sollevata nel processo,
ovviamente in tema di competenza.
Da subito dobbiamo affermare che nessuna conseguenza sulla competenza si avrà
nell’ipotesi in cui il credito opposto in compensazione non sia contestato o è, comunque,
riconosciuto in giudizio dalla controparte; in tale prospettiva non si riscontra alcun problema
di competenza perché il giudice non è chiamato a nessun accertamento circa l’esistenza e
l’ammontare del controcredito e, di conseguenza, può dare luogo alla compensazione anche
se il credito opposto (riconosciuto dalla controparte) eccede la sua competenza.
Diversa sarà la situazione paventabile nella quale la controparte non riconoscerà il credito
opposto in compensazione, e quindi contestato, perché in una siffatta circostanza il giudice
dovrà verificare se è competente a pronunciarsi anche in ordine a tale credito secondo
quanto stabilisce l’art 35 cpc. Nell’ipotesi in cui il credito opposto in compensazione ecceda
il limite di competenza per valore del giudice adito, l’art 35 cpc pone il giudice dinanzi ad
una alternativa:
- se la domanda dell’attore è fondata su un titolo non controverso o di non complessa
accertabilità, il giudice adito può pronunciarsi su di essa (eventualmente subordinando
l’esecuzione della sentenza al versamento di una cauzione) e rimettere le parti al giudice
competente per l’eccezione di compensazione;
- se la domanda sia fondata su titolo controverso o di difficile accertabilità l’art 35 cpc, nel
richiamare, l’art 34 cpc, chiede il trasferimento dell’intera causa al giudice superiore.
Dunque in queste ipotesi potrebbe determinarsi una modifica della competenza in senso
verticale, a favore del giudice superiore chiamato a decidere, sia sul credito oggetto della
domanda principale sia sulla compensazione dello stesso con il controcredito opposto.
Di converso, nell’ipotesi in cui il credito opposto in compensazione non ecceda la soglia di
competenza del giudice adito, questi si pronuncerà anche in ordine al controcredito.
Il terzo livello di difesa può determinare uno spostamento della competenza qualora fosse
fondata sul medesimo titolo dedotto in giudizio dall’attore, di seguito due esempi:
il convenuto propone domanda riconvenzionale di annullamento del contratto sul quale
l’attore aveva fondato la propria richiesta di pagamento di una somma di danaro;
o sul presupposto sul titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione;
l’esempio è quello del convenuto oppone in compensazione un credito eccedente la
misura della pretesa creditoria dell’attore e chiede, in via riconvenzionale, la condanna
dell’attore al pagamento dell’importo pari alla differenza tra il credito ed il credito
principale. In base a quanto stabilisce l’art 36 cpc il giudice adito conosce anche delle
domande riconvenzionali, purché non eccedano la sua competenza per materia e per
valore.
CONNESSIONE TRA CAUSE PROPOSTE DAVANTI A GIUDICI DIVERSI.
Tale situazione può essere provocata dal giudice (d’ufficio o su eccezione di parte)
nell’ipotesi in cui più cause, le quale per ragione di connessione potrebbero essere decise
nello stesso processo, siano dalle parti proposte dinanzi a giudici diversi.
L’art 40 cpc scioglie tali questioni, cioè cause connesse instaurate separatamente, dinanzi a
distinti uffici giudiziari.
Al 1° comma si dispone che se le due cause sono connesse per accessorietà (art 31 cpc) la
loro trattazione congiunta avviene dinanzi al giudice della causa principale; in ogni altro
caso di connessione, il processo si svolge dinanzi al giudice adito preventivamente.
Lo spostamento di competenza ai fini del simultaneus processus non può aversi in ogni
tempo poiché da un lato la connessione non può essere eccepita (dalla parte) ne rilevata
(d’ufficio) dopo la prima udienza, dall’altro canto la rimessione di una delle due cause,
dinanzi al giudice in favore del quale dovrebbe operare lo spostamento della competenza,
non può in ogni caso essere ordinata laddove lo stato della causa principale o
preventivamente proposta non consenta l’esaustiva trattazione e decisione delle cause
connesse (comma 2 art 40 cpc).
Rilevata o eccepita la connessione (vale a dire i presupposti) viene dichiarata con ordinanza
non revocabile (contro la quale è esperibile regolamento necessario di competenza) dal
giudice, il quale fissa alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa dinanzi
al giudice diverso, sul il quale si sposta la competenza.
Il comma 7° dell’art 40 regola invece i rapporti di connessione, tra giudice di pace e
tribunale; suddetto comma prevede per tutte le ipotesi di connessione (tranne i casi di
connessione oggettiva) che la proposizione separata di cause connesse, l’una dinanzi al
giudice di pace e l’altra dinanzi al tribunale, impone al giudice di pace a pronunciare anche
d’ufficio la connessione, anche la prima udienza ed indipendentemente dallo stato della
causa pendente dinanzi al tribunale.
Di seguito i casi di connessione per i quali è derogabile il rito applicabile allorquando due
cause connesse e suscettibili di essere trattate congiuntamente. Tra le due cause una è
trattabile con rito ordinario e l’altra con rito speciale, l’art 40 cpc prevede una regola
generale secondo la quale se le due cause sono connesse secondo gli articoli dal 31 al 36
cpc, prevale la trattazione con il rito ordinario, salvo che la causa trattabile con il rito
speciale non rientri tra le cause indicate dagli articoli:
- 409 cpc “controversie individuali di lavoro”
- 442 cpc “controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria”.
Nell’ipotesi in cui due cause connesse fossero entrambi trattabili con rito speciale prevale il
rito previsto per la causa in ragione della quale verrebbe determinata la competenza
seguendo le regole ordinarie (esempio: il rito della causa principale rispetto al rito della
causa accessoria); oppure qualora non esistesse una causa capace di attrarre la competenza
secondo gli ordinari criteri della materia, si applicherà il rito della causa di maggior valore.
LITISPENDENZALa litispendenza (art. 39, comma primo, c.p.c.) è la situazione che si determina quando due
o più cause identiche (ossia che abbiano tutti gli elementi identici):
stessi soggetti;
stesso oggetto, cioè il petitum che corrisponde al bene della vita richiesto ed alla causa
petendi che corrisponde al titolo in base al quale la richiesta viene avanzata,
pendono dinanzi a giudici diversi (per essi si fa riferimento ad uffici giudiziari differenti,
poiché se la medesima causa pendesse dinanzi a due diversi magistrati o anche a due
differenti sezioni appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, andrebbe semplicemente
disposta la riunione delle cause secondo l’art 273 cpc, si riferisce anche alla continenza).
Ai sensi del citato comma primo, è competente il giudice adito per primo mentre quello
adito successivamente, “in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara
con sentenza la litispendenza e dispone con ordinanza la cancellazione della causa dal
ruolo”.
Per giudice adito per primo, si intende il giudice “preventivamente adito”. Il criterio della
prevenzione (art. 39, comma terzo), si determina in base alla notificazione della citazione;
pertanto, si considera adito preventivamente, il giudice il cui relativo atto di citazione sia
stato notificato per primo. Qualora la stessa causa viene proposta per la seconda volta di
fronte allo stesso giudice, questi ne ordina la riunione (art. 273 c.p.c.).
Da ricordare che il giudice adito per secondo non ha l’obbligo di verificare la propria
competenza o quella del giudice adito per primo; infatti laddove la stessa causa penda
dinanzi a giudici diversi, quello adito successivamente non potrà fare altro che pronunciare
la litispendenza e cancellare la causa dal ruolo. Semmai ogni valutazione sulla competenza
dovrà essere effettuata dal giudice preventivamente adito.
CONTINENZA
La continenza di cause (art. 39, comma secondo), si verifica in presenza di due cause che
hanno in comune i soggetti e la causa petendi, ma il petitum di una è più ampio in modo da
“contenere” il petitum dell’altra (ad es: in un processo si chiedono tutte le rate di un mutuo
ed in un altro processo se ne chiede una sola). Se il giudice preventivamente adito è
competente anche per la causa proposta successivamente, il secondo giudice con sentenza
deve dichiarare la continenza e fissare un termine per la riassunzione della causa davanti al
primo giudice (criterio della prevenzione). In caso contrario - ossia quando il primo giudice
non è competente anche per la causa proposta successivamente - è quest’ultimo ad emanare
la sentenza di continenza ed a fissare un termine per la riassunzione davanti al secondo
giudice (criterio dell’assorbimento).
Sia la sentenza sulla litispendenza, sia quella sulla continenza possono essere impugnate con
regolamento necessario di competenza.
SOLUZIONE DELLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA
Come sappiamo la giurisdizione e la competenza, determinate dall’attore sulla base dei
criteri codicistici, possono essere contestate dalle altre parti e su tale contestazione il giudice
è chiamato a pronunciarsi. Dunque il giudice potrà ritenere tali contestazioni infondate e
riconoscere la propria giurisdizione o la propria competenza, ovvero, sempre sulla base
delle contestazioni di parte (ma in certi casi anche d’ufficio) potrà arrivare alla conclusione
opposta e perciò dichiararsi privo di giurisdizione e/o di competenza.
Di seguito si analizzeranno, nello specifico, i problemi legati alle:
condizioni di proposizione: della questione di giurisdizione la quale, salve le ipotesi in
cui tale questione può essere sollevata ex officio, è necessario che la parte costituita
sollevi tempestivamente la relativa eccezione. Poi vedremo come l’eccezione di parte
deve essere sollevata entro un termine stabilito dalle norme del cpc per il tempestivo
deposito della comparsa di costituzione e risposta, mentre quello ex officio potrà essere
sollevata nella prima udienza;
modalità di soluzione: una volta sollevata o rilevata d’ufficio la questione, il giudice è
obbligato a decidere sulla stessa questione sollevata, decisione che si concreta con
un’ordinanza assoggettabile a regolamento di competenza necessario se la decisione
abbia ad oggetto esclusivamente questioni di competenza e negli altri casi (e cioè
allorquando decide la questione di competenza unitamente al merito) con sentenza
assoggettabile agli altri mezzi di impugnazione.
In fine, da ricordare, che oltre ai mezzi ordinari di impugnazione esistono due mezzi di
tutela speciale (azionabili dalle parti):
regolamento di giurisdizione : il quale è un mezzo preventivo cioè proponibile nel corso
del giudizio e prima che il giudice abbia emesso una decisione nel merito in primo
grado;
regolamento di competenza : il quale è un mezzo successivo poiché presuppone che vi sia
già stata una pronuncia sulla competenza, anche se unitamente al merito della causa.
LA PROPOSIZIONE DELLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA
Questione di Giurisdizione. Esse sono indicate nell’art 37 cpc, il quale sancisce che la
questione avente ad oggetto il difetto di giurisdizione può essere sollevata sia dalle parti che
ex officio ed in qualunque stato e grado del processo. Disciplina, questa, che è stata
parzialmente abrogata da un recente intervento delle sezioni unite della Cassazione (con una
sentenza del 2008) la quale, sottolineando i principi di economia processuale e di
ragionevole durata del processo, hanno ritenuto di interpretare l’art 37 cpc negando, di fatto
la rilevabilità anche officiosa del difetto di giurisdizione in ogni “grado” del processo.
Esse vengono regolate, altresì, dalla legge 218/1995 all’art 11, disciplinando le ipotesi in cui
il convenuto che si sia costituito o si tratti di casi in cui il convenuto sia rimasto contumace
o le cause che abbiano ad oggetto controversie concernenti beni immobili situati all’estero
o si tratti ancora di casi in cui la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di convenzioni
internazionali.
Qualora il convenuto non sia costituito o si tratti dei casi di azioni reali aventi ad oggetto
beni immobili situati all’estero o controversie per le quali la giurisdizione italiana sia
esclusa per effetto di una norma internazionale (art 5 legge 218/95) il difetto di giurisdizione
del giudice italiano è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, come nel
contenuto dell’art 37 cpc.
Qualora il convenuto non è residente né domiciliato in Italia e si sia costituito, il regime da
seguire per individuare il difetto di giurisdizione è profondamente differente, in tale ipotesi
il difetto può essere rilevato (in ogni stato e grado del processo) solo dal convenuto stesso
“che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana”.
Quest’ultima disposizione va coordinata con la disposizione del comma 1° dell’art 4 della
legge 218/95 il quale stabilisce che “il convenuto che si costituisca in giudizio senza
eccepire il difetto di giurisdizione nel suo primo atto difensivo, accetta validamente,
ancorché tacitamente, la giurisdizione del giudice italiano che di conseguenza non potrà più
dichiarare il proprio difetto di giurisdizione (per primo atto difensivo si intende ad esempio :
la comparsa di risposta o l’atto di costituzione del convenuto).
IMP La giurisprudenza afferma che si abbia accettazione tacita non solo nel caso in cui il
convenuto non eccepisca il difetto di giurisdizione, ma altresì nell’ipotesi in cui sollevi
l’eccezione in via subordinata rispetto alle proprie difese nel merito (cass. Sentenza del
1990).
La decisione sulle questioni di giurisdizione nella Legge n. 69/2009, essa è intervenuta
anche in tale ambito con un apposito articolo rubricato “decisione delle questioni di
giurisdizione” anche se concerne esclusivamente la declaratoria di “difetto di giurisdizione”.
Da dire che esso non è stato introdotto con la finalità di sostituzione dell’art 37 cpc il quale
è rubricato in modo inequivoco “difetto della giurisdizione”; l’art della legge 69/2009
presenta quattro caratteristiche:
dichiarazione del giudice del proprio difetto di giurisdizione in materia civile,
amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali;
sia le pronunce del giudice di merito sia quelle delle sezioni unite della Corte di
cassazione;
disciplina la modalità ed effetti della riproposizione della domanda dinanzi al giudice
indicato come munito di giurisdizione;
introduce e disciplina anche un regolamento di giurisdizione d’ufficio.
La dichiarazione del difetto di giurisdizione viene dichiarata dal giudice attraverso una
sentenza, nelle quale viene indicato anche, se esistente, il giudice nazionale che ritiene
munito della giurisdizione.
Le pronunce sulla giurisdizione delle Sezioni Unite, esse hanno efficacia pan-processuale
essendo vincolante per ogni giudice e per le parti in altro processo.
La riproposizione della domanda al giudice che si ritiene essere munito di giurisdizione, se
effettuata entro 3 mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia delle Sezioni Unite della
Cassazione che contiene tale indicazione, determina il trasferimento del processo dinanzi a
tale giudice con la conservazione degli effetti sostanziali e processuali che la domanda
avrebbe prodotto se essa fosse stata proposta ab initio dinanzi al giudice dichiarato, poi con
sentenza, munito di giurisdizione (con salvezza delle preclusioni e delle decadenze
intervenute medio tempore).
Infine, le prove già raccolte nel primo giudizio possono essere valutate dal nuovo giudice
come argomento di prova.
Laddove la domanda non fosse riproposta innanzi al giudice riconosciuto investito della
giurisdizione (nel termine perentorio di 3 mesi) determina l’estinzione del giudizio,
estinzione che è dichiarata, anche d’ufficio, alla prima udienza eventualmente proposta di
fronte a tale giudice ed impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali
della domanda.
Questione di Competenza. I principi che disciplinano il rispetto e la deroga alle regole della
competenza e la rilevabilità delle loro violazioni rappresentano la necessità di garantire un
perfetto esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un giudice che sia effettivamente
idoneo a rendere giustizia in concreto. Circa i criteri di competenza distinguiamo:
1. incompetenza rilevabile d’ufficio: essa può concernere il difetto di competenza per
valore, materia e territorio (quest’ultima nei casi di incompetenza inderogabile prevista
dall’art 28 cpc. Rilevata d’ufficio dal giudice entro la prima udienza (art 183 cpc);
2. incompetenza eccepita dalle parti: può concernere il difetto di competenza per materia,
valore e territorio e deve essere eccepita dalla parte nella comparsa di risposta. Nello
specifico, la competenza per territorio, fuori dai casi previsti dall’art 28 cpc, è
disciplinata (ricavabile dal coordinato dell’art 38 cpc) da modifica della legge 69/2009 e
dagli artt 167 e 171 cpc, il regime si sostanzia nel seguente modo:
a. l’eccezione deve essere formulata a pena di preclusione nella comparsa di risposta,
ovverosia la costituzione in giudizio del convenuto che non eccepisca l’incompetenza
per territorio nella propria comparsa di costituzione e risposta preclude al convenuto
stesso la successiva proposizione dell’eccezione;
b. il convenuto decade dal potere di proporre tale eccezione laddove, pur formulando
tale eccezione nella propria comparsa di risposta, si costituisca tardivamente vale a
dire oltre il termine di 20 giorni prima dell’udienza di comparizione;
c. l’eccezione si considera non proposta se in essa non è indicato il nome del giudice
che la parte ritiene competente;
d. sul convenuto ricade l’onere, secondo la giurisprudenza, di contestare tutti i possibili
criteri attributivi della competenza astrattamente prospettabili nel caso concreto,
salvo che l’attore abbia precisato il criterio concretamente utilizzato;
e. per le sole ipotesi in cui sia stata contestata la competenza per territorio derogabile
laddove l’attore e le altre eventuali parti costituite aderiscano a tale indicazione,
prende vita il cd accordo di proroga consensuale della competenza che preclude al
giudice la verifica della sua incompetenza, ove la causa venga riassunta entro 3 mesi
dinanzi al giudice indicato dal convenuto, la competenza resterà in capo a
quest’ultimo, senza che assuma alcuna rilevanza la fondatezza dell’eccezione o
l’esattezza dell’indicazione del giudice ritenuto competente.
REGOLAMENTO DELLA GIURISDIZIONE.
Il regolamento ad istanza di parte (vedi Allegato RG)
Di seguito descrizione del regime del regolamento di giurisdizione:
legittimazione: ciascuna parte può proporre il ricorso, in questo caso la soluzione della
questione di giurisdizione viene devoluta alla Suprema Corte di cassazione anche dalla
parte che abbia agito dinanzi al giudice ordinario e che intenda contrastare l’eccezione
del difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice.
Dunque saranno legittimati sia l’attore, sia il convenuto, sia coloro che siano intervenuti
volontariamente o coattivamente nel processo e che abbiano acquisito la qualità di parte;
competenza: essa spetta alle sezioni unite della Corte di cassazione;
forma e contenuto del ricorso: da subito è necessario precisare che non è un mezzo di
impugnazione. Secondo quanto stabilito dall’art 41 cpc il regolamento di giurisdizione si
propone come ricorso ai sensi dell’art 364 cpc e seguenti articoli, cioè si presenta come
un ordinario ricorso per cassazione. Per quanto concerne il contenuto del ricorso per il
regolamento di giurisdizione non si possono applicare le disposizioni relative
all’indicazione della sentenza o del provvedimento impugnato ed ai motivi per i quali si
chiede la cassazione. Ora analizziamo solamente il contenuto del ricorso: esso non deve
contenere l’indicazione della sentenza o decisione impugnata né l’indicazione dei
motivi, mentre conterrà, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei fatti la cui
cognizione è necessaria alla soluzione della questione di giurisdizione. Per quel che
concerne la forma del ricorso: rimandiamo all’art 365 cpc il quale stabilisce che detto
ricorso debba essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in un
apposito albo dei patrocinanti innanzi alla Corte di cassazione e deve essere notificato a
tutte le altre parti in ottemperanza a quanto indicato dall’art 170 cpc e pertanto, non a
queste ultime, ma al procuratore costituito. Notificato, il ricorso per regolamento di
giurisdizione è soggetto ad un duplice deposito:
copia del ricorso deve essere depositata presso la cancelleria del giudice dinanzi al
quale pende la causa di merito, al fine di consentirgli di valutare l’opportunità della
sospensione (art 367 cpc);
deve essere depositato, a pena di improcedibilità, congiuntamente alla procura, agli
atti, ai documenti su cui il ricorso si fonda ed alla richiesta di trasmissione del
fascicolo d’ufficio, presso la cancelleria della corte (art 360 cpc) entro 20 giorni
dall’ultima notificazione.
Alle parti è consentito contraddire solo nella forma del controricorso da notificarsi e
depositari rispettando l’art 370 cpc;
termine per la proposizione: il codice di rito indica all’art 41 solo il termine finale,
quello iniziale andrà ricostruito dall’interprete. Il dies ad quem (termine finale) per la
proposizione del regolamento di giurisdizione è stabilito in base al momento in cui “la
causa non sia deciso nel merito in primo grado”, nel senso che non deve essere stata
pronunciata una sentenza avente ad oggetto le questioni relative al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio, nonché i problemi relativi ai soli fatti impeditivi o estintivi del diritto
(prescrizione, decadenza, pagamento del debito). La suprema Corte di cassazione ritiene
che qualsiasi sentenza emessa in primo grado, sia di merito che di rito, preclude
definitivamente la proposizione del regolamento di giurisdizione. Il regolamento di
giurisdizione può essere proposto fino alla pronuncia del provvedimento che dispone la
rimessione della causa al collegio o, nel caso di decisione del giudice in composizione
monocratica, del provvedimento che dispone lo scambio di comparse conclusionali e
delle memorie di replica;
effetti: il primo effetto che riscontriamo alla proposizione del regolamento di
giurisdizione è la sottrazione al giudice del merito della questione di giurisdizione, ciò
avviene per devolverla alle sezioni unite della cassazione. Gli effetti sul giudizio del
merito sono stabiliti (e disciplina la sospensione) dall’art 367 cpc. La proposizione del
regolamento comporta l’onere, per la parte che lo presenta, di depositare copia del
ricorso presso la cancelleria del giudice adito, e ciò è finalizzato a permettere al giudice
stesso di valutare l’opportunità, o no, di sospendere il processo instaurato dinanzi a lui (il
1° comma dell’art 367 non indica un termine entro il quale debba effettuarsi il deposito,
ma indica genericamente che ciò deve avvenire al momento successivo alla notificazione
alle parti. Da ricordare che il mancato deposito non provoca alcuna conseguenza in
ordine alla procedibilità del regolamento, ma impedisce, al limite, che il giudice del
merito possa provvedere sulla sospensione del giudizio). Comunque, in conclusione, il
giudice del merito sospende il processo con ordinanza solo laddove non ritenga
“l’istanza manifestatamene inammissibile o la contestazione della giurisdizione
manifestamente infondata”. Sospeso il processo esso dovrà essere riassunto entro il
termine perentorio di 3 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza della Corte di
cassazione che dichiari la giurisdizione del giudice adito o di altro giudice ordinario;
il procedimento: art. 375 cpc la Corte di cassazione provvede, a sezioni unite, all’istanza
del regolamento di giurisdizione in camera di consiglio e con ordinanza impugnabile per
revocazione per errore di fatto (art 391 bis). L’art 380 ter cpc stabilisce che il presidente
può chiedere al PM le sue conclusioni scritte le quali, unitamente al decreto
presidenziale che fissa l’udienza della corte di cassazione, sono notificate almeno 20
giorni prima, agli avvocati delle parti. Le parti hanno facoltà di presentare memorie non
oltre cinque giorni prima e di chiedere di essere sentiti se compaiono, limitatamente al
regolamento di giurisdizione. Comunque è possibile, altresì, che il presidente ritenga di
provvedere in ottemperanza al comma 1 dell’art 380 bis cpc, qualora al regolamento di
giurisdizione si presentino le situazioni contemplate e disciplinate dall’art 375 n. 1,2,3 e
5 cpc;
la decisione: la corte è tenuta a risolvere la questione sulla base dell’apprezzamento
diretto delle risultanze istruttorie e degli atti della causa di merito, in modo
assolutamente autonomo ed indipendente rispetto alle deduzioni delle parti e delle
valutazioni del giudice a quo. Ai sensi dell’art 386 la corte determina la giurisdizione in
base all’oggetto della domanda. Dunque la corte dovrebbe raggiungere la decisione
avendo riguardo unicamente al petitum sostanziale e perciò non soltanto all’oggetto della
domanda ma anche alla natura della controversia. La corte prende la decisione mediante
ordinanza attraverso la quale potrà riconoscere la:
giurisdizione in capo al giudice adito ovvero
in capo ad altro giudice ovvero
il difetto assoluto di giurisdizione ovvero
l’assenza di qualsivoglia giudice sul territorio italiano, dotato di giurisdizione sulla
controversia dedotta in giudizio.
Nell’ipotesi in cui il giudice a quo abbia provveduto a sospendere il giudizio pendente
dinanzi a lui, la corte che dichiara la giurisdizione dello stesso giudice adito o di altro
giudice, comporta l’onere della riassunzione del processo, che proseguirà dinanzi
all’organo dichiarato giurisdizionalmente competente. La traslatio judicii davanti al
giudice investito di giurisdizione è ora espressamente prevista dalla L. n. 69/2009
quando venga proposta la questione di giurisdizione ai sensi dell’art 59 della stessa.
Laddove il giudice adito non avesse ritenuto di sospendere il processo pendente dinanzi
a lui e venisse, poi, confermata la sua giurisdizione, nessun atto compiuto ne verrebbe
travolto; ma questa situazione si palesa anche laddove la giurisdizione venisse negata
ritenendo, per l’appunto non vengano travolti tutti quegli atti emanati sulla base di un
presupposto carente (o quantomeno da definire) conducendo il giudice alla definizione
del processo pendente dinanzi a lui.
Il regolamento di giurisdizione d’ufficio.
L’art 59 della L. 69/2009 nel formulare la nuova disciplina della “decisione delle questioni
di giurisdizione” ha previsto espressamente la possibilità di proposizione di un regolamento
di giurisdizione da parte del giudice innanzi al quale venga riassunta la causa dopo la
decisione della questione di giurisdizione. Questo regolamento si aggiunge, ma non
sostituisce, a quello proponibile dalle parti, affermato proprio dall’art 59 legge 69/2009.
La disciplina di questo regolamento si sviluppa in poche proposizioni:
il regolamento può essere chiesto solo dal giudice davanti al quale è riassunta la causa
dopo la decisione della questione di giurisdizione;
la richiesta è inammissibile se sulla questione si siano già pronunciate le sezioni unite
della corte di cassazione nello stesso processo,
il dies ad quem per la richiesta del regolamento è rappresentato dalla udienza fissata per
la trattazione del merito innanzi al giudice della riassunzione e quindi entro la prima
udienza prevista per la comparizione delle parti.
Il conflitto di attribuzioni.
Un regime speciale prende forma in favore dell’ipotesi in cui per sollevare il conflitto di
attribuzione, la PA non sia parte in causa. La contestazione della giurisdizione del giudice
adito proviene da un terzo estraneo al processo e non dalle parti di quest’ultimo, che perciò
sono costrette a subirne le conseguenze anche laddove siano concordi nell’escludere che vi
sia difetto di giurisdizione.
TERMINI: il momento preclusivo non è rappresentato dalla pronuncia di una decisione di
primo grado, ma il passaggio in giudicato di una sentenza che abbia affermato la
giurisdizione. Fino a quel momento il conflitto può essere sollevato dalla PA in ogni stato e
grado del processo.
MODUS PROCEDENDI: il procedimento è caratterizzato per essere molto farraginoso
poiché coinvolge:
autorità amministrativa
organi giurisdizionali
le parti.
Il conflitto viene sollevato con decreto motivato dal prefetto e notificato, su sua richiesta,
alle parti ed al PM dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale pende la causa, al quale compete
(sarà il Procuratore della Repubblica se la causa pende in Tribunale, sarà il procuratore
Generale se la causa pende dinanzi alla Corte d’Appello), altresì, comunicare il decreto del
prefetto al capo di questo ufficio che sospende il procedimento con un altro decreto che
deve essere notificato alle parti (curato sempre dal PM) a pena di decadenza, entro 10 giorni
dalla sua pronuncia. Solo con ricorso della parte più diligente, da proporsi, a pena di
inammissibilità, nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto del capo
dell’ufficio giudiziario, che la corte di cassazione viene investita del conflitto di
attribuzione.
IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA.
La violazione dei criteri di competenza determina la possibilità per le parti di sollevare
l’eccezione di competenza, così anche al giudice sarà data la possibilità di rilevare d’ufficio
la propria incompetenza (ad esclusione di quella per territorio derogabile).
L’eccezione di parte o il rilievo officioso del giudice, impongono allo stesso di decidere
sulla propria competenza, definendo se essa sussista o meno. Tale decisione deve essere
immediata, salvo che il giudice intenda pronunciarsi sulla sua competenza insieme al
merito, poiché presume l’eccezione infondata.
L’art 38 cpc stabilisce che le questioni attinenti la competenza debbono essere decise in base
a ciò che risulta dagli atti e allorquando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o
dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni.
La decisione del giudice si concreta attraverso l’emissione di un’ordinanza quando risolve la
questione di competenza o questioni concernenti l’istruzione della causa, senza definire il
giudizio.
Pensiamo all’ipotesi in cui il giudice si pronunci solo sulla competenza ma non sul giudizio,
ciò deve essere interpretato nel senso che il giudice che si atteggia in tale senso si sia
riconosciuto competente, e nell’ordinanza con cui si dichiara competente, impartisce i
provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa.
Mentre il giudice che si pronuncerà sia sulla competenza che sul merito (e quindi definisca
il giudizio), lo farà sottoforma della sentenza.
Ora analizziamo la situazione inversa, cioè quella in cui il giudice si ritiene incompetente, in
questo caso la declaratoria che indicherà la sua incompetenza indicherà, altresì, il nome del
giudice ritenuto competente; se le parti riassumeranno tempestivamente il giudizio innanzi
al giudice ritenuto competente, salveranno gli effetti della domanda originariamente
La decisione sulla competenza potrebbe essere errata, e proprio in tale senso che risulta necessario poterla sottoporre a controllo, mediante la proposizione (o il dispiegamento) di un ordinario mezzo di impugnazione al giudice superiore, o attraverso la proposizione del ricorso per regolamento di competenza alla corte di cassazione.
proposta.
Dunque dal contenuto del riquadro si evince che l’unico giudice naturale chiamato a
risolvere i conflitti di competenza è la Corte di cassazione, la quale una volta che si
pronuncia, stabilisce, in via definitiva, il giudice competente per una determinata causa.
In sintesi, le parti sono dotate di uno strumento rapido e immediato, da parte della
cassazione, che decide sulla competenza senza pesare sulle parti stesse il passaggio di tutti i
gradi del giudizio.
A completamento di questo discorso vediamo il caso in cui le parti concordino con il giudice
di merito che declina la competenza e riassumano, nei termini stabiliti per legge, la causa
dinanzi al giudice ritenuto competente; a questo punto, nulla dovrebbe escludere che il
giudice ritenuto competente, possa anch’egli verificare la propria competenza. Emerge,
però, subito che tale meccanismo potrebbe innescare un eterno peregrinare della parti che
richiedono tutela giurisdizionale, poiché ogni giudice sarebbe legittimato a dichiarare
officiosamente la propria incompetenza; dunque al fine di evitare una situazione del genere,
l’ordinamento esclude il potere del secondo giudice di decidere sulla propria competenza
consentendogli solamente di rivolgersi alla suprema corte di cassazione, laddove revochi in
dubbio la propria competenza per materia, valore o territorio.
Il regolamento ad istanza di parte.
Una prima importante distinzione da fare è quella tra:
regolamento di giurisdizione: è sempre preventivo
regolamento di competenza: è sempre successivo ad una sentenza.
Ora bisogna cercare di rispondere alla domanda, vale a dire se il regolamento di competenza
può essere considerato un mezzo di impugnazione.
Parte della dottrina si è pronunciata positivamente in merito, la quale ha individuato nell’art
324 cpc la base della propria tesi, infatti detto articolo stabilisce che, per individuare il
momento in cui la sentenza è passata in giudicato, si include il regolamento di competenza
tra gli strumenti la cui proposizione o, per meglio dire, la cui preclusione è coordinata al
passaggio in giudicato della sentenza. Tale argomentazione sembra essere suffragata anche
da un altro articolo il 323 cpc rubricato, appunto, “mezzi di impugnazione” il quale elenca il
regolamento di competenza accanto all’appello, al ricorso per cassazione, alla revocazione
ed all’opposizione. Ma ad un vaglio più attento, dell’art 323 cpc, evinciamo che se da un
lato il legislatore ha inserito in questo articolo il regolamento di competenza fra i mezzi di
impugnazione, dall’altro ha isolato tale regolamento da quegli altri strumenti di tutela delle
parti contro la sentenza, la cui natura di mezzo di impugnazione, non può essere revocata in
dubbio. Questo perché l’articolo recita “….i mezzi per impugnare oltre il regolamento di
competenza, nei casi previsti dalla legge, sono….”.
La differenza che riscontriamo tra il regolamento di competenza ed i mezzi di impugnazione
è che il Regolamento di competenza può essere, a determinate condizioni, proposto anche
dalla parte vincolatrice, che può inoltre, in ogni caso, aderirvi, posto che l’interesse al
regolamento della competenza, non derivi dalla soccombenza, ma è coordinato al diritto
della parte, di tutte le parti, di non attendere l’esaurimento di tre fasi di giudizio per sentire
sentenziare, dopo tanti anni.
La cognizione della corte di cassazione adita con ricorso per regolamento di competenza si
estende a tutti i profili relativi alla competenza, anche se non individuati nel ricorso ed
anche se non presi in considerazione nella sentenza impugnata.
Un altro elemento di esclusività del regolamento di competenza lo traiamo dall’art 45 cpc
nell’ipotesi di conflitto negativo di competenza, cioè di due giudici che ritengono entrambi
di essere incompetenti per quella causa per ragioni di materia o territorio nei casi dell’art 28
cpc, il regolamento può essere chiesto d’ufficio.
In sintesi il RdC rappresenta essere uno strumento messo a disposizione delle parti per
contrastare il provvedimento che qualunque giudice, tribunale o corte d’appello, abbia
emesso con riferimento alla propria competenza, con l’unica eccezione fatta che è quella
prevista dall’art 46 cpc secondo il quale il regolamento di competenza non è proponibile
contro le pronunce del giudice di pace, le quali dovranno, invece, essere contestate mediante
i normali mezzi di impugnazione, vale a dire l’appello, appello previsto, altresì, per le
sentenze pronunciate secondo equità ai sensi dell’art 113.2 cpc (L. 40/2006).
Il regolamento necessario.
NON ? attaccabile con il regolamento di competenza il provvedimento che ha ad oggetto questioni relative alla ripartizione delle cause tra magistrati del medesimo ufficio giudiziario ed in particolare alla ripartizione tra sede centrale e sedi distaccate del tribunale, o tra diverse sezioni ordinarie del medesimo ufficio o ancora tra giudice monocratico e quello collegiale del tribunale nonch? tutte le questioni concernenti alla distribuzione interna dei compiti tra i vari organi dello stesso ufficio (presidente, collegio, giudice istruttore).
Previsto dall’art. 42 cpc, è quello proposto contro le sentenze che hanno pronunciato
soltanto sulla competenza e NON sul merito della causa. Si definisce “necessario” nel senso
che esso è l’unico mezzo col quale tali sentenze possono essere impugnate. Possono, altresì,
essere impugnate con regolamento necessario, anche i provvedimenti che dichiarano:
la sospensione necessaria, ex art. 295 c.p.c., nonché
le sentenze che abbiano deciso sulla litispendenza
sulla continenza e
sulla connessione e
i provvedimenti che pronunciano sulla competenza che abbiano ad oggetto la
ripartizione delle cause tra sezioni ordinarie e sezioni specializzate del medesimo ufficio
giudiziario.
Breve accenno all’individuazione di un provvedimento che non decido nel merito della
causa, sarebbero tutti quei provvedimenti che non decidono le questioni attinenti al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio, relative ai fatti costitutivi, ai fatti impeditivi, modificativi o
estintivi del diritto fatto valere.
La giurisprudenza nell’intendere la nozione di “questione di merito” in senso da escludere il
carattere necessario del regolamento quante volte la sentenza pronuncia anche su una
qualunque questione, senza che rilevi il suo carattere sostanziale o processuale e salvo che
questa pronuncia non sia meramente incidentale o funzionale rispetto alla decisione circa la
competenza. Dunque non sono assoggettabili al regolamento di competenza necessario:
sentenza che statuisca sull’interesse ad agire;
sentenza che statuisca sulla legitimatio ad causam delle parti;
sentenza che statuisca sull’ammissibilità dell’intervento di un terzo.
Quest’ultimo elenco indica quei provvedimenti che non si pronunciano solo sulla
competenza, ma anche sul merito.
Il regolamento facoltativo.
Previsto dall’art 43 cpc il regolamento è facoltativo nel caso in cui la sentenza abbia
pronunciato non solo sulla competenza ma anche sul merito; è “facoltativo” nel senso
che, in questo caso, il regolamento NON è l’unico mezzo di impugnazione
proponibile, ma concorre con i “modi ordinari” (in pratica, per lo più con l’appello).
Una precisazione doverosa, il fatto che venga definito facoltativo non deve indurre
alcuno a ritenere tale regolamento differente da quello necessario, poiché anche se
facoltativo indica, come quello necessario, un medesimo strumento. Difatti, le parti
hanno due possibilità: o impugnare tutta la sentenza (ossia sia la parte che ha statuito
sul merito che quella che ha statuito sulla competenza) con il mezzo ordinario,
oppure impugnare la parte che ha statuito sul merito con il mezzo ordinario, e quella
sulla competenza con il regolamento facoltativo. Se è proposto subito il regolamento,
l’impugnazione ordinaria potrà investire soltanto il merito, ed il termine per la
proposizione di quest’ultima rimane sospeso; se invece viene proposta subito
l’impugnazione ordinaria, ciò non impedisce alle altre parti di chiedere il
regolamento, ma in tal caso il giudizio sull’impugnazione ordinaria resta sospeso (art.
42, comma secondo, c.p.c.).
Pensiamo all’ipotesi in cui sia stato proposto per primo il regolamento di competenza,
l’impugnazione ordinaria non può essere proposta immediatamente, anche se la sua
proponibilità non è preclusa. La soluzione del problema viene data dal legislatore con
la sospensione, dal momento in cui è stato notificato il regolamento di competenza,
del termine per proporre l’impugnazione ordinaria, questo termine a decorrere dal
momento in cui viene data comunicazione alle parti del deposito dell’ordinanza della
corte di cassazione che regola la competenza.
Il procedimento, gli aspetti del procedimento di regolamento di competenza sono
disciplinati dagli artt 47, 48, 49 cpc. Tale disciplina è modellata su quella prevista per
il ricorso ordinario di cassazione, seppur la disciplina in esame si caratterizza per la
presenza di elementi di accelerazione e semplificazione i quali sono funzionali ad una
decisione più rapida possibile della questione. Analizziamo:
a. è un ricorso che si esperisce presso la Corte di cassazione e può essere sottoscritto
dallo stesso avvocato che difende la parte nel giudizio di merito (o dalla parte
direttamente se questa è costituita in giudizio a norma dell’art 86 cpc, pensiamo ad
esempio a quella parte che, davanti al giudice di pace, sta in giudizio
personalmente senza l’ausilio di un difensore, possibilità che gli è concessa
allorquando il valore della causa non supera i 516,46 euro) senza che sia iscritto
nell’apposito albo dei patrocinanti innanzi alle corti superiori, e che venga
rilasciata procura speciale per il giudizio di cassazione. In ottemperanza all’art
366 cpc il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, i seguenti elementi:
indicazione delle parti;
indicazione della sentenza o decisione da impugnare;
esposizione sommaria dei fatti della causa;
i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di
diritto su cui si fondano, secondo quanto stabilito dall’art 366 bis cpc;
indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di
ammissione al gratuito patrocinio, del relativo decreto;
la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti sui
quali il ricorso si fonda.
Dunque oltre questi elementi, il ricorrente dovrà indicare la questione di
competenza di cui si chiede la risoluzione alla corte e le doglianze della parte
avverso la sentenza impugnata. Con l’abrogazione dell’art 366 bis cpc con la
legge 69/2009 comporta l’inapplicabilità del precetto ai ricorsi proposti avverso
provvedimenti depositati dopo il 04/07/2009, cioè dopo l’entrata in vigore della
legge.
Questo ricorso va notificato a tutti coloro che hanno assunto la qualità di parte nel
giudizio di merito, a meno che non vi abbiano aderito, adesione conferita alle parti
che risulta essere funzionale all’esigenza di celerità propria del regolamento di
competenza, posizione che comunque non vincola ne limita la posizione difensiva
degli aderenti. L’adesione sostituisce la notificazione e può risultare dalla
semplice sottoscrizione del ricorso. Laddove il ricorrente non avesse provveduto
alla notificazione delle controparti si applicheranno le disposizioni degli artt 331 e
332 cpc. La notificazione può essere effettuata mediante la consegna di copia del
ricorso alle controparti;
b. il termine per la proposizione del regolamento è pari a 30 giorni e decorre dalla
comunicazione, effettuata dal cancelliere alle parti, del deposito del
provvedimento che abbia pronunciato sulla competenza. Laddove l’ordinanza
fosse notificata prima ancora che comunicata, o nell’ipotesi in cui la
comunicazione sia del tutto mancata, si ritiene che il termine decorra dalla data di
notificazione. Laddove mancassero, sia la notificazione sia la comunicazione, il
regolamento può essere proposto nel cd termine di 6 mesi dalla pubblicazione del
provvedimento. Se si tratta di regolamento facoltativo il termine di 30 giorni
decorre dalla data di notificazione dell’impugnazione ordinaria, se questa viene
proposta per prima, diversamente si ritiene che il regolamento non possa più
essere proposto qualora, anche se non ancora interamente decorso il termine di 30
giorni dalla comunicazione della sentenza, l’impugnazione ordinaria sia già
preclusa. Entro 5 giorni dalla data di notificazione del ricorso per regolamento, la
parte istante deve chiedere al cancelliere del giudice davanti al quale pende il
processo che il relativo fascicolo sia trasmesso alla cancelleria della corte di
cassazione. In assenza di tale richiesta, il ricorso per regolamento è ritenuto
improcedibile quante volte l’esame del fascicolo del processo di merito risulti
necessario per la risoluzione della questione di competenza demandata alla corte.
Tale richiesta è funzionale alla sospensione del processo di merito che, è sospeso
automaticamente dal giorno in cui è presentata l’istanza di trasmissione. In ultimo,
sempre dalla data di notificazione, decorre il termine di 20 giorni per il deposito,
presso la cancelleria della corte, del ricorso con i relativi documenti (compresi la
copia autentica del provvedimento impugnato e la procura laddove fosse conferita
con atto separato) non è ammesso il deposito di documenti nuovi rispetto a quelli
già acquisiti nel giudizio di merito;
c. il contraddittorio viene garantito alle parti con la concessione di un termine di 20
giorni per il deposito di scritture difensive e documenti, decorrente rispettivamente
dal giorno in cui abbiano ricevuto la notificazione del ricorso o vi abbiano aderito.
Questo termine non è indicato dal codice di rito come perentorio, e dunque se ne
deduce la sua natura meramente ordinatoria, dunque se tali documenti fossero
tardivamente depositati potrebbero essere presi in considerazione dalla corte. Nel
ricorso per regolamento di competenza non sussiste, per le parti che vogliano
controdedurre, l’onere di utilizzare la forma del controricorso (diversamente da
quanto accade per il ricorso per cassazione);
d. l’art 48 cpc prevede la sospensione dei giudizi relativamente ai quali è chiesto il
regolamento di competenza sia operata ipso iure dal momento un cui è depositata
presso la cancelleria del giudice di merito l’istanza per la trasmissione dei
fascicoli (lettera b di questo elenco). Questa sospensione viene definita come
“impropria” perché il processo, in realtà, prosegue innanzi ad un giudice diverso,
la suprema corte, ancorché per lo svolgimento di una peculiare fase. La
sospensione opera di diritto e il relativo provvedimento del giudice (assume la
forma dell’ordinanza) ha natura meramente dichiarativa. Oggetto della
sospensione sono:
i giudizi di primo grado;
i giudizi di secondo grado,
a conclusione dei quali è stato pronunciato il provvedimento oggetto di
regolamento. Nel caso di regolamento facoltativo, inoltre, laddove questo sia stato
proposto successivamente all’instaurazione del giudizio di impugnazione ordinaria,
sarà quest’ultimo ad essere sospeso. La sospensione concerne solamente i processi
di cognizione, infatti si esclude che essa possa essere applicata al processo
esecutivo, o direttamente sull’efficacia esecutiva della sentenza. Al giudice del
processo di merito è consentito autorizzare il compimento degli atti che, secondo la
sua discrezionalità, ritiene urgenti. Tale autorizzazione è data con ordinanza non
impugnabile e gli atti prodotti a seguito di tale autorizzazione, conservano la loro
validità innanzi alla suprema corte, anche laddove quel giudice sia considerato
incompetente;
e. la decisione del regolamento viene operata dalla corte di cassazione a sezioni
semplici ed in camera di consiglio con ordinanza impugnabile per revocazione per
errore di fatto. Qualora il presidente (non ritenga di dover provvedere ai sensi
dell’art 380 bis rubricato “procedimento per la decisione sull’ammissibilità del
ricorso e per la decisione in camera di consiglio”) potrà richiedere al PM le sue
conclusioni scritte e che queste, unitamente al decreto presidenziale che fissa
l’adunanza della corte, debbano essere notificate agli avvocati delle parti (almeno
20 giorni prima) i quali avranno facoltà di presentare memorie non oltre 5 giorni
prima e non è data la possibilità di una loro audizione in camere di consiglio (cosa
che invece accade nel ricorso per regolamento di giurisdizione). La decisione della
corte ha ad oggetto solamente le questioni di competenza. Individuato il giudice
competente per quella controversia, si tradurrà in una decisione definitiva; talché a
fronte dei fori facoltativi, la corte si limiterà ad indicare quali essi siano, lasciando
inalterata o impregiudicata la facoltà di scelta che l’ordinamento concede
all’attore. Va da se che la Corte procede ad un’autonoma valutazione delle
risultanza processuali senza che essa sia vincolata dalle affermazioni e dalle
qualificazioni giuridiche espresse dalle parti o dal giudice di merito, così come
potrà procedere all’ammissione, alla rinnovazione ed all’integrazione di mezzi di
prova. In fine l’ordinanza pronunciata dalla corte è definita panprocessuale poiché
la portata della stessa è tale da estendersi oltre i limiti del processo in corso, infatti
mantiene la sua portata vincolante anche nelle ipotesi in cui il processo si
estingua; dunque qualora un’altra azione dovesse esperirsi, la competenza non
potrebbe essere messa in discussione, valendo la statuizione compiuta dalla corte;
f. la riassunzione del processo innanzi il giudice dichiarato competente deve
avvenire entro 3 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza di regolamento
pronunciata dalla corte di cassazione. Dunque se il processo venisse
tempestivamente riassunto dinanzi al giudice dichiarato competente si
determinerebbe la cd traslatio jiudicii con la conseguenza che l’atto introduttivo
del giudizio di merito manterrebbe i suoi effetti processuali e sostanziali con la
conservazione degli atti compiuti innanzi al giudice dichiarato incompetente;
nell’ipotesi contraria il processo si estinguerebbe restando pur ferma la statuizione
della competenza che ha regolato la competenza stessa. La riassunzione si effettua
mediante comparsa (contenuto indicato dall’art 125 disp att cpc) trattandosi di un
atto di impulso del medesimo processo, deve essere notificata ai sensi dell’art 170
cpc e quindi presso il difensore costituito.
Il regolamento d’ufficio.
Il giudice può dichiarare la sua incompetenza ex officio, le parti, di loro, possono o
impugnare la pronuncia mediante il regolamento di competenza o “aderirvi”
riassumendo il giudizio dinanzi al giudice ritenuto competente, verificandosi, così, la
traslatio jiudicii con la conseguente salvezza degli effetti della domanda
originariamente proposta e dagli atti compiuti. Qualora, invece, la riassunzione non
avvenisse o fosse tardiva, il processo si estinguerebbe con il conseguente
travolgimento anche degli effetti del provvedimento declinatorio della competenza
pronunciato dal giudice di merito.
Il giudice dichiarato competente avrà, comunque, facoltà di verificare d’ufficio la
propria competenza e nel caso di dichiararsi incompetente, ma per evitare che si
possa innescare il meccanismo a causa del quale, il peregrinare delle parti, non
tutelerebbe giurisdizionalmente i loro diritti, si applicano gli artt 44 e 45 cpc.
Il giudice che si dichiara incompetente, pronunciando la competenza di una altro
giudice permette alle parti, laddove tale provvedimento non fosse impugnato con
regolamento di competenza o fosse riassunto tempestivamente dinanzi al giudice
dichiarato competente, rende incontestabile (non solo dalle parti, ma anche dal
giudice in essa indicato) l’incompetenza dichiarata e la competenza del giudice in
essa indicata, ma limitatamente ai casi di incompetenza per valore o per territorio
derogabile.
Qualora si trattasse di incompetenza per materia o per territorio inderogabile (cd criteri forti)
ci troveremmo dinanzi ad un conflitto negativo di competenza.
L’art. 45, disciplina il c.d. conflitto negativo di competenza, il quale si verifica nel caso in
cui il giudice adito dovesse dichiarasi incompetente, indicando come competente altro
giudice dinanzi al quale le parti riassumono la causa; se anche quest’ultimo dovesse
dichiararsi a sua volta incompetente si verifica allora quella situazione che la legge chiama
“conflitto di competenza” - o regolamento di competenza d’ufficio - che rappresenta l’unico
caso in cui il regolamento di competenza non ha le caratteristiche del mezzo di
impugnazione. Tale secondo giudice, davanti al quale la causa è stata riassunta, e che si
ritiene a sua volta incompetente, può richiedere d’ufficio il regolamento di competenza,
Il giudice dovr? astenersi anche nell'ipotesi in cui sia legato da vincoli di parentela, non alla parte o al suo difensore, ma al coniuge di uno di essi. Malgrado la disposizione fa riferimento alla sola parentela legittima, si dovranno equiparare ad essa anche quella naturale e adottiva. L'art 51.2 cpc non fa riferimento esplicito all'affinit? derivante dalla parentela propria del giudice o del suo coniuge, vada ben inteso che anche in questi casi si tratta di una situazione nella quale il giudice ha facolt? di astenersi.
soltanto, però, nei casi di incompetenza per materia e territorio inderogabile.
Il regolamento d’ufficio è proposto da giudice con ordinanza, la quale deve essere
comunicata alle parti. Lo stesso giudice deve ordinare alla cancelleria la trasmissione del
fascicolo alla corte di cassazione, con la medesima ordinanza verrà, altresì, sospeso il
giudizio di merito. Anche in questo caso, le parti avranno la facoltà di depositare entro 20
giorni memorie con eventuali documenti. Infine verrà pronunciata una decisione che
prenderà forma di una ordinanza.
ASTENSIONE DEL GIUDICE
L’art 51 cpc disciplina questa garanzia processuale, elencando i casi in cui un giudice non
possa garantire la terzietà ed imparzialità costituzionalmente sancite dall’art 111.2 Cost.
Il primo caso indicato dall’art 51 cpc è quello per cui un giudice ha il dovere di astenersi nel
caso in cui abbia interesse nella causa o in un’altra vertente su identica questione di diritto.
L’interesse a cui si riferisce il codice di rito va inteso come interesse che potrebbe avere il
giudice perché litisconsorte (anche solo facoltativo) o perché potrebbe intervenirvi
spontaneamente. In via generale il giudice ha l’obbligo di astenervi nel caso in cui potrebbe
trarre vantaggio privato dalla sua pronuncia o, al contrario, potrebbe essere danneggiato
dalla sua pronuncia, e quindi la legge vuole che egli non sia mosso da tale interesse
personale, potendo, così, garantire massima imparzialità.
Il secondo caso è quello per cui il giudice deve astenersi se egli stesso (o il coniuge) è
parente fino al quarto grado, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di
alcuno dei difensori. Sono ipotesi in cui i vincoli di parentela o stretti legami di amicizia
possono determinare, verosimilmente, un coinvolgimento emotivo del giudicante tale da
spingerlo ad avvantaggiare indebitamente la parte o il difensore cui è legato.
Il giudice dovrà astenersi anche laddove egli stesso o il suo coniuge ha causa pendente o
grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o con alcuno dei suoi
difensori. Entrambi i casi fanno rilevare un conflitto tra il giudice ed una delle parti o dei
difensori tale per cui il primo potrebbe perdere la propria serenità di giudizio ed
imparzialità. Il rapporto debito – credito potrebbe indurre nel giudice un interesse alla
vittoria o alla sconfitta della propria controparte negoziale. Esso rappresenta l’unico
rapporto giuridico rilevante ai fini dell’astensione anche nella sua fase fisiologica, infatti per
tutti gli altri istituti giuridici il dovere di astenersi si deve espletare solo laddove tali rapporti
siano degenerati in controversie giudiziali.
Per “grave inimicizia” si intende una posizione tale da far credere che il giudice possa essere
un probabile alleato dell’altra parte; inoltre le situazioni che hanno determinato tale
inimicizia grave debbono essere estranee al processo e devono avere scaturito da parte del
giudice rancore o avversione tali da alterare l’imparzialità e la serenità del giudizio.
Per “causa pendente” si intende una controversia civile, penale o amministrativa instaurata
tra il giudice ed una delle parti o dei difensori. Riferendoci con più attenzione a quelle civili,
sia quelle instaurate dinanzi al giudice italiano che straniero, o dinanzi ad arbitri, è
condizione necessaria che possano considerarsi pendenti secondo i dettami del sistema
processuale applicabile ed il dovere di astensione persiste sino al passaggio in giudicato
della relativa sentenza o alla inimpugnabilità del lodo o sino al passaggio in giudicato della
sentenza che ne conclude l’impugnazione.
Per rapporti debito – credito, precisando che opereremo un’interpretazione restrittiva,
concernono i rapporti obbligatori litigiosi o di obbligazioni di ammontare rilevante. L’ultima
ipotesi di astensione obbligatoria è quella in cui esista un rapporto che intercorre tra il
giudice e gli altri soggetti del processo, pensiamo ai casi in cui egli sia:
tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di
una delle parti;
amministratore o gerente di un ente di associazione anche non riconosciuta, di un
comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.
Il solo giudice di pace è obbligato ad astenersi anche laddove abbia, o abbia avuto, rapporti
di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle parti, è motivo di astensione, motivo
altresì esteso ai giudici tributari.
Il giudice dovrà astenersi anche nel caso in cui egli fosse imprenditore o per i servizi
domestici della sua famiglia, fosse “datore di lavoro” di una delle parti.
Per “agente” intende tutte le ipotesi in cui sia il giudice a svolgere un lavoro per una delle
parti, vuoi a titolo dipendente vuoi come consulente.
Poi viene presa in considerazione in cui il giudice abbia la qualità di amministratore o
gestore di una società o di un ente che abbiano interesse nella causa, in questa ipotesi non è
necessario che la società o l’ente siano parti del processo, ma basterà che in quella causa vi
abbiano interesse (infatti si ha la convinzione che in questa ipotesi il giudice percepisca gli
interessi dell’ente amministrato o gestito come propri).
Il comma 4° dell’art 51 cpc prevede infine l’ipotesi in cui l’astensione del giudice è resa
necessaria dal particolare rapporto in cui si trova con l’oggetto della causa, e cioè:
l’avervi dato consiglio;
prestato patrocinio;
l’avervi deposto come testimone;
l’averne conosciuto come magistrato in altro grado (e NON in altra fase dello stesso
grado) del processo;
o come arbitro;
o l’avervi prestato assistenza come consulente tecnico.
In qualunque dei casi il codice di rito lascia una cd “clausola aperta” stabilendo
genericamente che il giudice dovrà astenersi qualora esistessero gravi ragioni di
convenienza, dunque in questi casi un ruolo dominante lo riveste la discrezionalità del
giudice e quindi inquadrabile come insindacabile, infatti laddove, a seguito di una sua
valutazione, dovesse riscontrare tali gravi ragioni di convenienza, non sussisterà la facoltà,
bensì l’obbligo di astenersi (chiedendone preventivamente l’autorizzazione).
Da un punto di vista procedurale il giudice che ritenga di non poter essere imparziale, o di
non essere ritenuto tale dalle parti, nell’ipotesi di astensione facoltativa dovrà ottenere
l’autorizzazione del capo ufficio giudiziario o nell’ipotesi in cui sia lo stesso giudice a
volersi astenere avrà bisogno dell’autorizzazione del capo ufficio superiore, è un
autorizzazione che assume connotati di elemento essenziale affinché venga meno il potere
ed il dovere del giudice di giudicare. Il giudice (di pace, tribunale, in composizione
monocratica o un qualunque dei componenti del collegio) che al momento della nomina
sollevi l’esistenza di una causa di astensione, debba farne per iscritto espressa dichiarazione
(nelle ipotesi di astensione obbligatoria lo farà con “istanza”) per il caso di astensione
facoltativa al presidente del tribunale.
Laddove, invece, il motivo di astensione venga riscontrato nel corso del processo il giudice
deve darne comunicazione immediatamente al capo dell’ufficio giudiziario, formulando
contestualmente la dichiarazione o la richiesta di autorizzazione. Dunque a questo punto il
capo dell’ufficio giudiziario designa un altro giudice, mediante un provvedimento che
implicitamente riconosce i motivi dell’esistenza dell’astensione obbligatoria o di
autorizzazione all’astensione obbligatoria.
LA RICUSAZIONE DEL GIUDICE.
Come già detto il giudice, per legge ed in ottemperanza dei principio Costituzionali, è
chiamato ad essere terzo ed imparziale rispetto alle parti ed alla cosa da decidere, deve
astenersi nel decidere ma qualora non lo facesse è dato alle parti uno strumento procedurale
per far in modo che il giudice che sia o appaia imparziale venga sostituito con altro giudice,
tale strumento si chiama Ricusazione. Essa può essere chiesta solo nelle ipotesi previste dal
comma 1 dell’art 51 cpc.
Per ricusare un giudice è necessario instaurare un apposito procedimento incidentale rispetto
al processo di merito e con un modus procedendi disciplinato dal codice di procedura.
L’iniziativa è rimessa solo alle parti, ciascuna delle quali può farlo in ogni stato e grado del
processo, fintantoché non si astiene volontariamente il giudice, può proporre l’istanza con
ricorso al presidente del tribunale se è ricusato un giudice di pace, o al collegio se è ricusato
uno dei componenti del tribunale o della corte d’appello.
Questo ricorso deve contenere diversi elementi:
indicazione degli motivi specifici (tra quelli individuati dall’art 51.1 cpc) per cui si
chiede la ricusazione del giudice;
i mezzi di prova che per questo vengono offerti a tal fine. Per essi si fa riferimento a
quanto indicato dal codice civile, dunque facendo rientrare come strumenti probatori:
dichiarazioni rese dal giudice ricusato;
le presunzioni, soprattutto se bisogna dimostrare l’inimicizia nei confronti di una
delle parti o del difensore;
le prove documentali o testimoniali, le quali debbono passare al vaglio
dell’ammissibilità e della rilevanza.
Il giudice ricusato non rivestendo la qualità di parte nel procedimento che lo vede ricusato,
gli è riconosciuta l’inammissibilità del giuramento e dell’interrogatorio.
Tale richiesta deve essere depositata in cancelleria due giorni prima dell’udienza se al
ricusante è noto il nome del giudice oppure qualora non lo fosse, potrà depositarlo prima
dell’inizio della trattazione o della discussione, a pena di inammissibilità (art 52 cpc). La
ricusazione sospende il giudizio di merito in corso (a discrezione del presidente del collegio
che se riterrà opportuno darà disposizione affinché vengano compiuti gli atti urgenti, e se si
tratta di giudice appositamente delegato, qualora dovesse compiere atti dopo il
procedimento di ricusazione saranno affetti da nullità) e viene decisa, sentito il giudice
ricusato ed assunte le prove offerte, con ordinanza non impugnabile che, qualora accogliesse
il ricorso, designerebbe il giudice che dovrà sostituire quello ricusato, diversamente respinge
il ricorso o lo dichiara inammissibile, prevedendo altresì le spese condannando la parte o il
difensore ad una pena pecuniaria che, dopo l’entrata in vigore della L. 69/2009 non può
essere superiore a 250 euro.
Entro 6 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che pronuncia sull’istanza di ricusazione,
alle parti è fatto onere di riassumere il processo di merito, pena la sua estinzione.
L’ordinanza è espressamente qualificata come non impugnabile e non impugnabile o meno,
si esclude la ricorribilità in cassazione ai sensi dell’art 111 della costituzione, perché difetta
del requisito della definitività.
IL PUBBLICO MINISTERO
Il Pubblico Ministero, è un organo dello Stato destinato ad operare accanto agli organi
giurisdizionali nell’interesse pubblico rappresentato dall’attuazione della legge. Il PM trova
spazio anche nella costituzione, agli articoli:
104 cost.: questo articolo sancisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo ed
indipendente da ogni altro potere;
107 cost.: sancisce che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di
funzioni e che il PM gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme
dell’ordinamento giudiziario.
L’ordinamento giudiziario all’articolo 73 stabilesce che “il PM veglia alla osservanza delle
leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello
Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci”.
Sempre l’ord giudiz. All’art 75 attribuisce al PM il potere di azione e di intervento nel
processo civile, nei casi stabiliti dalla legge. IMPIl PM non ha poteri decisori
La legge distingue tra due diverse figure di PM: agente ed interveniente.
PM agente (o attore): l’art. 69c.p.c. dispone che il pubblico ministero esercita l’azione civile
nei casi stabiliti dalla legge. Nel vasto gruppo di situazione in cui il PM deve agire, si
distingue un gruppo in cui tale azione tende ad ottenere dal giudice un provvedimento
favorevole ad una determinata persona (es. la nomina del curatore dello scomparso), ed un
gruppo in cui essa si pone come il limite di ordine pubblico alla libera esplicazione della
volontà delle parti (es. opposizione al matrimonio).
PM interveniente: ai sensi dell’art. 70 c.p.c. (il 1° e 2° comma), l’intervento del PM può
essere necessario o facoltativo. Il PM deve intervenire a pena di nullità (“intervento
necessario”, art. 70, comma primo) rilevabile anche d’ufficio in una serie di ipotesi, che
sono tassativamente elencate nel testo della norma:
nelle cause che egli stesso potrebbe proporre;
nelle cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei coniugi;
nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, e negli altri casi previsti dalla
legge;
ha inoltre l’obbligo di intervento in ogni causa davanti alla Corte di Cassazione (art. 70,
comma secondo).
Infine, il PM ha la facoltà di intervenire (“intervento facoltativo”), in ogni altra causa in cui
ravvisa un pubblico interesse (art. 70, ult. Comma, cioè 3°); tale apprezzamento riverbera la
discrezionalità operata dal PM ed è dunque incensurabile.
Affinché, il PM sia posto in condizione di poter intervenire, l’art. 71 c.p.c. contempla
l’obbligo del giudice davanti al quale è proposta una delle citate cause, di ordinare al
cancelliere la comunicazione degli atti del processo al PM stesso. Resta ferma la valutazione
del giudice per individuare la presenza dell’interesse pubblico che giustifica tale intervento.
L'intervento può essere utilmente compiuto fino al momento che precede il giudizio, ossia il
momento nel quale le parti precisano le conclusioni.
Il PM non è mai titolare del diritto sostanziale coinvolto nel processo, con la conseguenza
che egli potrà rinunciare all’azione esercitata nel processo, ma non potrà porre in essere atti
dispositivi del diritto sostanziale (esempio: la transazione, la rinuncia, ecc) escludendo,
altresì, che possa sollevare eccezioni sostanziali (come l’eccezione di prescrizione).
Le funzioni del PM, sono rappresentate dagli interessi che egli tutela, e da questo punto di
vista possiamo ben affermare che ciò lo avvicina al giudice (più che alla parte e meno ad un
organo amministrativo).
In conclusione, il sistema dei poteri processuali del PM si riassume in questo modo:E EAllorquando il PM ? titolare di azione (artt 60 e 70.1 n. 1 cpc) vanta tuttii poteri
processuali compreso quello di impugnazione;E EAllorquando il PM ha solo il potere di intervento (art 70.1 nn 2,3 e 5; art 70.2 cpc) non
ha gli stessi poteri delle parti, avendo un limite dell'iniziativa e nelle conclusioni delle parti e non vanta il potere di impugnazione. I poteri del PM. (art. 72 c.p.c.)
Qualora si tratti di PM agente o interveniente nelle cause che avrebbe potuto proporre (n. 1,
comma primo, art. 70), al PM vengono riconosciuti gli stessi poteri che competono alle parti
e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime (ciò riconosciuto
implicitamente dall’art 2907 cc che sancisce il principio secondo il quale “alla tutela
giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la
legge lo dispone, anche su istanza del PM o d’ufficio”). Negli altri casi di intervento, tranne
che nelle cause davanti alla Corte di Cassazione, il PM può produrre documenti, dedurre
prove, dare conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti. Inoltre, può proporre
impugnazioni contro le sentenze relative a cause matrimoniali, salvo che per quelle di
separazione personale.
Infine, l’art. 73 c.p.c. stabilisce che al PM si applica la norma relativa all’astensione del
giudice (art. 51 c.p.c.), ma non quella relativa alla ricusazione (art. 52 c.p.c.).
LA PARTE
Da premettere che il codice di rito non dà una definizione di parte (e tanto meno di
difensore), dunque in tale ambito sarà importante l’individuazione delle parti e la condizione
della parte nel processo.
Per l’individuazione delle parti enucleiamo un primo elemento grazie all’art 101 cpc il quale
enuncia il principio del contraddittorio, dal quale evinciamo che chi intraprende un giudizio
(e già questo è di per se costitutivo della qualità di parte) dovrà individuare il suo
contraddittore (quest’ultimo è sempre necessario); malgrado sembri paradossale ma quando
non esiste è necessario inventarlo (un esempio: un soggetto chiede di ottenere una sentenza
che accerti l’acquisto della proprietà di un immobile per usucapione, proprio per effettuarne
la trascrizione nei registri immobiliari con la finalità di permetterne la successiva
alienazione e quindi la circolazione del bene: una sentenza di questa portata si può ottenere
solo simulando al contestazione di quell’acquisto per usucapione da parte di un terzo e,
dunque, divergendo verso di lui, contraddittore di comodo, la domanda che tende
all’accertamento dell’intervenuta usucapione).
In sintesi, il problema non è quello di individuare un contradditore purchessia, ma il
legittimo contraddittore, quello che la dottrina delinea come “giusta parte”, cioè il
legittimato sostanziale passivo.
La legitimatio ad causam, nel suo duplice aspetto di legittimazione ad agire e contraddire, è
definita come la mera titolarità affermata, da un lato attivo e da un lato passivo, del rapporto
giuridico sostanziale dedotto in giudizio.
Tale azione dovrà essere esercitata nei confronti di soggetti capaci di contraddire e che non
si trovino in condizioni di incapacità o inidoneità (interdetti, inabilitati, minori di età, falliti).
Azione che deve, altresì, permettere la possibilità che essa venga esercitata a mezzo di un
rappresentante o di un sostituto della parte, e dovrà anche permettere il diverso modo di
partecipazione al commercio giuridico ed al processo degli enti collettivi, prevedendo anche
le complicazioni che possono emergere durante il processo stesso, pensiamo che nei
confronti di una delle parti in giudizio si determini un fenomeno successorio inter vivos o
mortis causa.
Le azioni di gruppo, la cd AZIONE DI CLASSE.
Iniziamo subito con un esempio: Azioni a tutela dei diritti dei consumatori e risparmiatori e
degli utenti. La legge 244/2007 entrata in vigore nel 2010 ha subito diverse modifiche che
hanno riguardato aspetti importanti della normativa come le categoria dei soggetti
legittimati all’esercizio dell’azione e la discussa ed alla eliminata retroattività dell’azione
collettiva rispetto a situazioni precedenti.
Analizziamo gli aspetti essenziali della legge 99/2009 che disciplina le azioni collettive
risarcitorie proponibili a partire dal 01/01/2010, per gli illeciti commessi a partire dal
15/08/2009 data di entrata in vigore della legge. Analizziamo:
1. Ambito oggettivo: l’oggetto della tutela accordata è triplice:
a. I diritto contrattuali di una pluralità di consumatori ed utenti che versano nei
confronti di una stessa impresa in situazione identica;
b. I diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei
confronti del relativo produttore, ma anche a prescindere da un diritto rapporto
contrattuale;
c. I diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori ed
utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
2. Ambito soggettivo: l’individuazione dei soggetti legittimati ad agire non lascia dubbi,
infatti il legislatore non ha riservato il “privilegio” o il “monopolio” dell’azione a
soggetti o enti associativi interessati, ma li estende, altresì, a ciascun componente della
classe. Più farraginosa è la questione che si estende a certi tipi di soggetti, ad esempio:
I soggetti che aderiscono all’azione di classe: l’adesione determina la possibilità di
godere degli effetti dell’accoglimento della domanda (giacché il tribunale che emette
il provvedimento di accoglimento, liquida le somme dovute o stabilisce il criterio di
calcolo per effettuare tale liquidazione) anche a favore di coloro che hanno aderito
all’azione, però comporta rinuncia di ogni azione restitutoria o risarcitoria
individuale fondata sullo stesso titolo;
I soggetti che vi restano estranei: dunque per coloro che non vi aderiscono resta salva
l’azione individuale. Comunque importante da sottolineare:
Non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei
confronti della stessa impresa, dopo la scadenza del termine per l’adesione
fissato dal giudice;
Le azioni proposte prima della scadenza di questo termine sono riunite alla
prima azione intrapresa.
Gli effetti dell’azione esercitata ed i benefici del provvedimento di accoglimento
non si estendono all’intera classe o categoria di consumatori o di utenti, ma sono
limitati esclusivamente al gruppo che con l’esercizio dell’azione o con l’adesione
è stato coinvolto nel procedimento
3. Svolgimento del procedimento: la domanda è proposta con citazione al tribunale
ordinario e la competenza territoriale viene determinata con riferimento al capoluogo
della regine in cui ha sede l’impresa. L’atto di citazione è notificato anche al PM presso
il tribunale adito, il quale avrà il potere di intervento (facoltativo) limitatamente al
giudizio di ammissibilità. Il procedimento si sviluppa in due fasi:
I.Fase di ammissibilità: si conclude con un’ordinanza emessa dal tribunale adito con la
quale può dichiarare l’inammissibilità in diverse ipotesi:
Quando è manifestatamene infondata;
Quando sussiste un conflitto di interessi,
Quando non vi è identità dei diritti individuali tutelabili;
Quando il proponente non appare in grado di tutelare l’interesse della classe.
Quando, invece, il tribunale ritenga la domanda ammissibile, fissa anche le modalità
pubblicitarie idonee a provocare la tempestiva adesione degli appartenenti alla classe;
II. Fase di merito: si conclude con una sentenza che giudica sull’an, accogliendo
la domanda sul quantum, liquidando le somme dovute a coloro che hanno aderito
all’azione o stabilendo il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione delle
somme. La sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti di coloro
che hanno aderito.
4. Reclamo di ordinanza di ammissibilità e impugnazione delle sentenze: contro
l’ordinanza che decide sull’ammissibilità è proponibile reclamo alla corte d’appello nel
termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione o notificazione. La sentenza diventa
esecutiva decorsi 180 giorni dalla pubblicazione ed è impugnabile innanzi la corte
d’appello.
La condizione giuridica della parte al processo.
Tra i problemi relativi alla parte è di rilevanza quello che concerne la capacità della stessa o,
per meglio dire, la sua partecipazione al giudizio quale soggetto abilitato ad esercitare poteri
processuali ed a compiere atti processuali. Al tal proposito esaminiamo la Legitimatio ad
processum (che non va assolutamente confuso con la legitimatio ad causam che concerne i
problemi legati alla legittimazione ad agire ed a contraddire nel processo). Infatti legati alla
legitimatio ad processum consideriamo i profili della presenza della parte e della sua
partecipazione al giudizio, riconducibili agli istituti, previsti dall’art 75 cpc:
Della capacità;
Della rappresentanza;
Dell’assistenza e dell’autorizzazione.
La dottrina opera una distinzione, rispetto alla condizione di parte, tra:
Capacità processuale, cioè capacità di essere parte, che compete a qualsiasi soggetto di
diritto;
Capacità di stare in giudizio, presuppone la capacità d’agire;
Jus postulandi, è riservato al difensore, salvi particolari casi.
Dunque per parte si deve intendere il soggetto concreto del processo e le persone che non
hanno il libero esercizio di diritti che vi si fanno valere, non possono stare in giudizio se
non rappresentate, assistite o autorizzate. Sorge una legittima domanda, e cioè che
significato abbia dire che un minore o un interdetto hanno la capacità di esser parti, ma non
la capacità di stare in giudizio quando, concretamente, se essi mancano della necessaria
assistenza o rappresentanza, non possono essere affatto contraddittori legittimi in un
processo, né come attori e né come convenuti, dunque, in sintesi, non possono essere parti
cioè titolari di situazioni giuridiche processuali.
Dunque coloro che hanno il libero esercizio dei loro diritti sono capaci d’agire in giudizio,
hanno capacità di essere parti (soggetti concreti del processo) e cioè di situazioni giuridiche
processuali (possibilità preclusa all’incapace, se privo di assistenza o rappresentaza), ma
questo discorso NON è da intendersi nel senso che possono compiere atti idonei ad essere
inseriti nel processo.
A raccordare tutte queste definizioni affermiamo che: la capacità del soggetto – parte è
capacità dispositiva del diritto sostanziale, che rappresenta uno svolgimento della sua
soggettività giuridica: egli può disporre dell’azione, può volerne l’esercizio e questa sua
volontà manifesta concretamente impegnando il difensore nella proposizione della
domanda. Questo suo atto di volontà dell’esercizio dell’azione, determina la responsabilità
per l’imputazione degli effetti che all’esercizio dell’azione conseguono.
Malgrado questa affermazione, la parte non è comunque considerata pienamente capace,
non riconoscendogli la capacità di porre in essere atti del processo e quindi lo priva dello
jus postulandi che invece riconosce al difensore.
Alcun dubbio viene in considerazione che l’azione appartiene sempre al soggetto-parte,
infatti è egli che ha il potere di disporne e di determinarsi in ordine all’istanza del giudizio.
Quindi da un lato è del soggetto-parte l’atto di iniziativa che si concreta con il conferimento
al difensore dell’incarico esercitare l’azione e di intraprendere il processo. Il soggetto-parte
fisserà, altresì, i limiti dei poteri di esercizio dell’azione, che vengono attribuiti al difensore
e si riservano alla parte gli atti di disposizione del diritto in contesa o dello stesso processo
(la rinuncia, ad esempio).
GLI ENTI COLLETTIVI
Gli enti collettivi partecipano al processo come:
1. enti persona: (premessa, si è ricordato che l’esistenza del soggetto è legata alla capacità
giuridica, che riveste un momento essenziale della soggettività, ma non può operarsi un
discorso del genere per quanto concerne la capacità d’agire, che di quella soggettività
rappresenta lo sviluppo, il momento dinamico. Infatti sull’onda di questo discorso si
possono palesare soggetti privi di capacità d’agire – esempio i minori, gli interdetti e
così via discorrendo, che, malgrado tale condizione, conservano la qualità di soggetti).
Dunque la coincidenza tra capacità d’agire e capacità giuridica è considerata essenziale
per le persone giuridiche. A questo punto ci si chiede come partecipano questi enti al
processo. La soluzione è data dalla predisposizione di organi. Con tale strumento si è
superato il problema del dualismo che vi era tra il soggetto titolare della fattispecie
giuridica e soggetto titolare delle situazioni giuridiche che al realizzarsi di quella
fattispecie concorrono. Dunque una persona giuridica che dovesse partecipare al
processo, ricorrerà all’organo e non al rappresentante, infatti lo strumento dell’a
rappresentanza legale si sostanzia nella tutela dei soggetti che sono incapaci d’agire ma
che conservano, comunque, l’idoneità a divenire titolari di situazioni giuridiche. Così il
rappresentante legale che compie atti giuridici lo fa nell’interesse dell’incapace, ma
questi atti non vengono imputati all’incapace, restano atti del rappresentante legale,
all’incapace vanno imputati solo gli effetti che dipendono dagli atti compiuti dal
rappresentane legale (ciascuno di questi soggetti conserva la propria individualità). Di
converso, l’organo e la persona giuridica, alla quale l’organo appartiene, non si
presentano come due soggetti distinti, l’organo viene ad immedesimarsi nell’ente e
l’individuo che assume questa qualità non può rimanere estraneo all’ente, ma deve
essere in questo incardinato. Con l’attività dei titolari degli organi si realizza la
partecipazione diretta degli enti-persona alla vita giuridica e, dunque, al processo con
conseguente coincidenza del soggetto che pone in essere l’atto con il soggetto che
diventa titolare dell’effetto giuridico. L’assenza di individualità autonoma del titolare
dell’organo è rilevante anche nel processo, pensiamo ad esempio alla morte, non
determinano alcuna diminuzione della capacità d’agire dell’ente e di conseguenza non
provocano la sospensione del processo;
2. enti di fatto, sono enti sociali ai quali l’ordinamento giuridico statale non riconosce
personalità giuridica. Questo determina una scissione tra il soggetto che pone in essere
l’atto con il soggetto titolare dell’effetto giuridico. Ma da ciò ne deriva, altresì, la piena
individualità del soggetto che agisce nell’interesse dell’ente di fatto e che sarebbe
investito del munus (cioè un onere gravoso) il quale non solo è autore degli atti giuridici
compiuti nell’interesse dell’ente, ma è colui che realizza con il proprio intervento quella
partecipazione (comunque mediata) alla vita giuridica di cui l’ente di fatto non è capace
(differenza con i soggetti persone fisiche e giuridiche). Il cd rappresentante dell’ente di
fatto (associazioni non riconosciute come persone giuridiche e comitati) cui secondo gli
accordi degli associati è conferita la presidenza o la direzione, non solo si presenta come
autonoma rispetto all’ente, ma è anche strumento per esprimere verso l’esterno
quell’azione di cui l’ente è capace solo attraverso di lui (differenza degli organi degli
enti-persona). In conclusione alle vicende della persona fisica investita di quel munus
(esempio: morte o perdita della capacità di stare in giudizio) è condizionata la
possibilità di azione dell’ente con conseguente applicazione, esempio, delle disposizioni
sull’interruzione del processo.
Difetto di capacità della parte.
È rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio; e può essere eccepito per la
prima volta anche in Cassazione. Tale difetto è, comunque, sanabile in qualunque stato e
grado del giudizio con effetto retroattivo. La sanatoria si realizza sempre con la costituzione
nel successivo grado di giudizio del rappresentante legittimato.
Dalla rappresentanza legale - in cui, per l’incapacità dei rappresentati, o per altre cause, è la
legge che conferisce il potere rappresentativo al rappresentante - differisce la
rappresentanza volontaria (art. 77 c.p.c.), in cui il potere rappresentativo è conferito dal
titolare del diritto (che così diverrà il rappresentato) attraverso un negozio (la procura).
Infine, la legge ha preso in considerazione un’eventualità contingente, ossia l’ipotesi che:
per una ragione qualsiasi, manchi la persona alla quale spetti la rappresentanza o
l’assistenza e, d’altra parte, esistano ragioni di urgenza;
il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.
Per questa eventualità, l’art. 78, comma primo, prevede la nomina - su istanza
dell’interessato, ancorché incapace, dei suoi prossimi congiunti o del p.m. (art. 79 c.p.c.) - di
un curatore speciale all’incapace, alla persona giuridica o all’associazione non riconosciuta,
con i poteri di rappresentanza o di assistenza in via provvisoria, ossia finché subentri colui
al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza.
Queste disposizioni delineano una tutela speciale circoscritta al solo processo e rientra nella
competenza dello stesso giudice innanzi al quale pende (lo si nota dalla legittimazione
all’istanza attribuita all’art 79.2 cpc a “qualunque altra parte in causa”, che si traducono nel:
PM, i prossimi congiunti dell’incapace e , in caso di conflitto di interessi, al rappresentante,
anche alla persona che deve essere rappresentata o assistita, sebbene incapace) o in
ottemperanza dell’art 80.1 cpc deve essere proposta la causa nell’interesse dell’incapace.
RAPPRESENTAZA PROCESSUALE.
Partendo da quanto stabilisce l’art 1387 cc, l’autore dell’atto e il soggetto al quale vengono
imputati gli effetti di questo atto posto in essere dal primo, tale imputazione si determina
perché l’autore dell’atto agisce in nome e per conto del rappresentato ed esercitano un
potere che gli è conferito dalla legge o per volontà del rappresentato.
Poiché l’art 81 cpc rubricato “sostituzione processale” stabilisce “fuori dai casi
espressamente previsti dalla legge (artt 108 cpc, 111 commi 1 e 2 cpc, 2900 cc) nessuno può
far valere nel processo in nome un diritto altrui. Dunque la lettura di questo precetto non
lascia dubbi “un soggetto agirebbe non in nome e per conto altrui (e cioè con la spendita
del nome) ed esercitando l’altrui interesse (come agisce il rappresentante) ma piuttosto
facendo valere nel processo in nome proprio, un diritto altrui”.
La condizione dell’ammissibilità della rappresentanza volontaria nel processo è interdetta se
non congiunta con la corrispondente rappresentanza volontaria.
In sintesi:
Dalla rappresentanza legale - in cui, per l’incapacità dei rappresentati, o per altre cause, è la
legge che conferisce il potere rappresentativo al rappresentante - differisce la
rappresentanza volontaria (art. 77 c.p.c.), in cui il potere rappresentativo è conferito dal
titolare del diritto (che così diverrà il rappresentato) attraverso un negozio (la procura).
Il falsus procurator è colui che agisce nel nome di un soggetto senza averne il potere, o per
cessazione del suo ufficio o per difetto di procura.
Secondo il regime della rappresentanza senza potere (disciplinato dall’art 1398 cc) si deve
riconoscere la possibilità per l’interessato di ratificare anche nel processo l’operato del
falsus procurator giovandone direttamente del risultato utile. A tale facoltà, assolutamente
discrezionale, del falsamente rappresentato combacia l’onere per lui di impugnare la
sentenza che emesso nel giudizio intrapreso dal falus procurator, gli venga notificata
personalmente ed anche se in difetto la sentenza passerà in giudicato.
SOSTITUZIONE PROCESSUALE.
A un’attenta analisi dell’art 81 cpc l’esame della disposizione far valere “in nome proprio un
diritto altrui” dimostra che il soggetto che agisce non si limita alla spendita del proprio
nome per far valere un diritto altrui. I casi più frequenti in cui tale sostituzione processuale:
impugnazione a norma dell’art 117 cc da parte dei genitori, del PM, ltre che dei coniugi,
del matrimonio contratto in violazione degli artt:
art 84 cc: età
art 86 cc: libertà di stato
art 87 cc: parentela, affinità, ecc
art 88 cc: delitto.
Impugnazione da parte dei coniugi del secondo matrimonio dell’altro coniuge (ex art
124 cc);
L’azione surrogatoria (art 2900 cc).
Prendiamo l’esempio del padre che impugna il matrimonio del figlio minorenne, egli non si
limita a spendere il proprio nome esercitando il diritto del figlio, ma esercita un proprio
diritto riconosciutogli dalla legge all’art 117 cc.
Dunque, in sintesi, il sostituto processuale non si limita ad agire nel proprio nome, ma
esercita un proprio diritto che interferisce in un rapporto altrui.
La successione nel processo e nel diritto controverso.
Durante il processo può accadere che la parte venga meno, sia:
1. per morte (se persona fisica)
2. per altra causa (es: soppressione autoritativa dell’ente al quale sia affidato di regolare i
rapporti preesistenti o allo Stato)
3. per l’estinzione dello della società conseguente a fusione o ad incorporazione.
Nella prima ipotesi può accadere che il diritto controverso venga trasferito a titolo
particolare (come nel caso di legato di specie nelle successioni testamentarie). A questa
ipotesi di successione mortis causa (a titolo universale o a titolo particolare) affianchiamo il
caso della successione inter vivos, seguendo l’opinione comune, solo a titolo particolare
(non già a titolo universale).
Dobbiamo, quindi, individuare quali conseguenze si determinano nel processo a seguito di
questi eventi successori, nel dettaglio:
a. chi succede nel processo: bisogna distinguere:
I. successione mortis causa (operando una doverosa distinzione tra successione a titolo
universale e a titolo particolare), laddove si paventasse un’ipotesi del genere, le
conseguenze per il processo in corso sarebbero influenzate dal fatto che il bene della
vita, coinvolto nella controversia, sarebbe oggetto di una disposizione a titolo
particolare (cioè di un legato) o rientrerebbe nell’universum jus attribuito all’erede. Il
processo proseguirebbe sempre nei confronti del successore universale;
II. successione inter vivos realizzandosi una situazione del genere (che secondo la
prevalente opinione può essere solo a titolo particolare, dunque si trasferirebbe solo
<<per atto volontario esempio: la compravendita del bene>> o <<per atto autoritativo
esempio il caso della nazionalizzazione delle imprese elettriche>>) di determinati
diritti controversi, il legislatore deve rispondere a determinati problemi che potrebbero
sorgere in occasione della legittimità del trasferimento della res litigiosa, proprio
perché questo trasferimento non può e non deve pregiudicare la parte che ha esercitato
il suo diritto nel processo e che tende a vederlo riconosciuto e tutelato dal giudice. Le
due soluzioni potrebbero essere: la prima si concretizza mediante il divieto di
alienazione del bene; la seconda tiene conto dell’esigenza di non rendere impossibile,
in pendenza del processo, la circolazione e quindi il trasferimento del bene. Dunque
questo si realizza prevedendo la cd perpetuatio legitimationis del soggetto alienante e,
in particolare, stabilendo la regola che, nell’ipotesi di successione a titolo particolare
nel diritto controverso, il processo prosegue nei confronti delle parti originarie e cioè
dell’attore e del convenuto.
b. In che cosa succede, quando il fenomeno successorio si determina nel corso del
processo. Se il soggetto titolare di quella posizione che gli viene riconosciuta come
diritto, non incontra ostacoli nel soddisfare pacificamente l’interesse che a quella
posizione è collegato, per una generale cooperazione dei consociati, colui che gli
succede nella stessa posizione non solo avrà jure successionis (e dunque la titolarità di
quel diritto) ma si sostituirà a lui nella stessa situazione che gli assicura in linea di fatto
il soddisfacimento (attuale o potenziale) dell’interesse. L’ordinamento gli riconoscerà lo
stesso trattamento e la stessa tutela attribuita al de cuius. Diverso sarà il caso di rifiuto
della cooperazione volontaria che è essenziale al soddisfacimento dell’interesse.
Ovviamente il soggetto lamenterà la lesione del suo diritto e affronterà il processo per
l’affermazione e la reintegrazione del suo diritto. Egli difenderà il suo diritto
dimostrando la corrispondenza la posizione di interesse (di cui si dichiara titolare) e la
previsione normativa, e denuncia il rifiuto di cooperazione di un altro consociato (che si
è tradotto nel mancato adempimento della prestazione dovuta o nell’arbitraria invasione
nella sua sfera di godimento). Dunque per farla breve per qualificare la posizione del
successore non è rilevante vedere se il diritto esiste o non esiste (perché un’indagine del
genere sarebbe poco corretta e superflua). Infatti la cd successione jure successionis nel
processo non è collegata o dipendente dall’esistenza-inesistenza del diritto, ma si
concreta in presenza del semplice acquisto da parte del soggetto della qualità di parte dal
suo dante causa. Dunque se il successore vede respingere, in quel processo, le domande
del dante causa, non significa che egli non è succeduto al dante causa o che è succeduto
in un niente. Ma il successore è succeduto in una situazione giuridica i cui sviluppi
hanno condotto al rigetto della domanda, infatti il successore potrà essere condannato al
pagamento delle spese, e ad altri oneri derivanti dall’aver intrapreso l’azione.
c. Problematica della conseguenze sul processo dell’avverarsi, nel piano dei rapporti
sostanziali, di un fenomeno successorio. Resta da stabilire, quanto la successione mortis
causa connotata dal venir meno del soggetto che era parte originaria, come si realizza la
sostituzione di questa parte con il suo successore universale, e quanto alla successione a
titolo particolare (sia mortis causa che inter vivos) in cui il soggetto legittimato a
proseguire il processo (erede o parte originaria) non coincide con il soggetto che ha
acquistato la titolarità del diritto controverso (legatario o acquirente), quali siano gli
effetti del processo e le tutele relative a quest’ultimo.
I. Il primo problema concerne sia i fenomeni successori tra enti collettivi, sia quelli tra
persone fisiche, entrambi caratterizzati dal venir meno della parte originaria e dal venir
meno della parta originaria e dell’intervento di un nuovo soggetto che deve costituirsi
e difendersi nel processo, con la conseguente necessità di approntare la tutela della
parte nel tempo necessario per realizzare tale sostituzione. Questa tutela si concreta
con l’interruzione del processo (art 299 ss cpc);
II. Il secondo problema è risolto dal legislatore con l’approntamento di un regime di
tutele del successore a titolo particolare, adeguato alla condizione di soggetto che,
malgrado restando assente dal processo, che viene proseguito dal successore universale
o dalle parti originarie, subisce gli effetti della sentenza pronunciata nei confronti di
questi ultimi, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei beni immobili e della
trascrizione per gli immobili (art 111.4 cpc). Infatti è riconosciuta al successore a titolo
particolare la legittimazione ad intervenire o ad essere chiamato nel processo ed, in tal
caso, se le altre parti lo consentono, l’alienante o il successore universale può essere
estromesso (art 111.3 cpc). Si realizzi o meno questo intervento, spontaneo o
provocato, nel processo in corso, la sentenza che lo conclude è direttamente
impugnabile anche da lui (art 111.4 cpc).
IL PROCESSO CON PLURALITA’ DI PARTI
Si ha litisconsorzio quando nel processo vi è una pluralità di parti, e cioè quando vi sono più
attori (litisconsorzio attivo) o più convenuti (litisconsorzio passivo). Il litisconsorzio è
ammesso per due ragioni: il principio dell’economia dei giudizi, e quello della non
contraddittorietà dei giudicati.
Rispetto al momento in cui si verifica la presenza di più parti il litisconsorzio può essere
“originario” o “successivo” (c.d. intervento).
Rispetto al rapporto che lega le parti tra loro, il litisconsorzio originario può essere
necessario o facoltativo.
Il litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.): esso si ha quando la decisione non può essere
pronunciata che nei confronti di più parti, in tal caso queste devono agire o essere convenute
nello stesso processo (es. la domanda di divisione deve proporsi nei confronti di tutti gli
eredi, o di tutti i condomini). Nel caso in cui il giudizio viene promosso senza la presenza di
tutti i litisconsorti - e cioè da alcune parti o soltanto nei confronti di alcune di esse -, il
giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui
stabilito, decorso inutilmente, si avrà come conseguenza, l’estinzione del processo. Inoltre,
qualora il giudice dovesse proseguire il giudizio nonostante la mancanza di un litisconsorte
necessario, la sentenza pronunciata sarà come inutiliter data, ossia non produrrà effetti
neanche nei confronti delle parti costituite.
Il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.): questo si verifica quando per ragioni di
convenienza pratica, due azioni vengono esercitate nello stesso processo; non si tratta però
di una riunione imposta dalla legge. Questo può essere proprio (più persone possono agire o
essere convenute nello stesso processo a condizione che fra le cause proposte esista
connessione per l’oggetto o per il titolo); e può essere improprio (quando la decisione
dipende totalmente o parzialmente dalla soluzione di identiche questioni). Nel litisconsorzio
facoltativo le azioni connesse, sebbene proposte nello stesso processo, rimangono distinte e
possono essere decise in modo differente: a norma dell’art. 103, comma secondo, c.p.c., il
giudice può disporre, nel corso dell’istruzione o nella decisione, la separazione delle cause,
se vi è istanza di tutte le parti, o quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua
competenza.
L’intervento (litisconsorzio successivo)
L’intervento si verifica quando in un processo già iniziato subentra un soggetto estraneo,
diverso dalle parti originarie. Con l’intervento, il terzo, acquista la qualità di parte, e
determina spesso un ampliamento dell’oggetto processuale. La ragione pratica di tale
istituto è data dal fatto che la posizione del terzo potrebbe subire delle conseguenze indirette
dalla sentenza altrui. La legittimazione all’intervento si fonda su una connessione oggettiva
tra l’azione in corso e quella che il terzo vuole proporre, ovvero che si vuole esercitare
contro di lui.
L’intervento può essere di tre tipi: volontario, coatto su istanza di parte e coatto per ordine
del giudice (cd jussu judici).
L’intervento volontario (art. 105 c.p.c.): è l’intervento dovuto all’iniziativa spontanea del
terzo, che, potendo in qualche modo risentire delle conseguenze derivanti da un processo di
cui non è parte, ha interesse allo svolgimento e all’esito del processo stesso. Si tenga
comunque presente che il terzo potrebbe attendere la fine del processo e proporre
l’opposizione di terzo (ex art. 404 c.p.c.) contro la sentenza. Tale intervento a sua volta può
essere:
1) principale, quando l’interveniente afferma un diritto proprio in contrasto sia con l’attore
che con il convenuto (es. Tizio rivendica una cosa nei confronti di Caio, Sempronio
interviene sostenendo che quel bene è il suo);
2) adesivo autonomo o litisconsortile, quando l’interveniente, pur facendo valere un diritto
autonomo, assume una posizione uguale a quella di una delle parti; la sua difesa, pur
coincidendo con quella di una delle parti, comunque rimane sempre distinta da essa. Proprio
per tale motivo l’interventore adesivo autonomo può proporre domande nuove o impugnare
autonomamente la sentenza;
3) adesivo dipendente (ad adiuvandum), anche qui il terzo sostiene le ragioni di una delle
parti, ma non potrebbe agire da solo, non vantando nessun diritto, ma avendo solo un
interesse nella causa (es. il sub-conduttore che interviene nella causa pendente tra il locatore
ed il conduttore altro condebitore.). Per tale situazione di dipendenza processuale,
l’interventore non può proporre impugnazione autonoma se la parte adiuvata vi abbia
rinunciato.
L’intervento coatto su istanza di parte (art. 106 c.p.c.): tale tipo di intervento può essere di
due tipi:
1) intervento coatto su istanza di parte “in senso proprio”, il quale si verifica quando una
delle parti ritenga la sua causa comune ad una terzo. Siamo davanti ad un’ipotesi di
connessione oggettiva per oggetto o titolo. Si tratta di chiamare in causa i terzi che
avrebbero potuto spiegare intervento principale o adesivo autonomo;
2) “chiamata in garanzia”, che ricorre quando il convenuto chiama in causa il proprio
garante per essere coadiuvato nella difesa e, in caso di soccombenza, per esercitare nei suoi
confronti l’azione di regresso.
L’intervento coatto per ordine del giudice (cd jussu judici) (art. 107 c.p.c.): il giudice può
disporre l’intervento quando ritiene che il processo si debba svolgere nei confronti di un
terzo al quale la causa sia comune. L’ordine di intervento non è diretto al terzo, ma alla parte
che deve provvedere alla chiamata, mediante citazione. Se la parte non ottempera la causa
viene cancellata dal ruolo. Il giudice può ordinare l’intervento per economia dei giudizi, per
garantire unità e uniformità di decisione sui rapporti connessi, oppure per tener conto
dell’interesse del terzo e tutelare le sue ragioni.
IL DIFENSORE
Le parti possono stare in giudizio soltanto con l’assistenza di un difensore legalmente
esercente, al di fuori di ipotesi tassative, in cui possono agire personalmente:
davanti al giudice di pace, nelle cause il cui valore non ecceda euro 516,46 (art. 82,
comma primo);
il giudice di pace, tenuto conto della natura e dell’entità della causa, su istanza di parte,
può autorizzare la stessa a stare in giudizio di persona (art. 82, comma secondo);
quando la parte ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore (art. 86).
Davanti alla Corte di Cassazione le parti devono farsi assistere da avvocati iscritti
nell’apposito albo. Quando le parti stanno in giudizio con il ministero di un avvocato, questi
deve essere munito di procura generale (ad lites) o speciale (ad litem). La procura speciale
si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è
espressa volontà diversa. La procura si conferisce mediante:
atto pubblico
scrittura privata autenticata
con una dichiarazione apposta in calce o a margine dell’atto con cui la parte intraprende
il processo (ricorso, citazione, ecc)
dell’atto con il quale si inserisce in un processo già iniziato da altri (comparsa di risposta
o di intervento, controricorso, domanda di intervento nell’esecuzione).
La legge 69/2009, novellando l’art 83.3 cpc, ha ammesso espressamente la possibilità
che la procura speciale ad litem, venga apposta in calce o a margine della memoria di
costituzione del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione, del difensore
originariamente designato. In base a quanto stabilisce suddetto articolo del codice di rito,
l’autografia della sottoscrizione deve essere “certificata” dal difensore. La
“certificazione” non va confusa con “l’autenticazione” della sottoscrizione della parte in
calce alla procura, perché in questo caso tale sottoscrizione <<deve avvenire dinanzi ad
un pubblico ufficiale il quale, attesta, appunto, che essa è stata apposta in sua presenza
(art 2703 cc)>>. Mentre nel caso della certificazione operata dal difensore (presupposto
è che esso sia certo della provenienza dell’atto e della sua sottoscrizione da parte del
cliente) non impone in ogni caso che la stessa sia stata apposta in sua presenza.
La procura può essere sempre revocata dalla parte, o il difensore può rinunciarvi. Il
difensore può compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti che la legge non
riservi espressamente (art 83 cpc).
Doveri e responsabilità delle parti e di loro difensori: la condanna alle spese processuali
Sia le parti che i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e
probità (onestà e integrità morale). Il difensore che non dovesse ottemperare a tali
prescrizioni, metterebbe il giudice nelle condizioni di riferire ciò al Consiglio dell’ordine
degli Avvocati (sia il consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo in cui il
professionista è iscritto, sia il consiglio dell’ordine nella giurisdizione del quale è avvenuto
il fatto per cui si deve procedere, poiché la competenza a procedere è di entrambi).
Secondo il dovere di continenza, la parte ed il difensore, non devono utilizzare frasi
sconvenienti od offensive, sia negli atti presentati sia nei discorsi pronunciati in giudizio. Se
violano tali prescrizioni, si può dar vita a due sanzioni previste dal codice di rito:
Emanazione, in ogni stato dell’istruzione, di un’ordinanza di cancellazione delle
espressioni sconvenienti ed offensive;
Assegnazione alla persona offesa di una somma a titolo di risarcimento del danno (anche
non patrimoniale) nel caso specifico in cui le espressioni offensive non riguardino
l’oggetto della causa (art 88 e 89 cpc).
La condanna delle spese
Circa le spese processuali vigono due principi fondamentali:
il “principio dell’anticipazione delle spese”, in quanto ciascuna parte provvede ad
anticipare le spese del giudizio;
il “principio dell’onere della soccombenza”, secondo cui le spese sono poste a carico,
appunto, della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa (art. 91 c.p.c.). La
regola della soccombenza può talora essere, al contrario, resa più rigorosa, fino ad
assumere i caratteri propri di un autentico risarcimento dei danni. È questa la fattispecie
della c.d. responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. Tale fattispecie si configura
quando viene accertato che la parte soccombente abbia agito (in caso di soccombenza
dell’attore) o resistito in giudizio (in caso di convenuto) con mala fede o colpa grave
(comportamento che si suole qualificare come temerarietà della lite).
Resta fermo che la parte non abbiente potrà chiede il patrocinio dello Stato.
Concluso il processo, se le parti sono più di una il giudice potrà scegliere se condannare alle
spese ed ai danni di ciascuna di esse, proporzionalmente al rispettivo interesse nella causa,
oppure la condanna solidale di tutte o alcune di esse, allorquando hanno un interesse
comune. In caso di condanna alle spese e ai danni, non viene statuito nella sentenza il
criterio di ripartizione, si riterranno divise in quote uguali (art 97 cpc) e, laddove mancasse
un’espressa pronuncia, a carico di ogni parte pro quota, senza vincolo di solidarietà.
Il giudice, comunque, potrebbe non applicare alcuna ripartizione delle spese della parte
vincitrice, ritenendola eccessiva e superflua e magari condannare il vincitore al rimborso
delle spese non ripetibili che abbia causato all’altra parte per violazione del dovere di lealtà
e di probità.
L’art 92 cpc stabilisce che il giudice potrà operare una compensazione delle spese tra le parti
(per intero o totale) ciò avviene se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti
motivi, tali motivi debbono essere esplicitamente indicati nella motivazione.
Nel 2009 con la L. 69 si è ancora intervenuti all’art 92.2 imponendo al giudice di indicare
esplicitamente le “altre gravi ed eccezionali ragioni” che, alternativamente alla reciproca
soccombenza, giustificano il provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese
di giudizio.
Sempre con la L. 69/2009, che ha modificato il comma 1 dell’art 91 cpc, presuppone che
venga utilizzato nel corso del processo, uno strumento alternativo per la soluzione delle
controversie, cioè la Conciliazione che non solo è facoltativo, ma dopo il 2005, è altresì
eventuale, infatti non viene più esperito dal giudice nella prima udienza ed è condizionato
alla richiesta congiunta di entrambe le parti. Allorquando si ricorra a tale strumento o venga
formulata da una delle parti, il rifiuto dell’altra parte (senza giustificato motivo) determina
che, in sede di regolamento delle spese di giudizio, il giudice condanni la parte, in misura
non superiore rispetto all’ammontare della domanda richiesta dall’altra parte, al pagamento
delle spese di giudizio maturate dopo la formulazione della proposta di conciliazione stessa.
Tale condanna è obbligatoria e non dipendente da una discrezionalità del giudice.
La riparazione del danno può essere soddisfatta, altresì, con la pubblicazione della sentenza,
infatti il giudice può ordinarla a spese del soccombente, non solo per estratto su uno o più
giornali, ma sempre attraverso l’inserzione per estratto o mediante comunicazione, nelle
forme specificatamente indicate dal giudice (in una o più testate giornalistiche, radiofoniche
o televisive o in siti internet da lui designati).
La legge 69/2009 ha aggiunto il comma 3° all’art 96 cpc il quale prevede la possibilità per il
giudice che pronuncia sulle spese, di condannare la parte soccombente a pagamento, in
favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Tale somma è intesa
come uno strumento finalizzato a scoraggiare, il più possibile, le liti temerarie, poiché
permette la condanna della parte soccombente, anche d’ufficio, ed indipendentemente dalla
prova dei danni subiti dalla controparte, prova che, viceversa, era ritenuta necessaria per la
condanna al risarcimento dei danni. Questo potere del giudice, è ritenuto meramente
discrezionale.