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APPUNTI ESTESI DELLA CRP – I. KANT
1 La rivoluzione copernicana Nella Critica della ragion pura Kant affronta il problema della conoscenza muovendo
dall’esame delle soluzioni proposte dal razionalismo e dall’empirismo
La Critica della ragion pura, la prima opera del periodo critico, è dedicata al problema della
conoscenza. Kant la scrisse in soli quattro o cinque mesi, di getto, dopo una riflessione durata però
dodici anni, senza curarsi della forma ma solo del contenuto. Dopo la prima edizione del 1781 Kant
sentì quindi l’esigenza di affiancarle una versione più breve e più popolare dal titolo i Prolegomeni
ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, uscita nel 1783. Poi nel 1787 apparve
la seconda edizione della Critica della ragion pura con importanti rimaneggiamenti rispetto alla
prima edizione. Già nel titolo traspare l’obiettivo di Kant: “criticare”, nel senso di giudicare la
ragione nel momento in cui è “pura”, cioè non mescolata a nulla di empirico; la critica, dunque, sarà
interamente condotta a priori, ovvero indipendentemente dall’esperienza. Scrive Kant:
Sotto il nome di conoscenze a priori s’intendono quelle che sono indipendenti non da questa o da
quella, ma da ogni esperienza. A esse si oppongono quelle a posteriori, che sono possibili solo per
mezzo dell’esperienza. Delle conoscenze a priori diciamo pure quelle a cui non è misto nulla di
empirico.
Nella prefazione alla prima edizione dell’opera, Kant spiega così il motivo profondo da cui muove
la sua indagine:
La ragione umana ha particolare destino di venire assediata da questioni, che essa non può
respingere, perché le sono assegnate dalla ragione stessa, ma alle quali non può dare neppure
risposta, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana.
Detto altrimenti, la ragione tende a occuparsi anche di questioni non di sua competenza, che vanno
cioè al di là delle sue possibilità. Ma se così è, tutte le nostre certezze vanno messe in discussione a
incominciare da quelle riguardanti le discipline più teoriche, in quanto più distanti dall’esperienza
da cui ogni conoscenza dovrebbe cominciare. Dopo queste considerazioni, nell’introduzione
all’opera Kant dichiara di volere rispondere ai seguenti quattro quesiti:
1. “Com’è possibile la matematica pura?”
2. “Com’è possibile la fisica pura?”
3. “Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale?”
4. “Com’è possibile la metafisica come scienza?”
Gli ultimi due quesiti vengono poi riassunti nei Prolegomeni in uno solo: “È possibile, in generale,
la metafisica?”. L’obiettivo che dunque Kant si pone con la Critica della ragion pura è decisamente
ambizioso: scoprire la natura della vera conoscenza, che coincide con la scienza, così da
sconfiggere il dogmatismo, lo scetticismo e l’indifferentismo che a suo modo di vedere affliggono il
dibattito culturale del suo tempo:
• il dogmatismo di chi fa ricorso in modo dispotico a «principi che oltrepassano ogni possibile
esperienza»;
• lo scetticismo di chi opponendosi al dogmatismo nega ogni possibile conoscenza scientifica;
• l’indifferentismo di chi finge di non essere interessato alla conoscenza scientifica, mentre «il suo
oggetto non può mai essere indifferente alla natura umana».
Nella teoria dei giudizi, Kant analizza le concezioni gnoseologiche dei razionalisti e degli
empiristi: entrambe vengono ritenute inadeguate Alla risoluzione del problema della conoscenza è dedicata la teoria dei giudizi in cui Kant si
sofferma sulle tendenze gnoseologiche tradizionali riassumibili nello scontro tra razionalismo ed
empirismo. La conoscenza si esprime attraverso dei giudizi, così chiamati perché costituiti da un
soggetto di cui si dice qualche cosa nel predicato: per esempio, “la Terra è rotonda”. I giudizi dei
razionalisti e degli empiristi sono frutto di convinzioni opposte, entrambe però inaccettabili agli
occhi di Kant. Secondo Kant, infatti, i razionalisti partono da un presupposto dogmatico: esistono le
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idee innate, esiste cioè una struttura mentale a priori precedente e indipendente dall’esperienza
sensibile. Il processo conoscitivo dei razionalisti consiste dunque nel formulare giudizi analitici a
priori, frutto cioè di un’analisi che non dipende dall’esperienza, ma da un ragionamento fondato sul
principio di identità, cioè su di una tautologia. Per esempio, se affermo “i corpi sono estesi”, il
concetto di estensione presente nel predicato è un giudizio universale e necessario: non potrebbe
infatti essere diverso. Si tratta però di un giudizio infecondo in quanto non produce nuova
conoscenza: per definizione, infatti, tutti i corpi sono estesi. Per contro, gli empiristi sostengono che
la conoscenza possa solo essere frutto dell’esperienza: di conseguenza possa solo essere a
posteriori, successiva cioè al rapporto con il mondo esterno. I loro giudizi sono quindi sintetici, in
quanto sintesi dei dati dell’esperienza. Per esempio, se affermo “i corpi sono pesanti” il predicato
“pesante” aggiunge qualche cosa di nuovo alla mia conoscenza, in quanto si tratta di
un’affermazione che si può formulare solo dopo aver fatto esperienza di tanti corpi distinguendoli
da quelli che mi sembrano leggeri (mentre l’estensione è già insita nella definizione di corpo): si
tratta cioè di un giudizio fecondo in quanto produce una nuova conoscenza legata però soltanto
all’esperienza compiuta, e quindi non universale né necessaria. Inevitabilmente dunque l’approccio
conoscitivo degli empiristi porta allo scetticismo: non ci si può infatti fidare dei sensi che, per
esempio, ci fanno sembrare il sole piccolo. Dopo aver constato l’inadeguatezza delle concezioni
gnoseologiche tradizionali a Kant non rimane che cercare di trovare un modo alternativo di
giustificare la conoscenza.
Kant definisce la svolta gnoseologica da lui operata una “rivoluzione copernicana”: come infatti
Copernico aveva messo al centro dell’universo il Sole, e non la Terra, così Kant pone a fondamento
della conoscenza il soggetto che conosce e non l’oggetto conosciuto. Secondo Kant, infatti, non è la
nostra struttura mentale (Sole) che si adatta alla natura (Terra), ma è la natura (Terra) che si adatta
alla nostra struttura mentale (Sole). Ciò non significa che non esistano le cose reali al di fuori della
mente, ma che - come accadeva al re Mida che trasformava tutto in oro - quando la mente umana
entra in contatto con le cose le trasforma in qualcos’altro. Se noi dunque poniamo al centro del
rapporto conoscitivo il soggetto conoscente (Sole), e attorno a esso facciamo ruotare l’oggetto
conosciuto (Terra), diventa possibile giustificare la conoscenza senza cadere nel dogmatismo dei
razionalisti o nello scetticismo degli empiristi. Così facendo siamo infatti in grado di esprimere dei
giudizi che sono: sintetici (fecondi) a priori, universali e necessari. Si tratta di giudizi che unendo
gli aspetti positivi dei razionalisti e degli empiristi rappresentano la prima importante conclusione a
cui perviene la riflessione della Critica della ragion pura: per Kant infatti i giudizi sintetici a priori
sono i pilastri su cui si fonda la scienza. Il fondamento del nostro modo di conoscere gli oggetti è
dunque a priori, cioè nel soggetto stesso che sente e pensa. Questo tipo di conoscenza viene definita
da Kant “trascendentale”: termine che indica lo studio filosofico delle forme pure a priori presenti
nel soggetto e che rendono possibile la conoscenza. Trascendentale non è dunque qualcosa che
oltrepassa ogni esperienza, ma qualcosa che è a priori, che precede cioè ogni conoscenza e la rende
possibile (TESTO La rivoluzione copernicana). Detto altrimenti, per Kant la conoscenza ha
certamente origine dall’esperienza: non c’è dubbio alcuno infatti che la nostra conoscenza
incomincia con l’esperienza, perché in essa trova l’occasione del suo sorgere. Non per questo
tuttavia la conoscenza deriva tutta dall’esperienza, perché l’esperienza è preceduta dalle
caratteristiche della mente umana. Per comprendere dunque il significato della conoscenza bisogna
partire dall’uomo, e non dalle cose, poiché le cose per essere conosciute devono essere pensate in
un certo modo. È questo, in sintesi, il significato della rivoluzione copernicana.
Individuando i giudizi sintetici a priori Kant mostra che la conoscenza deriva dall’esperienza
ma che non può essere del tutto ridotta a essa
L’articolazione della Critica della ragion pura mira a distinguere le vere scienze, come ad
esempio la matematica e la fisica, dalla metafisica, che non era scienza Secondo Kant, «ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire alla
ragione». Tre sono dunque le facoltà conoscitive della ragione intesa in senso lato:
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• la sensibilità, cioè la facoltà che attraverso i sensi intuisce gli oggetti e li rappresenta attraverso
spazio e tempo;
• l’intelletto, cioè la facoltà con cui pensiamo gli oggetti;
• la ragione (in senso stretto), cioè la facoltà con cui tendiamo a spiegare globalmente la realtà
attraverso le idee di anima, mondo e Dio.
Da qui l’articolazione dell’opera a partire da due sezioni:
• la dottrina degli elementi che ha come obiettivo quello di individuare gli elementi formali della
conoscenza chiamati da Kant puri o a priori;
• la dottrina del metodo che si propone di individuare l’uso di questi elementi puri o a priori nel
processo conoscitivo.
La sezione dedicata alla dottrina degli elementi a sua volta si articola in tre principali parti:
1. l’estetica trascendentale, che studia la sensibilità nel momento in cui intuisce gli oggetti per
mezzo dell’esperienza;
2. la logica trascendentale, che studia la ragione nel momento in cui riflette sui dati dell’esperienza
e che a sua volta si articola in:
a. l’analitica trascendentale, che studia gli elementi (concetti e categorie) della conoscenza pura
dell’intelletto;
b. la dialettica trascendentale, che studia l’uso dei concetti e delle categorie nel momento in cui
danno luogo alle idee metafisiche.
Sui principi a priori della sensibilità e dell’intelletto si fondano la matematica e la fisica, mentre
l’applicazione di questi principi alle intuizioni sensibili rende possibile le scienze naturali. La
metafisica, invece, pretende di fare affermazioni su oggetti che non sono frutto di una qualche
intuizione sensibile (per esempio, l’esistenza dell’anima). Per questa ragione la metafisica non è
possibile come scienza, cioè come conoscenza oggettiva e fondata, anche se resta una naturale
disposizione dell’uomo.
2 L’estetica trascendentale Lo studio della sensibilità permette di giungere a una prima definizione di fenomeno,
all’interno del quale possiamo distinguere un elemento sensibile e uno a priori L’estetica trascendentale studia la sensibilità nel momento in cui costruisce il mondo
dell’esperienza attraverso le forme a priori di spazio e tempo. Il termine “estetica” non si riferisce
quindi alla conoscenza del bello, secondo il suo uso più comune, ma alla conoscenza sensibile.
Estetica deriva infatti dal greco aísthesis,“sensazione”, e con questo significato originario di teoria
della sensibilità viene usato da Kant. Secondo Kant, la sensibilità è la facoltà della mente di ricevere
le sensazioni, cioè tutte quelle modificazioni che gli oggetti producono nel soggetto (per esempio,
nel momento in cui il soggetto sente caldo o freddo oppure vede bianco o nero). La conoscenza
immediata degli oggetti viene chiamata da Kant intuizione: una forma di conoscenza in cui
l’oggetto conosciuto si presenta immediatamente al soggetto conoscente ed è quindi l’opposto della
conoscenza discorsiva, raggiunta tramite la mediazione del ragionamento. L’oggetto dell’intuizione
empirica è il fenomeno, “ciò che appare”. Nel fenomeno è possibile distinguere una materia e una
forma:
• la materia deriva dall’esperienza ed è data dalle singole sensazioni o modificazioni che il soggetto
subisce, ed è quindi a posteriori;
• la forma invece non è prodotta dalle sensazioni, cioè dall’esperienza, ma è posta dal soggetto
conoscente, il modo cioè, quindi a priori, con cui la sensibilità umana funziona.
Nel fenomeno io chiamo materia ciò che corrisponde a una sensazione; ciò per cui il molteplice del
fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti chiamo forma del fenomeno. Poiché quello
in cui soltanto le forme si ordinano non può essere di nuovo sensazione, così la materia di ogni
fenomeno deve essere bensì data a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi a priori nello spirito.
(Critica della ragion pratica)
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Poiché dunque la forma è il modo con cui la sensibilità umana funziona, l’intuizione si articola in:
• intuizioni empiriche riguardanti la conoscenza frutto delle sensazioni;
• intuizioni pure (o forme della sensibilità) che prescindono dalle sensazioni.
Il processo conoscitivo dell’uomo si avvale solo di due intuizioni pure: lo spazio e il tempo.
Spazio e tempo sono le forme a priori della sensibilità ossia le strutture mentali che
permettono di costruire il mondo dell’esperienza Secondo Kant, lo spazio è la forma del senso esterno, per mezzo della quale noi ci rappresentiamo
le cose come fuori di noi l’una accanto all’altra, mentre il tempo è la forma del senso interno, per
mezzo della quale ci rappresentiamo i nostri stati interiori l’uno dopo l’altro. Di conseguenza, lo
spazio e il tempo non possono essere due entità realmente esistenti, due contenitori vuoti in cui ogni
oggetto deve essere collocato, secondo la lezione di Newton. Spazio e tempo sono invece per Kant
le strutture mentali per mezzo delle quali costruiamo il mondo dell’esperienza. Come chi, per
esempio, vede il mondo tutto caratterizzato da sfumature rossastre perché porta degli occhiali con
delle lenti rosse, così noi costruiamo il mondo dell’esperienza in quanto qualunque esperienza
facciamo la collochiamo nello spazio e nel tempo. Non si può neppure sostenere che le nozioni di
spazio e tempo abbiano un’origine empirica o che siano concetti generali che esprimono i rapporti
tra i fenomeni, cioè l’ordine della successione e l’ordine della coesistenza. Lo spazio e il tempo
infatti non si ottengono a partire da molteplici spazi e tempi tra loro differenti, prescindendo dalle
proprietà che contraddistinguono ciascuno di essi per afferrare ciò che hanno in comune; al
contrario ci sono un solo spazio e un solo tempo, perfettamente uniformi e indifferenziati, e le
molteplici parti dello spazio e del tempo sono possibili solo come possibili delimitazioni dell’unico
spazio e dell’unico tempo. Spazio e tempo non sono, inoltre, concetti che esprimono le relazioni di
coesistenza e successione tra le cose, cioè non possono derivare dall’esperienza delle cose disposte
l’una accanto all’altra e l’una dopo l’altra. Un tale approccio si ridurrebbe infatti a un circolo
vizioso, dal momento che, per poter giudicare le cose come coesistenti e successive, esse devono
già essere disposte nello spazio e nel tempo; al contrario l’esperienza delle cose come coesistenti e
successive è possibile soltanto se esse sono già sempre collocate nello spazio e nel tempo.
Sullo spazio e sul tempo, intesi come intuizioni pure, si fonda la matematica pura (formata
dall’aritmetica e dalla geometria) A questo punto Kant è in grado di rispondere alla prima delle domande che si è posto
nell’introduzione alla Critica della ragion pura: “Come è possibile la matematica pura?” La
matematica pura, formata dall’aritmetica e dalla geometria, è possibile in quanto si fonda sulle
intuizioni pure a priori di spazio e tempo. L’aritmetica presuppone infatti l’idea di “successione
ordinata”, che si sviluppa quindi nel tempo, di numeri tra loro indistinguibili se considerati
separatamente: ciò che distingue per esempio l’1 dal 10 è soltanto la posizione che il numero
occupa all’interno della successione. Allo stesso modo è solo il nostro modo d’intendere lo spazio a
rendere possibile la geometria; la geometria sarebbe infatti impossibile se in qualsiasi punto dello
spazio non potessero essere fatte le medesime costruzioni e queste non presentassero sempre le
stesse proprietà. Colui che per primo dimostrò le proprietà del triangolo isoscele, si chiamasse
Talete o come si voglia, fu colpito da «una gran luce» - osserva Kant - quando si rese conto che
doveva costruire la figura (per esempio con riga e compasso) sulla base di un procedimento
generale che poteva essere ripetuto infinite volte per ottenere tutti i triangoli isosceli possibili,
specificando di volta in volta determinate costanti individuali (la lunghezza dei lati, l’ampiezza
degli angoli ecc.) per ottenere un singolo triangolo dato. Solo in questo modo Talete poteva essere
certo che ciò che è provato per una singola figura data deve essere valido per tutte le altre. Per
sapere con certezza qualche cosa a priori intorno al triangolo isoscele, Talete doveva dunque
definire la possibilità del triangolo isoscele in generale, ossia il procedimento con cui possono
essere costruiti tutti i singoli triangoli possibili, per ottenere a partire da esso i singoli casi.
La matematica pura è scienza in quanto è fondata su dei giudizi sintetici a priori Secondo Kant, la matematica pura non solo è possibile ma è anche una scienza in quanto i suoi
giudizi sono sintetici a priori, universali e necessari. In aritmetica la proposizione 7+5=12 non
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stabilisce infatti l’uguaglianza tra due concetti, ma che il numero 12 si trova 5 posizioni dopo il 7 ed
è per questo diverso da entrambi e anche dalla loro unione; nessuno di questi elementi ha cioè
qualcosa in comune con gli altri (come nel caso di concetti identici di un giudizio analitico).
Nonostante ciò i loro rapporti reciproci sono fissati in modo universale e necessario e dunque a
priori: la proposizione 7+5=12 non è quindi valida soltanto per 7 e 5 punti oppure 7 e 5 uomini, ma
è sempre e immancabilmente valida anche se le cose a cui si riferisce sono diverse. Analogamente,
in geometria la proposizione “la retta è la linea più breve tra due punti” è una proposizione sintetica,
perché il concetto di retta contiene solo la qualità (cioè la “linea retta”, la forma della figura), ma
non la quantità, “più breve”; il concetto di “più breve” è aggiunto a quello di “linea retta” e non è
contenuto in esso. La geometria connette cioè sinteticamente due concetti differenti in modo
universale e necessario, dunque a priori.
3 L’analitica trascendentale
L’analitica trascendentale è lo studio dei concetti, ossia il frutto dell’attività della mente che
pensa gli oggetti Nella seconda parte della Critica alla ragion pura, Kant passa a esaminare la Logica trascendentale
che si articola in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale. Nell’Analitica trascendentale
il termine logica non è inteso in modo tradizionale quale studio formale del discorso, ma nel senso
di indagine analitica delle forme a priori dell’intelletto. La prima parte dell’Analitica trascendentale
è dedicata ai concetti, e pertanto viene chiamata Analitica dei concetti. Che cosa sono i concetti?
Secondo Kant, ogni esperienza è costituita da un’intuizione e da un concetto:
• l’intuizione è la conoscenza immediata di un singolo oggetto - per esempio, “questo qui” - in
quanto scaturisce dalla sua percezione sensoriale;
• il concetto è una conoscenza mediata di più oggetti - per esempio, “questa casa qui” - in quanto
scaturisce dalla mediazione che si compie nel cogliere con il pensiero il tratto comune di più
oggetti, nell’esempio il concetto di casa nasce dall’aver preso in considerazione più case.
Se quindi le intuizioni sono “affezioni”, cioè qualche cosa che la mente passivamente subisce, i
concetti sono frutto dell’attività della mente, cioè funzioni con cui la mente ordina o unifica diverse
rappresentazioni in una rappresentazione comune. Dunque, per mezzo dell’intuizione gli oggetti
sono percepiti, per mezzo dei concetti sono pensati. Nessuna delle due facoltà può però stare senza
l’altra. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. Se infatti le
intuizioni non potessero essere riportate a concetti generali, non potremmo estendere la nostra
conoscenza al di là di quanto è direttamente presente ai sensi. I concetti, dunque, per non essere
semplici costruzioni arbitrarie devono trovare conferma nelle intuizioni. Tuttavia, la sensibilità,
come facoltà delle intuizioni, e l’intelletto, come facoltà dei concetti, per quanto non esistano
separatamente, non possono in alcun modo scambiarsi le funzioni: l’intelletto non può infatti intuire
nulla, né i sensi possono pensare nulla.
Individuando in primo luogo le fondamentali tipologie di giudizio, Kant risale ad altrettanti
concetti puri, detti categorie, con cui la mente organizza l’esperienza I concetti possono essere empirici, frutto cioè dell’esperienza, o puri, presenti cioè a priori
nell’intelletto. Sull’esempio di Aristotele, i concetti puri sono chiamati da Kant anche categorie che
sono i modi con cui la mente umana organizza l’esperienza. A differenza di Aristotele, però, le
categorie non hanno alcun valore ontologico (nel senso che non sono modi di essere dell’essere);
hanno soltanto un valore gnoseologico (nel senso che sono esclusivamente le forme, universali e
oggettive, della conoscenza). Inoltre, mentre Aristotele le aveva individuate in modo secondo Kant
casuale («rapsodicamente», gli rimprovera), le categorie kantiane sono ricavate da un principio che
possiamo così riassumere: poiché pensare equivale a giudicare, necessariamente le categorie devono
corrispondere alle tipologie di giudizio che la mente può esprimere. Quante sono allora queste
tipologie di giudizio? Rifacendosi alla logica tradizionale, secondo Kant sono quattro (quantità,
qualità, relazione, modalità): ognuna di esse, poi, al proprio interno contiene tre giudizi, per un
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totale di dodici giudizi. Ne scaturisce una tavola dei giudizi a cui Kant fa corrispondere una tavola
delle categorie. Pertanto, come i giudizi anche le categorie sono dodici. Tra queste, due sono quelle
fondamentali: la sostanza e la causalità.
• La sostanza è la capacità di cogliere con il pensiero la permanenza di qualche cosa nel tempo. Un
gesto per esempio, è un evento, ma non un oggetto dotato di sostanza, in quanto non permane nel
tempo. Mentre una sedia, un tavolo o una casa sono oggetti dotati di sostanza in quanto al di là del
loro aspetto contingente la mia mente coglie in essi qualche cosa che permane nel tempo. Se non
possedessimo dunque la categoria di sostanza per noi gli oggetti non esisterebbero.
• Anche la causa è un pensiero, e come tale non si trova nelle cose ma nella nostra mente. Si alza
per esempio il vento, e la nave si muove. Secondo gli empiristi, si tratta semplicemente di una
sequenza temporale che per abitudine mi porta a dire che il vento sia la causa del movimento delle
navi. Tuttavia ci può anche essere la circostanza in cui le vele sono rotte e il vento non fa muovere
la nave. Eppure io ho pensato al vento come causa, nonostante che la nave sia rimasta ferma. Ciò
significa che la categoria di causa precede l’esperienza e la rende possibile.
LA TAVOLA DEI GIUDIZI E DELLE CATEGORIE
Quantità GIUDIZI CATEGORIE
Universali Totalità
Particolari Pluralità
Singolari Unità
Qualità GIUDIZI CATEGORIE
Affermativi Realtà
Negativi Negazione
Infiniti Limitazione
Relazione GIUDIZI CATEGORIE
Categorici Sostanza e accidente
Ipotetici Causa ed effetto
Disgiuntivi Azione reciproca
Modalità GIUDIZI CATEGORIE
Problematici Possibilità/impossibilità
Assertori Esistenza/inesistenza
Apodittici Necessità/contingenza
Per mezzo della deduzione trascendentale Kant giustifica l’applicazione delle categorie al
mondo empirico e fonda su di essa la conoscenza scientifica La scoperta delle categorie consente a Kant di rispondere anche alla seconda domanda che si è
posto nell’introduzione alla Critica della ragion pura: “Com’è possibile la fisica pura?”. Secondo
Kant la fisica pura è una conoscenza sintetica a priori, dunque una scienza. Il principio di azione e
reazione, per esempio, secondo il quale “l’azione è sempre uguale alla reazione”, non esprime
infatti un’identità logica, ma connette elementi diversi (cioè le azioni reciproche, uguali ma dirette
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in senso opposto, di due corpi che si urtano) in modo universale e necessario, dunque a priori. Se
infatti l’esperienza smentisse tale principio ci si preoccuperebbe di verificare che i due corpi siano
perfettamente isolati dal resto dell’universo, piuttosto che rinunciarvi: l’osservazione dell’urto tra i
corpi è pertanto possibile a partire da quel principio e non ne è la conseguenza. Ciò è esattamente
quello che comprese Galilei quando si accorse che per formulare la legge della caduta dei gravi non
doveva limitarsi a osservazioni casuali, ma doveva fare un esperimento. Così fece rotolare su un
piano inclinato le sfere con un peso stabilito da lui stesso, scelse delle sfere indeformabili, un piano
perfettamente liscio ecc. Il singolo fatto concreto, osservato nell’esperimento, non gli apparve
dunque semplicemente come un evento isolato che non sarebbe più accaduto, ma come il risultato
di un procedimento generale a partire dal quale sarebbe stato possibile a chiunque riprodurre lo
stesso fenomeno infinite volte. In breve, secondo Kant occorre distinguere tra i giudizi d’esperienza
e i giudizi soggettivi:
• i giudizi d’esperienza - come “l’acqua bolle a 100 gradi” - sono scientifici, cioè sintetici a priori,
universali e necessari in quanto fondati su di un’esperienza organizzata dalle categorie;
• i giudizi soggettivi - come “il sole scotta” - non sono invece scientifici in quanto non sono in
relazione con le categorie.
Ma se la conoscenza scientifica è determinata dall’uso delle categorie, che cosa ci garantisce che le
categorie ci dicano qualcosa intorno agli oggetti della natura? Trattandosi infatti di concetti puri,
cioè a priori, come possono essere in contatto con il mondo dell’esperienza? Qual è dunque l’uso
legittimo delle categorie? La soluzione viene trovata al termine di una lunga riflessione chiamata
deduzione trascendentale in cui Kant utilizza lo stesso ragionamento che aveva portato a conferire
validità conoscitiva alle forme pure a priori di spazio e tempo.
Chiamo quindi deduzione trascendentale la spiegazione del modo in cui i concetti a priori si
possono riferire a oggetti. (Critica della ragion pura)
In sintesi, come le cose per essere intuite devono sottostare al modo con cui la sensibilità costruisce
il mondo dell’esperienza attraverso spazio e tempo, così le cose per essere pensate devono
sottostare al modo con cui l’intelletto riflette sul mondo dell’esperienza attraverso le categorie. È
dunque legittimo l’uso delle categorie soltanto se applicate al mondo dell’esperienza. Spiegata con
la deduzione trascendentale quando e perché è legittimo l’uso delle categorie, rimane però da
rispondere a un’altra domanda: dove ha sede questa attività della mente che intuisce il mondo
dell’esperienza attraverso spazio e tempi e riflette su di esso attraverso le categorie? Nell’Io penso,
risponde Kant.
4 L’Io penso, il fenomeno e il noumeno
L’Io penso è l’autocoscienza generale cui vengono ricondotte tutte le rappresentazioni del
soggetto Con l’espressione “Io penso” Kant non intende indicare:
• né una realtà psicologica, per esempio l’anima umana com’era nella tradizione dei razionalisti,
• né una realtà fisica, per esempio un “fascio di percezioni” com’era nella tradizione degli
empiristi.
Intende invece indicare l’autocoscienza o coscienza generale, cioè quella struttura mentale propria
del genere umano che rende possibile la conoscenza. Kant chiama l’Io penso anche appercezione
pura o trascendentale: il termine appercezione indica infatti la coscienza della percezione che
accompagna tutte le rappresentazioni umane: l’Io penso, nelle parole di Kant, «deve poter
accompagnare tutte le mie rappresentazioni». Senza la funzione dell’Io penso si avrebbe soltanto un
susseguirsi di rappresentazioni estranee le une alle altre, dalle quali non sorgerebbe mai un loro
collegamento costante. Le rappresentazioni devono invece essere connesse in una coscienza
generale, valida cioè per qualsiasi soggetto, che nelle stesse circostanze dovrà collegare le
rappresentazioni nello stesso modo. Il problema del rapporto tra soggetto e oggetto si traduce così in
quello del nesso tra le rappresentazioni, cioè nella validità oggettiva del giudizio. Non si tratta
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quindi più di spiegare come le rappresentazioni del soggetto possano afferrare l’oggetto come
qualcosa di estraneo a cui si devono conformare, dal momento che l’oggetto stesso si risolve
completamente nel valore universale e necessario del nesso di quelle rappresentazioni.
Soltanto da questa relazione nasce un giudizio, ossia una relazione oggettivamente valida, che si
distingue appunto dal rapporto delle medesime rappresentazioni in cui sussiste soltanto, secondo le
leggi dell’associazione, una validità unicamente soggettiva. In quest’ultimo caso io potrei dire
soltanto “se porto un corpo, sento un’impressione di peso”, non potrei dire invece “esso, il corpo, è
pesante”, il che equivale a dire che queste due rappresentazioni sono congiunte nell’oggetto, senza
cioè che facciano distinzione tra gli stati del soggetto, e non si trovano semplicemente accostate
nella percezione (per quanto spesso questa si ripeta). (Critica della ragion pura)
L’Io è il legislatore della natura: l’intelletto, infatti, non ricava le leggi dalla natura, bensì le
prescrive a essa. Da qui la distinzione tra fenomeno e noumeno o cosa in sé Per Kant la natura è l’insieme di tutte le cose che possono essere oggetto dell’esperienza.
L’intelletto però non ricava le leggi dalla natura, ma le prescrive a essa, dal momento che la natura è
conoscibile soltanto nella misura in cui obbedisce all’Io penso, anche perché i principi generali che
la regolano sono quelli della fisica pura. Di conseguenza possiamo affermare che l’Io penso è il
legislatore della natura. Il che non significa che la natura coincida esattamente con la descrizione
che ne fa l’Io penso. Il fatto è che la conoscenza umana è limitata, e il confine tra ciò che si può
conoscere e quello che non si può conoscere è tracciato dalla distinzione tra fenomeno e noumeno:
• il fenomeno è la cosa per me, così come mi appare, cioè l’unico possibile oggetto della
conoscenza umana in quanto frutto dei sensi e della costruzione del mondo dell’esperienza operata
dall’Io penso;
• il noumeno è la cosa in sé, così com’è veramente, una realtà cioè che può essere solo pensata ma
non conosciuta.
La cosa in sé, dunque, non costituisce il fondamento su cui poggia la nostra conoscenza empirica,
ma è un concetto-limite oltre il quale la conoscenza nega se stessa, sottraendosi alle condizioni che
la rendono possibile. Kant non intende cioè mettere in dubbio l’esistenza degli oggetti fuori di noi
sostenendo che siano un prodotto della nostra immaginazione (idealismo materiale), ma sostenere la
possibilità di affermare qualcosa intorno agli oggetti come sono “in sé” (idealismo trascendentale).
Non avrebbe infatti senso confrontare la nostra conoscenza con le cose in sé, per stabilire se essa è
oggettivamente valida oppure ingannevole; tutto ciò che conosciamo con sicurezza degli oggetti,
infatti, è soltanto l’aspetto fenomenico. In breve, noi non conosciamo il mondo come tale, ma solo
come appare, attraverso cioè la mediazione di spazio e tempo e poi attraverso le categorie.
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5 Lo schematismo trascendentale
I singoli oggetti dati nell’esperienza si conformano ai concetti a priori attraverso la
mediazione costituita dallo schema Nella prima parte dell’analitica trascendentale, l’analitica dei concetti, Kant ha spiegato il
significato dei concetti e tra essi individuato dodici concetti puri, le categorie; attraverso poi la
deduzione trascendentale, ha mostrato la legittimità del loro uso. Ora, nell’analitica dei principi,
affronta il problema del modo in cui i concetti possano essere applicati ai singoli casi dati
nell’intuizione. Le due fonti della conoscenza, l’intelletto e la sensibilità sono, infatti,
completamente separate tra di loro. Occorre dunque ammettere una facoltà, l’immaginazione, in
grado di mediare tra sensibilità e intelletto: una facoltà capace di connettere tra loro intuizioni e
concetti, che sono del tutto eterogenei, tramite un terzo termine che sia omogeneo sia al concetto sia
all’intuizione (che sia cioè da un lato intellettuale e dall’altro sensibile). Questo terzo termine è
detto da Kant schema trascendentale, mentre il modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi è
detto schematismo. Lo schema è distinto tanto dal concetto astratto quanto dalla singola immagine
dell’oggetto presentata dall’immaginazione riproduttiva, ovvero dalla riproduzione di una singola
intuizione di cui abbiamo un ricordo. Lo schema è un prodotto dell’immaginazione produttiva,
intesa come la possibilità di determinare singole intuizioni, senza che l’oggetto sia immediatamente
presente, a partire da un concetto generale a priori. Al concetto di triangolo in generale, per
esempio, nessuna singola immagine di un triangolo disegnato sarebbe adeguata (anche a
prescindere dalle imprecisioni del disegno, sarebbe isoscele piuttosto che scaleno, con i lati di una
certa dimensione e non di un’altra ecc.); d’altra parte il concetto astratto di triangolo potrebbe essere
del tutto arbitrario, se non potessimo presentare nell’intuizione un singolo triangolo determinato:
Il concetto di una figura racchiusa in due linee rette - per esempio -, non contiene alcuna
contraddizione […], l’impossibilità non poggia sul concetto in se stesso, ma sulla sua costruzione
nello spazio. (Critica della ragion pura)
Allo stesso modo la proposizione “con tre linee rette è possibile una figura” è valida non
semplicemente perché non è contraddittoria, ma perché a partire da essa può effettivamente essere
costruita una singola figura. Lo schema del triangolo media dunque tra concetto e intuizione; esso
non risponde infatti alla domanda “che cosa” è un triangolo in generale, prescindendo dalle
caratteristiche che contraddistinguono singoli triangoli, ma alla domanda “in che modo” è possibile
costruire singoli triangoli nello spazio a partire dal concetto generale di triangolo. Lo schema non è
dunque né la singola immagine del triangolo materiale disegnata sulla carta, né il concetto astratto
di triangolo in generale, ma «una regola per la determinazione della nostra intuizione conforme a un
concetto generale», cioè la «rappresentazione di un metodo» con cui possono essere costruiti
un’infinità di triangoli diversi. L’individuo, in quanto risultato della costruzione, cioè in quanto
ottenuto a partire da un «procedimento generale» specificando certe costanti individuali (lunghezza
dei lati, ampiezza degli angoli ecc.), assume così un significato completamente nuovo che non vale
più come immagine particolare, ma come modello generale, perché in esso non si guarda al singolo
costrutto concluso, ma all’azione della costruzione. L’elemento singolo isolato assume così la forma
dell’esempio qualsiasi.
Lo schema trascendentale, che media tra intuizione e concetto, si fonda sull’intuizione pura
del tempo, che è la condizione a priori di tutti i fenomeni I concetti puri dell’intelletto, le categorie, possono essere applicati ai singoli esempi dati
nell’esperienza grazie alla mediazione degli schemi trascendentali, costruiti nell’intuizione pura e
precisamente nell’intuizione pura del tempo in quanto esso è la «condizione formale a priori di tutti
i fenomeni» (anche di quelli interni che non si trovano nello spazio). Lo schema, in quanto
«determinazione trascendentale del tempo secondo regole», è dunque omogeneo al concetto, in
quanto è generale e poggia su una regola a priori, ma è anche omogeneo all’intuizione, in quanto il
tempo è contenuto in ciascuna rappresentazione empirica. I singoli oggetti dati nell’esperienza,
dunque, si conformano ai concetti a priori attraverso la mediazione costituita dallo schema, che
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applica le categorie non direttamente agli oggetti empirici, ma al nostro modo di riceverli come
successivi o simultanei nel tempo. Gli schemi non sono i concetti generali di causa o sostanza che
potrebbero rappresentare anche cose in generale che non possono essere date in alcuna esperienza
(per esempio l’anima come sostanza o Dio come causa del mondo), ma non rappresentano neppure
singole sostanze o singole cause particolari direttamente presenti all’intuizione. Gli schemi sono
piuttosto regole che fissano i rapporti reciproci (per esempio permanenza, successione, coesistenza)
in cui devono necessariamente stare i fenomeni nel tempo per presentarsi come singoli esempi di
sostanze e accidenti, cause ed effetti, sostanze in azione reciproca ecc. Per esempio, lo schema del
concetto di causa è la successione nel tempo secondo una regola, quello del concetto di sostanza la
permanenza nel tempo ecc. Lo schema è dunque da una parte una determinazione empirica, in
quanto può essere dato in «una singola intuizione particolare», dall’altra, in quanto determinazione
a priori del tempo a partire da un concetto, può servire da modello generale per rappresentare il
modo con cui si presentano nell’esperienza i fenomeni che stanno in un determinato rapporto. Kant
deriva l’elenco degli schemi dalla tavola delle categorie: lo schema delle categorie di quantità è il
numero, quello delle categorie di qualità è il grado, quelli delle categorie di relazione sono la
permanenza (per la sostanza), la successione (per la causa) e la simultaneità (per l’azione reciproca),
infine quelli delle categorie di modalità sono l’esistenza in un tempo qualsiasi (per la possibilità),
l’esistenza in un determinato tempo (per la realtà) e l’esistenza in ogni tempo (per la necessità).
6 La dialettica trascendentale
La dialettica trascendentale affronta lo studio della metafisica nei suoi tre oggetti principali,
che Kant chiama idee Con l’Estetica e l’Analitica Kant si è occupato del sapere scientifico, individuandone il fondamento.
Con la Dialettica trascendentale intende invece rispondere alle domande che si è posto
nell’introduzione della Critica della ragion pura: “Com’è possibile la metafisica in quanto
disposizione naturale?”; “Com’è possibile la metafisica come scienza?”, poi sintetizzate nei
Prolegomeni in una sola domanda: “È possibile, in generale, la metafisica?”. Secondo Kant la
metafisica è un’invenzione della ragione. Il termine ragione è però utilizzato da Kant con due
significati:
• in senso ampio come l’insieme delle facoltà conoscitive dell’uomo;
• in senso stretto come una di queste facoltà, quella cioè che tende a una sistemazione assoluta del
sapere.
In senso ampio, dunque, la ragione comprende la sensibilità, l’intelletto e la ragione in senso stretto.
Nella Dialettica trascendentale Kant utilizza il termine ragione solo in senso stretto. L’intelletto cioè
diventa ragione in senso stretto nel momento in cui invece di limitare l’uso delle categorie al mondo
dell’esperienza sensibile tende ad applicarle anche alle idee trascendentali, ovvero a concetti a cui
non corrisponde alcun oggetto percepibile con i sensi. Tre sono le idee trascendentali che la ragione
trasforma in idee trascendenti (le pensa cioè come corrispondenti a realtà esistenti) applicando loro
la categoria di sostanza, mentre in realtà sono solo esigenze della mente:
• l’idea dell’anima, intesa come idea della totalità assoluta dei fenomeni interni, di cui si occupa la
psicologia razionale;
• l’idea del mondo, intesa come idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni, di cui si occupa la
cosmologia razionale;
• l’idea di Dio, intesa come idea della totalità assoluta di tutte le totalità esistenti, di cui si occupa la
teologia razionale.
In questo contesto, il termine dialettica assume in Kant il significato di “logica della parvenza” o di
“arte dell’illusione”: si tratta cioè «dell’arte sofisticata di dare alla propria ignoranza, anzi alle
proprie volute illusioni, l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato».
Mentre l’intelletto fa infatti uso delle categorie mantenendosi all’interno dei limiti dell’esperienza
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possibile, la ragione trascende questi limiti, pretendendo di fare affermazioni che seguono solo una
logica apparente, nel senso che non possono essere confermate o smentite da nessuna esperienza.
Esattamente in questo superamento dei limiti dell’esperienza possibile consiste la metafisica che
null’altro è se non una conoscenza illusoria sebbene inevitabile poiché la ragione per sua stessa
natura tenta di afferrare l’esperienza nella sua totalità: il tutto dell’esperienza però, a differenza
delle sue parti, non può essere oggetto dell’esperienza. In ogni caso, come può la metafisica
configurarsi come un sapere assoluto nel momento in cui l’uomo ha una natura finita? La metafisica
infatti crede di conferire valore assoluto alle idee trascendentali applicando loro le categorie, così
facendo però le priva di qualsiasi valore. È come se una colomba pensasse di volare meglio in un
ambiente in cui non incontri la resistenza dell’aria, mentre è proprio il limite dato dalla resistenza
dell’aria a consentirle di volare. Alla tradizionale metafisica dogmatica Kant contrappone dunque la
metafisica critica di cui fanno parte:
• sia la metafisica della natura (che si occupa dei principi a priori che rendono possibile la
conoscenza della natura);
• sia la metafisica dei costumi (che si occupa dei principi a priori che regolano la vita morale).
L’idea di anima è il risultato di un ragionamento fallace, che consiste nell’applicare la
categoria di sostanza all’Io penso Secondo Kant, la psicologia razionale è vittima di un paralogismo, cioè di un ragionamento fallace
che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’Io penso, trasformando in questo modo quella
che è l’attività unificatrice della mente in una realtà esistente chiamata anima. Non paga poi di
immaginarla come esistente, la ragione ritiene l’anima immutabile, immateriale, spirituale e così
via. In realtà l’Io penso è sì immutabile, ma soltanto in quanto è una relazione immutabile tra i
contenuti della coscienza, non come sostanza esistente; è sì immateriale, ma soltanto perché è
un’attività della mente; è sì spirituale, ma soltanto perché non è percepibile dai sensi e così via. La
psicologia razionale, dunque, sbaglia in quanto l’Io penso, essendo il soggetto che rende possibile
l’esperienza, non può essere oggetto di esperienza. Di conseguenza l’idea trascendente di anima,
come totalità assoluta dei fenomeni interni, è un’idea metafisica illusoria. Per cui la psicologia
razionale è un inganno.
Il mondo, inteso come totalità assoluta dei fenomeni esterni, non è oggetto d’esperienza e non
può quindi essere conosciuto, come dimostrano le antinomie, cioè le contraddizioni in cui cade
la ragione quando se ne occupa Secondo Kant, la cosmologia razionale pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la
totalità assoluta dei fenomeni esterni, distanziandosi cioè dalla natura intesa come il mondo così
come appare. Questa pretesa è destinata a fallire: così facendo infatti la ragione entra in conflitto
con se stessa in quanto, non potendo verificare le proprie ipotesi, giunge a formulare delle
antinomie insolubili, coppie cioè di proposizioni entrambe logicamente dimostrabili che si
contraddicono però tra loro e tra le quali non è possibile decidere. L’errore alla base della
cosmologia razionale, da cui dipende la strutturale insolubilità delle antinomie, risiede nel fatto che
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entrambe le affermazioni pretendono di riferirsi al mondo inteso come un tutto, come se questa
visione del tutto fosse frutto di una qualche esperienza. Ma il mondo, inteso come totalità, non può,
a differenza dei singoli fenomeni del mondo naturale, essere oggetto di nessuna esperienza. Le
antinomie dimostrano, quindi, l’illegittimità dell’idea di poter conoscere il mondo nella sua totalità.
Kant individua quattro antinomie, che rappresentano altrettanti tentativi di rispondere a quattro
domande che inevitabilmente l’uomo si pone ma che sono destinate a rimanere senza risposta:
1. Il mondo ha limiti nel tempo e nello spazio o è infinito?
2. Esiste o no qualcosa di assolutamente semplice?
3. È possibile la libertà o tutto è causalmente determinato?
4. Esiste o no una causa ultima e necessaria?
Nelle affermazioni della tesi (per esempio, “il mondo è limitato nel tempo e nello spazio”) trova
espressione il razionalismo: in quelle dell’antitesi (per esempio “il mondo è infinito nel tempo e
nello spazio”) l’empirismo. Le prime due antinomie, che considerano il mondo dal punto di vista
della quantità, sono dette “matematiche”; le ultime due, che riguardano il regresso
all’incondizionato, sono dette “dinamiche”. Come risolvere il problema delle antinomie? Secondo
Kant, di fronte alle antinomie matematiche la soluzione consiste nel considerare false sia la tesi sia
l’antitesi, in quanto entrambe le affermazioni non possono essere né confermate né smentite
dall’esperienza. La soluzione invece delle antinomie dinamiche consiste nel considerare vere sia la
tesi sia l’antitesi, a patto di riferire la tesi alla cosa in sé, cioè al mondo intelligibile, e l’antitesi al
fenomeno, cioè al mondo dell’esperienza. In particolare nella terza antinomia, la causalità secondo
le leggi della natura è la sola da cui possano essere derivati gli eventi del mondo, se questi sono
considerati come fenomeni, mentre se li si considera come cose in sé si può ammettere per la
spiegazione di essi anche una causalità attraverso la libertà: l’uomo in quanto oggetto
dell’esperienza sensibile non è libero, ma può essere considerato libero da un punto di vista diverso,
cioè in quanto membro del mondo intelligibile. Qui Kant si limita ad ammettere come non
contraddittoria l’idea della libertà, soltanto la filosofia pratica potrà poi conferire a essa realtà
oggettiva
LE ANTINOMIE DELLA RAGIONE
TESI ANTITESI
Prima
antinomia
Il mondo ha un’origine nel tempo
ed è limitato nello spazio.
Il mondo non ha origine nel tempo, né nello
spazio.
Seconda
antinomia
Nel mondo ogni sostanza consta di
parti semplici o atomi.
Nessuna sostanza composta consta di parti
semplici, ma tutto è divisibile all’infinito.
Terza
antinomia
Oltre alla causalità naturale vi è
anche una libera causalità.
Non vi è libertà, tutto accade secondo le leggi di
natura.
Quarta
antinomia
All’inizio delle cause agenti vi è
un essere necessario.
Non vi è alcun essere necessario, né nel mondo,
né fuori: tutto è contingente.
Il fallimento delle prove dell’esistenza di Dio elaborate dalla teologia razionale dimostra che
Dio, il quale non può essere oggetto di alcuna esperienza possibile, non è conoscibile per via
teoretica
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Kant respinge anche la pretesa della teologia razionale di dimostrare l’esistenza di Dio, inteso come
un essere singolo determinato da tutti i predicati positivi possibili e che esclude da sé ogni
negazione. Dio, infatti, se pure può essere pensato senza contraddizione, non può essere oggetto di
conoscenza teoretica, dal momento che la totalità assoluta, la totalità delle totalità, non può essere
oggetto di alcuna esperienza possibile. Kant riconduce le tradizionali prove dell’esistenza di Dio a
tre tipologie fondamentali: la prova ontologica, quella cosmologica e quella fisico-teleologica. La
prova ontologica afferma che Dio, possedendo tutte le perfezioni deve possedere anche quella
dell’esistenza. Secondo Kant però l’esistenza non è un predicato nel senso che l’esistenza non può
essere ricavata da un concetto, in questo caso la perfezione, ma deve essere percepita dai sensi, cioè
dimostrata dall’esperienza. Il ragionamento della prova ontologica è dunque tautologico: si finge
cioè di dimostrare l’esistenza di Dio quando in realtà la sua esistenza è già implicita nel soggetto.
Ecco la mia risposta: voi vi siete già contraddetti, allorché avete introdotto, in seno al concetto di
una cosa che vi proponete di pensare esclusivamente nella sua possibilità, il concetto della sua
esistenza, sia pure occultato sotto altro nome. Se vi si concede questo, avete apparentemente partita
vinta, ma in realtà avete detto nulla, poiché non avete dato luogo che a una tautologia. (Critica della
ragion pura)
Io posso per esempio fare un bel ragionamento fino a credere che esista l’idea cento talleri (la
moneta prussiana dell’epoca). Ma che cosa posso comperare con cento talleri pensati?
Assolutamente nulla. Un’idea è e rimane un’idea. L’errore della prova ontologica consiste dunque
nell’indebito passaggio dal piano logico al piano ontologico, cioè dal pensiero all’essere. La prova
cosmologica, invece, partendo dall’esperienza sostiene che poiché il mondo è caratterizzato da una
serie di concatenazioni causali ci deve necessariamente essere una causa prima, non causata, Dio.
Secondo Kant si tratta di una prova non valida in quanto fa un uso illegittimo della categoria di
causa. La categoria di causa trova infatti il suo legittimo ambito di applicazione solo nel mondo
fenomenico: una causa prima non causata può dunque essere pensata, ma non può mai essere
verificata come esistente. A ben vedere dunque la prova cosmologica nasconde la stessa logica della
prova ontologica: si tratta cioè di un ragionamento, mentre l’esistenza può solo essere accertata per
via empirica. La prova fisico-teleologica muove infine dalla constatazione che nel mondo vi sono
segni evidenti di un ordinamento attuato con grande sapienza: l’armonia e la bellezza del mondo
non possono infatti che dipendere da una mente ordinatrice, dal momento che la natura non avrebbe
potuto accordarsi per uno scopo finale se non fosse stata così organizzata da un creatore intelligente.
Questo ragionamento si basa sull’analogia tra i prodotti dell’arte e quelli della natura: come un
dipinto presuppone un pittore, così il mondo presuppone un ordinatore. In questo modo però si
riuscirebbe al massimo a dimostrare l’esistenza di un architetto del mondo ma non del suo creatore,
e per di più di un architetto cui potremmo attribuire perfezioni relative, proporzionate alle
perfezioni che incontriamo del mondo. Per dimostrare che questo essere è Dio, l’essere
perfettissimo, non rimane quindi che rifarsi alla prova ontologica della cui non validità però si è già
detto.
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Le idee non possono avere alcun uso costitutivo per la conoscenza ma possono però svolgere
una funzione regolativa, che consiste nel dare unità ai concetti dell’intelletto La dialettica trascendentale ha dimostrato che è illegittimo fare affermazioni a priori intorno a
oggetti che non possono essere dati in alcuna esperienza possibile. Pensare una sostanza semplice,
una causa libera o un ente perfettissimo è del tutto legittimo, perché tali concetti non sono
contraddittori. A essere illegittima è la pretesa di conoscere tali oggetti, cioè di provare che hanno
una realtà oggettiva e che non sono mere costruzioni fantastiche, perché ogni affermazione intorno
a tali oggetti non potrebbe essere né confermata né smentita da alcuna esperienza. Le idee non sono
però solo concetti di oggetti che non possiamo conoscere. Oltre a un significato negativo, che
consiste nel delimitare la conoscenza oggettiva alla sola esperienza, le idee hanno anche un
significato positivo e una certa validità oggettiva per quanto indeterminata: le idee svolgono infatti
anche una funzione regolativa necessaria a dare unità ai concetti dell’intelletto: come l’intelletto
infatti unifica il molteplice nell’intuizione mediante concetti, così la ragione unifica il molteplice
dei concetti per mezzo delle idee. È come se le linee direttive di tutte le regole dell’intelletto
convergessero tutte in un punto, un focus immaginario che dà all’immagine il senso della
profondità. L’intelletto, infatti, subordinando le singole percezioni a leggi sempre più generali,
procede dalle parti al tutto e non gli è possibile avere una conoscenza del tutto dell’esperienza. La
ragione invece, muovendo dai principi generali per ricavare il particolare, parte dal tutto per poi
procedere verso le parti, stabilendo la loro posizione e relazione reciproca. Se le parti sono a
fondamento della possibilità del tutto della conoscenza, questo si presenta come un mero aggregato
accidentale e non si ha alcuna garanzia che esso si costituisca come una totalità ordinata e coerente;
non si può infatti essere certi che ci siano effettivamente leggi più generali a cui quelle più
particolari possano essere subordinate. Se invece il tutto è il fondamento della possibilità delle parti,
esso può assumere la forma di un sistema in cui le conoscenze particolari possono essere derivate
ordinatamente a partire da un principio unitario, in cui dalle leggi più generali si può discendere a
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quelle particolari. L’intelletto raccoglie una molteplicità di leggi empiriche che regolano fenomeni
differenti, leggi che potrebbero essere così infinitamente varie e differenti che potrebbe essere
impossibile ricondurle ordinatamente sotto principi sempre più generali; la ragione, al contrario,
presuppone che tali leggi possano essere pensate come se derivassero effettivamente da quelle più
generali costituendo un sistema unitario e organico: anche se il tutto dell’esperienza non può essere
oggetto di un’esperienza possibile, la tensione verso la completezza assoluta dell’esperienza
conferisce comunque sistematicità alla conoscenza.
LESSICO
Trascendentale Kant riprende l’aggettivo dalla Scolastica che chiamava “trascendentali” tutti quei
caratteri che sono più generali perfino delle categorie aristoteliche (appunto le trascendono), come
l’“uno”, il “vero” e il “buono”. Kant però distingue tra trascendente e trascendentale: mentre per
trascendente intende ciò che va al di là dell’esperienza, l’aggettivo trascendentale fa riferimento allo
studio filosofico delle condizioni della conoscibilità, cioè alle forme pure a priori.
Scrive infatti Kant già nella prima edizione della Critica della ragion pura: «Chiamo trascendentale
ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti, quanto dei nostri concetti a priori
degli oggetti». E ribadisce con chiarezza nella seconda edizione: «Chiamo trascendentale ogni
conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli
oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori».
Forme pure a priori Le forme pure a priori sono le modalità attraverso le quali il soggetto
conoscente ordina il materiale empirico. In quanto a priori non derivano dall’esperienza ma la
precedono e la rendono possibile: nessun oggetto può essere conosciuto se non attraverso
l’applicazione delle forme pure ai dati sensibili che provengono dall’esperienza, che tramite esse
vengono recepiti e ordinati.
Le forme pure a priori, dunque, costruiscono, insieme alla materia ricavata dall’esperienza (quindi a
posteriori), il fenomeno, cioè l’unico possibile oggetto dell’umana conoscenza.
Tautologia Dal greco tautòs, “lo stesso”, e lógos, “discorso”. Il termine si usa per indicare un
ragionamento sostanzialmente inutile in quanto il predicato ripete quanto già implicito nel soggetto.
Intuizione L’intuizione (dal latino tardo intueri, “guardare dentro”) è un atto conoscitivo semplice,
istantaneo e immediato. Inoltre ha carattere passivo, nel senso che è una sorta di “affezione”,
qualche cosa cioè che si subisce, ed è propria della conoscenza sensibile, che si distingue dalla
conoscenza discorsiva (ottenuta tramite il ragionamento).
Concetto Il concetto (dal latino concipere, “concepire, afferrare con la mente, ideare”, e cum-
capere, “prendere insieme”) è secondo Kant una rappresentazione di carattere generale che contiene
ciò che è comune a più oggetti. A differenza dell’intuizione, il concetto è il risultato di un’attività,
cioè è il prodotto dell’operazione di unificazione del molteplice svolta dall’intelletto.
Deduzione trascendentale Il termine deduzione viene utilizzato da Kant nel significato che ha nel
linguaggio giuridico, dove indica la dimostrazione della legittimità di un diritto. I giuristi, quando
parlano di facoltà o pretese (per esempio della pretesa al possesso di un oggetto), distinguono infatti
ciò che attiene al fatto (quid facti, per esempio il fatto che io possegga un oggetto) da quel che è di
diritto (quid iuris, la legittimità della mia pretesa su quell’oggetto, che potrebbe per esempio essere
contestata da qualcuno che reclama di esserne il legittimo proprietario). La deduzione
trascendentale è un testo estremamente complesso che costò a Kant, come egli stesso dichiara, una
grande fatica, dimostrata del resto dalla sua completa rielaborazione nella seconda edizione della
Critica. Nella prima edizione Kant precedeva “dal basso verso l’alto”, cercando di seguire passo
dopo passo il percorso che dall’intuizione conduce al concetto, correndo il pericolo di dare troppo
rilievo alle condizioni psicologiche del conoscere. Nella seconda Kant procede invece “dall’alto
verso il basso” cercando di mettere in luce soprattutto il modo in cui i concetti rendono possibile
l’esperienza.
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Fenomeno Il fenomeno (dal greco phàinomai, “mi mostro, appaio”) è l’unico possibile oggetto
della conoscenza umana. Per la sua stessa esistenza, il fenomeno implica l’applicazione delle forme
pure a priori proprie del soggetto conoscente a un oggetto rendendo possibile l’esperienza.
Noumeno Il noumeno (dal greco noéo, “penso, concepisco con l’intelletto”) non può essere oggetto
dei sensi ma solo del pensiero. Di conseguenza non può essere conosciuto oggettivamente. Uno dei
grandi dibattiti che anima la filosofia post-kantiana consiste proprio nello stabilire la ragione per cui
Kant abbia ammesso qualcosa che non solo non può essere conosciuto oggettivamente, e di cui
dunque non si può neppure pretendere di affermare che esista, ma che lo abbia posto addirittura a
fondamento del fenomeno (come qualcosa di cui, come talvolta afferma, il fenomeno sarebbe la
manifestazione sensibile). Se non possiamo sapere nulla di oggettivamente valido intorno alle cose
in sé, quale valore possiamo infatti attribuire all’affermazione che le cose in sé esistono e ancor più
che esercitano un’affezione sui nostri sensi?
Idealismo materiale Dopo Kant, il dibattito filosofico si concentrò sull’Io penso, dando vita a una
corrente di pensiero chiamata idealismo, in quanto riduceva l’oggetto della conoscenza a idea. Nella
fase iniziale di questo dibattito, tuttavia, ebbe modo di inserirsi lo stesso Kant che definì idealismo
materiale la concezione che metteva in dubbio l’esistenza degli oggetti fuori di noi, come affermava
Cartesio, o negava la possibilità di dimostrarne l’esistenza come Berkeley.
Idealismo trascendentale Kant definì il proprio idealismo “trascendentale” in quanto era fondato
sulla consapevolezza dell’esistenza degli oggetti fuori di noi, sebbene la conoscenza di essi sia
limitata all’aspetto fenomenico. Come precisò nella seconda edizione della Critica della ragion
pura, Kant ritiene infatti che l’interiorità dell’io necessiti dell’esteriorità delle cose. «Dobbiamo
dunque guardarci da una vulgata - scrive Umberto Eco - che vede in Kant il campione di un
soggettivismo assoluto che vanifica la realtà esterna in favore dell’attività di un Io legislatore.
Questa vulgata è stata a tal punto diffusa che ancora nell’Ottocento tale padre Mattiussi scriveva un
libro, Il veleno kantiano, diventato fondamentale per tutti i sostenitori di un realismo che negasse
l’attività legislativa dell’intelletto umano. In verità Kant vuole stabilire e garantire le possibilità di
una conoscenza oggettiva e certa».
Immaginazione produttiva L’immaginazione è la facoltà di avere intuizioni di un oggetto anche
senza la sua presenza ed è in grado di mediare tra sensibilità e intelletto, cioè di connettere
intuizioni e concetti, che sono del tutto eterogenei. L’immaginazione è detta riproduttiva se è
fondata sulla legge empirica dell’associazione, studiata dalla psicologia empirica, per cui
rappresentazioni che si sono spesso presentate insieme nell’intuizione, alla fine si associano tra loro
nell’immagine di un oggetto; è detta invece produttiva se serve a presentare nell’intuizione certe
connessioni, dette schemi, determinate non dal ricordo di esperienze precedenti, ma
indipendentemente dall’esperienza. La prima è fondata sul ricordo e dunque sull’esperienza, mentre
nel secondo caso la connessione è determinata a priori come necessaria, prima di averne avuto
un’intuizione diretta.
Idee Il termine idea è stato introdotto da Platone per indicare una realtà metafisica, sovrasensibile,
perfetta, eterna e intelligibile. In età medievale le idee erano i modelli eterni, presenti nella mente di
Dio, delle realtà sensibili. In età moderna il termine viene utilizzato - con sfumature diverse - da
Cartesio, Spinoza, Locke e Hume. Kant usa il termine “idea” per indicare le idee della ragione che
si riferiscono solamente a delle esigenze della mente a cui non corrisponde alcun oggetto
percepibile con i sensi.
Dialettica In Platone è la scienza suprema delle idee, mentre per Aristotele indica semplicemente
un tipo di argomentazione che fornisce alla scienza i concetti su cui basarsi, nonché la scienza
dell’argomentazione discorsiva, non dissimile dalla retorica.
Per gli stoici era la scienza dei discorsi divisi, fondati su domande e risposte. Kant usa il termine
dialettica con una connotazione negativa, come “logica della parvenza” in quanto ha per contenuto
affermazioni che non possono essere né confermate, né smentite.
Parvenza Scrive Kant: «Cadrei in un grave errore se trasformassi in una semplice parvenza
(Schein) ciò che debbo invece considerare come un fenomeno». Il termine parvenza viene dunque
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usato per tradurre Schein che per Kant ha un significato negativo, in quanto si tratta di un’illusione.
Quando invece Kant fa riferimento all’apparenza fenomenica usa il termine Erscheinung che
traduciamo con “apparenza”.
Metafisica In riferimento alla metafisica tradizionale, il termine ha in Kant un significato negativo,
in quanto indica la pretesa della ragione di occuparsi di concetti di cui non potremo mai fare
esperienza. La metafisica dunque, pur configurandosi come una naturale tendenza dell’uomo, per
Kant non è scienza ma conoscenza fallace.
In un senso limitato e particolare, Kant usa però il termine anche con un significato positivo,
intendendo con metafisica la scienza dei principi a priori del conoscere e dell’agire. È questo il
senso del termine nelle espressioni “metafisica della natura” e “metafisica dei costumi”.
Paralogismo Dal greco para (prefisso che indica vicinanza ma anche alterazione, deviazione) e
logismós (ragionamento). È un ragionamento non valido ma che può apparire dotato di validità.
Antinomia Il termine deriva dal greco anti, contrapposizione, e nómos, legge. Alla lettera significa
quindi “conflitto di leggi”. Kant lo usa per indicare le insolubili contraddizioni a cui perviene la
ragione nel momento in cui pretende di fornire una spiegazione razionale riguardante il mondo
nella sua totalità.
Funzione regolativa La funzione regolativa delle idee consiste nella loro capacità di guidare la
conoscenza, orientandola verso la massima unità e la massima coerenza possibili.
Le idee, infatti, non possono essere usate per conoscere gli oggetti ai quali si riferiscono (uso
costitutivo), ma possono servire come utile stimolo per dare un’unità sempre maggiore ai concetti
dell’intelletto.